1.1. La formazione dei giudizi di valore
Il medioevo è un’idea, qualcosa che è nella testa delle persone, non fuori di essa.
Dire medioevo è diverso da dire Beowulf, la cattedrale di Chartres, o Dante Alighieri. È bene ricordare questo, perché è
talmente tradizionale, talmente incardinata nell’insegnamento scolastico e universitario
la partizione fra età antica, medioevo, età moderna e contemporanea, talmente numerose
sono le cattedre, i corsi di laurea, i centri di studio intitolati al medioevo, che
si può rischiare di attribuire un’entità effettiva al medioevo, e di dimenticare che
è un concetto.
Ci sono inoltre due difficoltà nella definizione di questo concetto. Più di altre
epoche, quella che è stata definita medioevo ha implicato dei giudizi di valore, che
sono stati poi prevalentemente negativi, e comunque tali sono nel linguaggio corrente.
In secondo luogo, le definizioni di medioevo e l’elaborazione di quei giudizi di valore
si sono sdipanate su un lunghissimo arco di tempo, sino in piena età contemporanea,
e hanno così recepito visioni della storia e istanze culturali e politiche via via
differenti. È per questo che il medievista non può fare a meno di conoscere le età
moderna e contemporanea, perché è in queste età che si sono formate tante griglie
interpretative sul medioevo, che lo studioso di cose medievali deve decostruire (può
darsi invece che modernisti e contemporaneisti possano fare a meno di conoscere il
medioevo, e in effetti si ha l’impressione che tale conoscenza sia a volte un po’
difettosa).
Con ciò che si è detto, sia anche detto che non è molto produttivo sforzarsi di rintracciare
quando sono apparse precisamente nella storiografia le prime attestazioni di termini
come media aetas e simili. D’altronde quando apparvero queste formalizzazioni c’era già una sedimentazione
molto lunga, e risalente al medioevo stesso, di modi di visione del passato che suggerivano
l’idea di un ordine antico rispetto al quale, a un certo punto della storia, si era
verificato un mutamento.
Per quasi tutto il medioevo la connotazione di tale ordine antico era stata dominata
da un’ottica, quella del sistema politico, e da un’idea centrale, quella dell’impero.
Era l’impero romano, l’impero di Augusto e di Costantino, il fatto che aveva qualificato
il passato. Non si deve pensare che fosse un’ideologia libresca, limitata a una ristretta
élite di uomini di corte e di letterati. Il problema dell’impero, cioè di una autorità
che fosse sovrana su una pluralità di nazioni differenti per lingua e per civiltà,
era un problema vitale nei contesti dei movimenti di popolazioni e degli assestamenti
etnici che caratterizzarono una gran parte del medioevo.
Rispetto alla situazione dell’impero romano due novità erano intervenute. La capitale
era stata traslata da Roma a oriente, a Costantinopoli-Bisanzio. In occidente vi era
stata una discontinuità di più di tre secoli della sede imperiale, dalla deposizione
di Romolo Augustolo nel 476 alla restaurazione imperiale di Carlo Magno nell’800.
Questa restaurazione fu vista dai contemporanei come tale, come il ripristino di un
ordine passato; i panegiristi di Carlo Magno ripresero, nel tesserne gli elogi, stereotipi
augustei, e vi fu anche chi considerò l’opera di Carlo non una mera restaurazione
ma anzi un progresso: secondo Nitardo, l’impresa più mirabile di Carlo era stata quella
di avere represso «gli animi feroci e ferrei dei barbari e dei Franchi, che nemmeno
la potenza romana era riuscita a domare».
La seconda innovazione rispetto all’ordine imperiale antico era nella definizione
cristiana dell’autorità politica, nell’intolleranza di altre religioni e nel ruolo
di tutore della cristianità e dell’ortodossia attribuito all’imperatore. Tale ruolo
risaliva anch’esso a molti secoli prima di Carlo Magno, risaliva al IV secolo, il
secolo di Costantino il Grande e di Teodosio, e dunque non si avvertiva cesura, ma
semmai, anche in questo caso, progresso. La cristianizzazione aveva però comportato,
fra l’età di Costantino e quella di Carlo Magno, una enorme attribuzione di prerogative
temporali e politiche alla Chiesa, in particolare alla Chiesa romana, e questo era
stato uno dei principali motivi di distacco fra Roma e Bisanzio. Un testo che avrebbe
avuto enorme importanza nel medioevo, la cosiddetta Donazione di Costantino, forgiata
nel secolo VIII, dava fondamento giuridico a una sorta di sovranità papale su quella
che era stata la parte occidentale dell’impero romano.
Solo verso il Mille si affacciarono, e nuovamente in funzione di una renovatio imperiale (promossa ora nell’elevato ambiente intellettuale che si era formato attorno
a Ottone I e ai suoi successori), alcune idee di decadenza rispetto a un buon ordine
imperiale antico. Queste idee si collegavano a giudizi negativi sulla moralità dei
papi recenti, e ci fu anche un singolare accenno a qualche intervento falsificatorio
nella Donazione di Costantino. Furono però episodi circoscritti, e che comunque non
concludevano su una effettiva periodizzazione del passato. Un primo, importante scarto
si ebbe nel secolo XII. Giuocò adesso la rinascita del diritto romano nelle università
e negli stati: quell’imponente organismo, cristallizzato nel Corpus iuris civilis giustinianeo, venne considerato un possibile fondamento comune a formazioni politiche
diverse, un sistema parallelo e sottostante alle leggi e alle consuetudini particolari
di ciascuna città o territorio. Inoltre l’ambiente imperiale di Federico Barbarossa
si specchiò in quella tradizione giuridica per ripristinare l’affermazione di un’autorità
imperiale, di una res publica garantita dall’imperatore, che appariva decaduta e che si sarebbe voluta invece di
nuovo prevalente sulla miriade dei poteri locali di nobili, prìncipi, città. Molte
città, d’altro canto, andavano definendo adesso una propria sovranità pubblica, e
in questo contesto si riesumarono termini antichi, con magistrati chiamati consules, e a Roma risuonarono appelli a richiamare in vita una classica e gloriosa istituzione
quale il Senato, mentre si denunziava l’attribuzione che il clero si era fatta di
prerogative non sue.
Prevaleva comunque sempre, nel secolo XII, un carattere di mitologia retrospettiva
rispetto a una qualsiasi periodizzazione delle epoche e a una qualsiasi valutazione
sulle modalità del mutamento storico. Lo stesso giudizio si può dare dei tanti richiami
all’antico che si ebbero nella cultura e nella politica del Duecento e del primo Trecento.
Brunetto Latini, che imperniò il suo ragionare politico su una ripresa ampia e geniale
della retorica ciceroniana, disegnò una evoluzione del tutto mitica del vivere civile.
Il suo allievo Dante Alighieri, che espresse un giudizio negativo sulle conseguenze
della Donazione di Costantino (senza dubitare peraltro della sua autenticità), collocò
in orizzonti cronologici di volta in volta diversi (che andavano dalla Chiesa prima
di Costantino al buon tempo antico della Firenze del secolo XII) gli inizi di decadimento
nella vita ecclesiastica e nei costumi del vivere civile. Anche la contestazione dell’ideologia
teocratica e la rivendicazione dell’autonomia del potere imperiale, elaborate da Marsilio
da Padova, implicarono solo marginalmente una valutazione periodizzante del passato.
Ma non molti anni dopo le grandi opere di Dante e di Marsilio una convergenza di esperienze
politiche, religiose e culturali impresse una svolta più netta verso una denunzia
dei tempi presenti e verso una valutazione retrospettiva. Nella lotta politica dei
ceti popolari contro lo strapotere delle grandi famiglie nobili, si levò il rimpianto
per i «buoni Romani» e la loro «summa iustizia»: Cola di Rienzo, che avrebbe voluto
vivere al tempo di quel buon ordine, si immergeva nella lettura di Tito Livio e di
altri classici e decifrava le epigrafi che erano «intorno a Roma» sotto gli occhi
di tutti, ma che solo i suoi occhi, ispirati dalla passione politica, sapevano leggere.
Negli stessi anni, cioè nei decenni centrali del secolo XIV, movimenti religiosi accentuavano
la questione della povertà evangelica e denunziavano la ricchezza, e la conseguente
corruzione, di una Chiesa che avrebbe tralignato rispetto a un modello primitivo,
apostolico, di purezza e mendicità.
L’impulso politico a una bene ordinata res publica e l’impulso religioso a una comunità cristiana povera ed egualitaria convergevano
così a formare il sentimento di una cesura fra una buona antichità e una successiva
corruzione. Ma fu su un altro versante, letterario e artistico, che l’idea della cesura
assunse i suoi contorni più marcati. E ciò accadde perché su questo versante i protagonisti
del Trecento e del Quattrocento non videro se stessi coinvolti nella decadenza e sue
vittime, ma di se stessi andarono fieri, si considerarono portatori di una novità
e di una modernità che traeva forza dal loro genio e, congiuntamente, dalla ripresa
e dalla rivitalizzazione di forme antiche. Forme della scrittura, anzitutto. Francesco
Petrarca celebrò la littera antiqua, nella quale riconobbe la norma grafica più prossima a quella dei codici dei primi
secoli, dei quali egli, come Giovanni Boccaccio e altri grandi, era appassionato ricercatore.
Le scoperte dei codici greci e latini nel secolo XIV andarono di pari passo con una
volontà di imitazione, ripresa e risorgimento che implicava la rivitalizzazione di
modelli letterari, quali ad esempio l’epistola, l’elogio degli uomini e delle donne
illustri, il dramma profano. E andò infine crescendo, soprattutto nelle città italiane
dalla metà del Trecento in avanti, la ripresa di forme della creazione architettonica
e figurativa.
L’attenzione ai monumenti classici e la loro riesumazione non erano mai venute meno,
in realtà, nei secoli medievali. Imperatori sassoni e svevi, scultori operanti nelle
chiese cattedrali, ricchi cittadini con spirito di collezionismo, avevano concorso
a una plurisecolare storia di reimpieghi di spolia in monumenti ecclesiastici e civili e di imitazioni di modelli figurativi romani
ed ellenistici. In qualche rarissimo caso si era anche affacciato un giudizio di superiorità
di quei reperti della antiquitas rispetto alla «pochezza dei moderni» (modernorum parcitas). Ma è fuori discussione l’eccezionalità di testimonianze del genere, a parte l’assoluta
indeterminatezza dei concetti di «antichità» e «modernità» in quei contesti. Ancora
alla metà del Trecento, non si può esagerare lo spessore della passione antiquaria
del notaio trevigiano Oliviero Forzetta, che nel 1335 ricercò a Venezia, in un manipoletto
di codici e altri oggetti pregiati, sculture di teste classiche con ghirlanda e infula,
figure di leoni e altri animali e un altorilievo romano con quattro putti. Vero è
che questo tipo di collezionismo si andava facendo sempre meno isolato, e che nello
stesso periodo il signore di Verona fece riprendere in affreschi alcuni ritratti esemplati
su antiche monete e ripristinò una antica statua drappeggiata femminile in una piazza
centrale della città. L’aumento quantitativo di simili attenzioni, utilizzi ed esperienze,
il suo collegarsi ai movimenti ideologici e letterari, l’accresciuta circolazione
culturale, tutto infine condusse a uno stacco, per cui i modelli antichi furono lucidamente
contrapposti all’arte barbarica.
Lo stacco, il passaggio dal fatto imitativo e dall’inserimento occasionale al sistematico
gusto classicista, divenne nettissimo con l’umanesimo, nel Quattrocento, quando artisti
come Jacopo della Quercia e Donatello ripresero e rilessero in una loro autonoma e
geniale ispirazione i lineamenti dei volti antichi, e architetti e scultori come Lorenzo
Ghiberti, Filippo Brunelleschi e Leon Battista Alberti modernizzarono forme classiche
dell’architettura e dell’ornamentazione, non senza teorizzazioni importanti sulle
arti e sulla loro storia, nelle quali si andò delineando il concetto di un’epoca di
mezzo che aveva veduto obliterarsi una grande tradizione antica, risorta adesso finalmente
nell’ambito di una «modernità»: il significato tradizionale di modernus nel senso di «recente», «attuale» veniva ad assumere una valutazione positiva, e
albeggiava così quella che sarebbe stata la tripartizione scolastica «antico-medievale-moderno».
Ma di pari passo con il senso del distacco dalle culture che erano succedute alla
crisi dell’impero romano-ellenistico si sviluppò un’attenzione ad alcuni aspetti di
quelle culture stesse. Si cominciò a studiare la lingua dei testi mediolatini, si
ripensò quel mondo greco che era stato progressivamente emarginato nella cultura europea
occidentale, ma che era pure sopravvissuto per tanti secoli grazie a una struttura
politica medievale, l’impero bizantino crollato sotto la pressione turca appena alla
metà del Quattrocento, e che nel campo delle arti figurative aveva costituito una
lunga cerniera tra antichità e modernità. Tutto questo si svolse nel quadro di un
meraviglioso slancio della filologia, intesa sia come restituzione di testi sia come
discernimento critico dell’autenticità e della falsificazione. E vi furono importanti
collegamenti fra impegno erudito, critica filologica e contestazioni delle falsità
che erano state apportate nel medioevo, soprattutto a maggior gloria e potenza della
Chiesa di Roma. Lorenzo Valla («il migliore italiano che mai in vita mia abbia visto
o sentito», avrebbe avuto occasione di dire Martin Lutero), contestualmente all’impegno
nel ripristinare la lingua e la cultura latina classica contro le corruzioni di «Goti
e Vandali», dimostrò nel 1440 la falsità della Donazione di Costantino in maniera
inconfutabile, anche se ci sarebbero voluti un paio di secoli perché tale inconfutabilità
fosse da tutti riconosciuta.
Si era così formata entro la metà del Quattrocento, e si sarebbe evoluta su tutto
l’arco del secolo, una serie di parametri di giudizio sulla letteratura e l’arte,
la politica e la relazione tra Chiesa e potere politico, la moralità ecclesiastica,
che suggeriva una visione del passato per individuarvi gli inizi dei decadimenti,
sempre in funzione, come era stato nei secoli precedenti, di una auspicata «riforma».
Quando la «riforma» si realizzò, con l’esito della lacerazione della cristianità innescata
dalle tesi luterane, ciò comportò una rilettura giudicante della storia passata del
cristianesimo, chiarì ed esasperò i giudizi che da tempo erano stati portati sulla
deviazione romana dal cristianesimo delle origini, e si concluse da parte protestante
in una visione del papato e di componenti tradizionali della religiosità cristiana
(il culto dei santi e delle reliquie, i pellegrinaggi) come di cosa del demonio. Era
però da chiarire in quale momento della storia il demonio fosse intervenuto. Negli
scritti di Lutero i riferimenti alla storia non hanno carattere sistematico, sono
sempre occasionali e dispersi, con rari accenni a una periodizzazione di massima.
Certamente egli considerò sotto una luce positiva non soltanto l’epoca delle origini
cristiane, ma tutta una lunga fase che includeva i padri della Chiesa, Agostino in
particolare, e i primi concili, fra i quali nominò più di una volta il Niceno del
325. Le più atroci corruzioni della Chiesa, cioè la rapacità del papa e dei cardinali,
il mercimonio dei benefici ecclesiastici, la spoliazione delle risorse della Germania
e di tutte le terre cristiane a beneficio di Roma, che discendeva dall’autoattribuzione
romana della collazione dei benefici, tutto questo era cosa dei due secoli precedenti
Lutero, come in quel passato relativamente recente si inserivano l’ingiusta condanna
di Giovanni Hus e le ingiuste lacerazioni inflitte da Roma al tessuto della cristianità.
Ma senza dubbio i danni erano cominciati prima. In un luogo della Cattività babilonese della Chiesa (1520) Lutero scrisse, a proposito del sacramento dell’eucaristia, che la vera dottrina
era persistita nella Chiesa per milleduecento anni, e che gli errori erano apparsi
trecento anni prima, su questa come su altre questioni della fede: si riferì dunque
alla teologia scolastica, a san Tommaso, e a più riprese avrebbe condannato, nei suoi
scritti e nei suoi discorsi, il grande dottore del Duecento e l’opera del pagano Aristotele
che costui aveva celebrato. In realtà anche tutto il diritto canonico, elaborato tra
l’XI e il XII secolo, venne respinto da Martin Lutero come una mutazione perversa
della retta cristianità dei primi secoli, e altri importanti riferimenti – al divieto
di matrimonio dei chierici, alla separazione dalla Chiesa greca, al rapporto feudale
tra papato e regno di Sicilia – riconducevano in una luce negativa tutta l’età della
riforma gregoriana, anche senza una esplicita qualificazione cronologica. Di più:
Lutero rievocò in più luoghi la fine dell’impero romano a opera di Goti e Longobardi,
e il fatto che il legittimo successore, che sarebbe stato l’imperatore di Costantinopoli,
era stato defraudato dal papato, il quale aveva trasferito l’impero ai tedeschi allo
scopo di infeudarlo loro e affermare una sua indebita sovranità: una usurpazione,
dunque, nel quadro della quale si inseriva anche la falsa Donazione di Costantino.
In questo insieme di riferimenti storici, che si traggono soprattutto dal libro Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca (1520), era dunque lungo tutta l’epoca medievale che si vedeva scaglionata la serie
di opere dell’Anticristo.
Nei decenni centrali del Cinquecento, ancora in ambito protestante, si consolidò il
giudizio della Chiesa romana come dell’Anticristo e si elaborarono gallerie degli
orrori papali. Con alcune incertezze, come nel caso di Gregorio Magno, da un lato
considerato fra i buoni padri della Chiesa ma talora visto come colui che aveva fatto
compiere un passo in direzione del primato romano e aveva favorito assurde dilatazioni
liturgiche; o nel caso di Gerberto di Aurillac, alias papa Silvestro II, il quale
era piena espressione della nefandezza papale ma si sapeva anche essere stato verso
l’anno Mille un accusatore della degenerazione morale dei suoi predecessori romani.
Talora si avanzarono interpretazioni giustificatrici, mostrando santi uomini come
Gregorio Magno coinvolti senza loro colpa nella degenerazione barbarica delle invasioni
e della caduta dell’impero romano. Era la ripresa di un paradigma umanistico, che
venne adesso accentuato nello slancio meraviglioso dell’arte rinascimentale e nell’autoconsapevolezza
teorica e storica dei suoi protagonisti, segnatamente di Giorgio Vasari, che riprendendo
e ampliando le teorizzazioni quattrocentesche consolidarono definitivamente l’immagine
di una crisi del mondo antico, e in particolare delle sue scuole artistiche, e di
una successiva barbarie che avrebbe definito l’«età di mezzo».
Nella valutazione negativa di questa età di mezzo confluivano così due correnti ideali.
C’erano i motivi protestanti, con uno sforzo accentuato di definizione storica: da
Flacio Illirico, primo vero sistematore della cronologia, autore di una storia ecclesiastica
suddivisa in Centuriae, edite a Magdeburgo fra il 1559 e il 1574, al calvinista Philippe Du Plessis de Mornay,
autore di una Histoire de l’iniquité (1611), dove era ricostruita la deprecata evoluzione del papato. E c’era la cultura
letteraria e artistica rinascimentale, che non seguiva i paradigmi dei riformatori
quanto alla storia della fede cristiana ma condivideva l’idea della cesura introdotta
dalle invasioni barbariche.
Nonostante che si fosse così depositato attraverso i sentimenti e le idee di generazioni
e generazioni, e si fosse nettamente definito tra la metà del Cinquecento e gli inizi
del Seicento, il concetto di una età di mezzo come della decadenza rispetto a un insieme
di ordini e di valori antico, quella età di mezzo continuava a suscitare, e con andamento
crescente, l’attenzione, l’interesse e l’operosità delle persone colte. C’era la consapevolezza
del fatto che era ben attraverso i secoli successivi alla caduta dell’impero romano
d’occidente che si erano realizzate le copie dei testi antichi, e si era accumulato
un immenso patrimonio di scritture e di cultura. Ma dalla metà del Cinquecento si
avviò anche un maestoso crescendo di studi e di edizioni di testi medievali, nel quadro
di esperienze storiche diverse. Preminente fra queste la costruzione degli stati:
che fossero regni o repubbliche cittadine, suggerivano una ricerca delle fonti sulle
loro origini e la loro storia passata, e queste fonti erano per una gran parte cronache
e altri documenti medievali. La stessa polemica religiosa spingeva a una critica dei
testi, come sarebbe accaduto – ne diremo tra poco – per le narrazioni agiografiche.
L’erudizione e la filologia si alimentavano anche su se stesse, non in necessaria
dipendenza dalla loro portata ideologica, filosofica, politica e religiosa. Infine,
la storia cominciò ad affermarsi, tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento,
come materia di insegnamento nelle università e nei collegi scolastici, ciò che comportava
necessità di metodo e approntamento di materiali eruditi.
Si cominciarono così a produrre, soprattutto in Francia e nei Paesi Bassi, grandi
raccolte a stampa di fonti e importanti strumenti di lavoro. E questo implicò una
più o meno consapevole definizione di una gerarchia di importanza delle fonti: cosa
trascegliere, per l’edizione a stampa, nei milioni di pergamene e di carte che affollavano
gli archivi e le biblioteche d’Europa? Indiscusso apparve il peso di quelle fonti
che chiamiamo narrative, o storiografiche, e che gli eruditi dell’età moderna definirono
attribuendo ai loro autori il termine latino scriptores: esposizioni di vicende storiche scritte con il deliberato proposito di tramandare
notizia dei fatti. Una classe speciale di narrazioni, quelle agiografiche (vite di
santi, loro morte, traslazione, miracoli, eventuali processi di canonizzazione), si
impose anch’essa all’attenzione degli eruditi e degli editori.
Un’altra serie di fonti che sembravano più importanti di altre erano le fonti legislative:
dal Corpus iuris civilis giustinianeo alle leggi nazionali di Goti, Franchi, Longobardi, Sassoni, alle leggi,
costituzioni e decreti di re e imperatori. In campo ecclesiastico, i decreti dei papi
e le deliberazioni dei concili, cioè delle sessioni di vescovi della cristianità tutta,
o di certi regni, o di una provincia ecclesiastica (l’insieme di più diocesi), apparivano
anch’essi testi da considerare in alto grado ai fini di una edizione a stampa.
Le fonti legislative ponevano per la verità un problema serio: a partire dal Duecento,
quando una miriade di centri di potere molto autonomi, prime fra tutte le città, ma
anche castelli e borgate, corporazioni, confraternite, ospedali emanavano loro raccolte
di consuetudini e loro leggi (queste per lo più designate come statuti), i manoscritti
di tale contenuto erano migliaia, sparsi per tutta Europa. Un criterio di praticità
e una implicita valutazione di merito fecero sì che a lungo andare solo le leggi imperiali
e regie e i decreti papali e conciliari dessero luogo a sistematiche pubblicazioni.
Inoltre, si instaurò il criterio, più implicito che scientificamente difeso e difendibile,
dei «testi più antichi».
Accanto a narrazioni e leggi, una terza serie di testi era considerata di speciale
rilievo. Si trattava dei documenti emanati da imperatori e re, papi, e anche altre
autorità politiche e religiose (marchesi, duchi e conti, vescovi e abati), non al
fine di generale legislazione ma allo scopo individuale di certificare un diritto
giuridico di persone o enti: donazioni e concessioni di beni fondiari, di diritti,
di privilegi fiscali e giurisdizionali. Caratteristica di questi documenti, che ricevettero
il nome tecnico di diplomi (diploma, plurale diplomata) era una struttura formale ben definita, necessaria al valore giuridico dell’atto,
dove si contemplava la presenza, oltre all’autore e al destinatario, di una terza
figura, quella del tecnico che confezionava formalmente il documento (un notaio o
un cancelliere) e lo strutturava nelle due sezioni del «testo», dove si conteneva
la sostanza specifica dell’atto, e del «protocollo»: una sorta di cornice, quest’ultima,
che contemplava la datazione, l’elenco dei testimoni, la sottoscrizione del notaio
o cancelliere, eventuali formule o simboli (invocazione divina, monogrammi ecc.),
il tutto indispensabile a fornire valore giuridico all’espressione della volontà delle
parti.
Questi elementi strutturali accomunavano i diplomi regi e papali e di altre autorità
alla miriade dei documenti privati e di più ordinaria natura: compravendite, donazioni,
locazioni, testamenti, obbligazioni creditizie ecc. Negli archivi erano custodite
quantità sterminate di scritture del genere, e perciò si poneva anche qui, in maniera
più drastica che mai, il problema di un criterio selettivo. Esso consistette nel privilegiare
i diplomi degli imperatori e dei re e nel tralasciare la gran massa degli atti privati.
Si fece però una eccezione in base al criterio dei «testi più antichi»: si produssero
così dei «codici diplomatici», relativi a chiese, città e rispettivi territori, regioni,
i quali contenevano l’edizione dei «diplomi», sia pubblici che privati, dell’alto
medioevo e dell’età romanica (generalmente non si andava oltre il XII secolo). Quanto
alle lettere e alle bolle papali, fu giocoforza pubblicare con una qualche sistematicità
solo quelle anteriori al Duecento, cioè all’epoca a partire dalla quale il trionfo
del primato romano, l’organizzazione della cancelleria pontificia e lo sviluppo economico,
culturale e politico d’Europa avevano fatto aumentare sino nell’ordine dei milioni
di pezzi i documenti emanati dalla Sede Apostolica: si lasciò insomma ai posteri la
fatica di districarsi in quella foresta.
Il lavoro di edizione a stampa dei documenti medievali andò di pari passo con la messa
in opera di strumenti interpretativi e di una metodologia filologica. Nel primo campo
un grande esponente dell’erudizione francese, Charles Ducange, produsse nel 1678 un
dizionario del latino medievale al quale si fa ricorso ancora oggi (se ne riparlerà
nel capitolo 3); nel titolo Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, compariva ancora una volta quel concetto di «età di mezzo» che sempre più si sarebbe
consolidato fra Sei e Settecento. Sul terreno della filologia e dell’analisi testuale,
l’età moderna vide anzitutto fondamentali approfondimenti della critica volta ad accertare
autenticità e falsificazione. Come era accaduto per la Donazione di Costantino e la
dimostrazione della sua falsità a opera del Valla, così adesso la metodica dell’autentico
e del falso fu tutto fuorché un asettico e accademico esercizio. L’età delle guerre
di religione e della strutturazione degli stati assoluti vide conflitti che si appoggiavano
alla valutazione di testi in buona misura medievali, fossero diplomi che attribuivano
giurisdizioni territoriali a questo o quello stato oppure leggende agiografiche sulle
quali si basavano rivendicazioni di prestigio, autonomia o supremazia di chiese e
di ordini religiosi. Le vite dei santi, denunziate in ambito protestante anche con
gli argomenti della loro frequente inattendibilità storica e dell’opportunistica forgiatura,
furono oggetto di analisi molto attente. Da parte cattolica si volle rispondere all’ipercritica
protestante: e gli ingegni migliori si impegnarono non già nel rivendicare in blocco
l’autenticità delle narrazioni agiografiche, bensì sforzandosi di mettere in luce
quali narrazioni e documenti fossero effettivamente falsi e quali invece non meritassero
l’accusa.
Fu questa l’opera di studiosi gesuiti e benedettini originari dei Paesi Bassi e della
Francia (Héribert Rosweyde, Jean Bolland e i Bollandisti da lui così detti, Daniel
Van Papenbroek, Jean Mabillon), operosi nel Sei e nel Settecento, e il cui primo grande
risultato fu l’edizione sistematica delle vite dei santi (Acta sanctorum, avviati nel 1643 e ancor oggi in fase di completamento). L’edizione delle leggende
agiografiche era corredata di testi collaterali (narrazioni di traslazione, processi
di canonizzazione, documenti diversi riguardanti il santo o le chiese a lui intitolate)
e di ampi apparati di introduzione e commento. Fra i quali ebbero peso speciale alcune
trattazioni metodiche volte ad accertare l’autenticità o meno dei testi, specialmente
dei diplomi che sostenevano il diritto di certe chiese a certe intitolature, la presenza
di reliquie, le fondazioni a opera di santi.
L’opera di questi studiosi di cose medievali non aveva certamente un impatto eversivo
pari a quello suscitato dall’impegno storico-critico che nella stessa epoca si applicò
all’analisi dei testi biblici, dove rifulse l’eccezionale analisi di Richard Simon
(1638-1712). Negare l’esistenza storica di un santo era un po’ diverso dal negare
la paternità mosaica di vaste sezioni del Vecchio Testamento. Nondimeno molti ambienti
religiosi ostacolarono con durezza di tono e di mezzi la critica testuale, spesso
implacabile, dei Bollandisti. Una scelta schiera di eruditi cattolici rivendicò invece
il necessario predominio della critica razionale dei testi su ogni opportunità pratica
e ogni solennizzazione canonistica o dogmatica.
A questa corrente appartenne in Italia Ludovico Antonio Muratori, acuto denunziatore
di falsi e soprattutto grande promotore di edizioni sistematiche di fonti. Con una
scelta molto consapevole, egli privilegiò anzitutto gli scriptores, cioè le fonti narrative, e produsse una collana dei testi medievali italiani di
tale genere: i Rerum Italicarum Scriptores (1723-1751), che sarebbero stati poi ripresi da una nuova iniziativa editoriale agli
inizi del Novecento. Contemporaneamente, però, si interessò a testi di altra natura
(monumenti figurativi ed epigrafi, monete e sigilli, scritture di carattere non narrativo)
e organizzò una loro raccolta di tipo tematico, in funzione di aspetti diversi della
storia medievale italiana: istituzioni politiche, condizioni personali delle popolazioni,
strutture giudiziarie e militari, legislazione, produzione artistica e artigianale,
commerci, lingua e cultura, scuole. Tutti gli aspetti della civiltà, insomma, esposti
in queste geniali Antiquitates Italicae Medii Aevi (1738-1742), al cui interno furono contemplati anche alcuni scriptores ma tennero il campo testi di altro tipo, e in particolare i diplomi. Il «medio evo»,
come si vede anche dal titolo delle Antiquitates muratoriane, era ormai un concetto consolidato. Ciò che del resto avveniva nell’insegnamento
scolastico e universitario e nella trattatistica storica generale, dove si andava
cristallizzando la tripartizione antichità-medioevo-età moderna.
L’analisi delle falsificazioni aggiunse una connotazione negativa alle altre che già
si erano addensate sui secoli di mezzo. Sia i grandi eruditi cattolici dei Paesi Bassi
e della Francia che il Muratori e i suoi maestri e colleghi italiani avevano un senso
acuto del vero e del falso, anche se potevano concedersi qualche momento di consapevole
indulgenza verso le «buone intenzioni» e soprattutto verso la mentalità, non così
repellente dalla falsificazione, dei religiosi del medioevo. Ma certamente non erano
giustificazionisti, erano ingenui razionalisti del Sei e del Settecento e non scaltri
e raffinati medievisti del Novecento; ritenevano che fare dei falsi fosse una brutta
cosa, e ritennero che il medioevo fosse stato effettivamente un’epoca privilegiata
della falsificazione.
Fu però su altri terreni che il Settecento inserì nuovi criteri di giudizio, anch’essi
di segno negativo, e destinati poi a essere i più importanti nella comune opinione
sui secoli di mezzo. Nell’ambito dell’illuminismo francese e scozzese l’epoca seguita
alla caduta dell’impero romano venne considerata come il trionfo di una barbarie e
di una superstiziosità religiosa che per secoli avrebbero represso sia le fondamentali
libertà degli uomini che il loro sviluppo culturale e civile. Voltaire, che più di
altri si soffermò sulla ricostruzione storica del passato, iniziò nel 1741 l’elaborazione
di un saggio di storia generale nel quale i secoli medievali tenevano gran parte.
Edito in diverse redazioni a partire dal 1756, poi continuamente rielaborato da Voltaire
sin verso la fine della sua vita (1778), il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (Essai sur les moeurs et l’esprit des nations) raffigurò il passaggio dalla storia dell’impero romano a quella dei popoli che lo
avevano smembrato in occidente con gli occhi di un viaggiatore che, «uscendo da una
superba città, si trovi in un deserto ricoperto di rovi»:
Venti parlate di barbari succedettero alla bella lingua latina che si parlava dal
fondo dell’Illiria ai monti dell’Atlante. Al posto delle sagge leggi che reggevano
metà del nostro emisfero, non si trovano più che costumi selvaggi. I circhi, gli anfiteatri
costruiti in tutte le province si mutano in capanne coperte di paglia [...]. La stessa
rivoluzione si realizza nello spirito; e Gregorio di Tours, il monaco di San Gallo,
Fredegario, sono i nostri Polibio e Tito Livio.
Tale barbarie si sarebbe protratta per secoli. Ai tempi di Carlo Magno, e per tanto
tempo a venire, l’Europa fu come una sequenza di deserti «dove lupi, tigri e volpi
sgozzano greggi spaurite e disperse». A questi secoli infelici Voltaire faceva risalire
il trionfo dell’infame supremazia della Chiesa romana, delle risibili storie di miracoli
e di santi e dei relativi culti, che anche i Bollandisti – egli scrisse in una pagina
un po’ ingenerosa – avevano avallato, e anche tutto quell’apparato di omaggi feudali
e di tradizioni e oneri signorili che ancora al suo tempo irretivano ogni villaggio
francese: «Nella maggioranza dei tribunali si ammette la massima Nessuna terra senza signore (Nulle terre sans seigneur), come se non bastasse appartenere alla patria».
Correlato a questo aspetto della valutazione illuministica del medioevo fu l’altro,
anch’esso portatore di un giudizio negativo, espresso nel campo della storia economica.
I padri fondatori dell’economia politica integrarono sempre le loro analisi teoriche
con ampie riflessioni sulla storia d’Europa. Adam Smith inserì nella Ricchezza delle nazioni (The Wealth of Nations, 1776) un profilo sul Diverso sviluppo della prosperità nelle diverse nazioni, dove spiegò come mai lo sviluppo economico dell’Europa moderna avesse seguito un
cammino del tutto inverso rispetto a quel «naturale ordine delle cose» che vorrebbe
una prima crescita del capitale nell’agricoltura, poi la sua destinazione alle manifatture
e solo alla fine al commercio estero. In Europa la caduta dell’impero romano e le
invasioni barbariche avevano interrotto le relazioni economiche fra città e campagne
e avevano dato inizio a un assetto agrario che implicava enormi ostacoli all’accumulazione
di ricchezza nel settore agricolo: alla fine della schiavitù antica era succeduto
nel medioevo un sistema librato fra grandi proprietari, privi di attitudine e interesse
all’incremento della produttività delle loro terre, e mezzadri e altri concessionari
contadini schiacciati da un altissimo prelievo del loro prodotto sia in forma di canone
fondiario sia in forma di prelievo signorile. La ripresa economica avrebbe avuto il
suo punto di partenza nelle città (con un primato italiano e delle città marittime
e un ruolo importante delle crociate). I residenti cittadini, inizialmente assai poveri,
e i più intraprendenti costretti a girovagare per cercare un guadagno, avrebbero però
raggiunto prima dei residenti rurali uno statuto di libertà e di indipendenza: su
di esso si sarebbe innestata la solidarietà fra cittadini, l’accumulo di ricchezze
attraverso l’attività mercantile e infine la ripresa di controllo sui territori rurali,
la riattivazione dello scambio economico fra campagne e città e la rivitalizzazione
dell’economia agraria. Non senza persistenze di vincoli e di oneri che nella visione
di Smith ostacolavano ancora ai suoi tempi lo sviluppo dell’attività economica e del
benessere sociale.
Quando con le rivoluzioni americana e francese si virulentò la lotta contro i ceti
privilegiati, i privilegi di aristocrazia e clero furono considerati un prodotto della
barbarie dell’età di mezzo, allo stesso modo che all’età di mezzo andavano ricondotte,
da un lato, le costrizioni religiose, politiche ed economiche, dunque le corporazioni
ma soprattutto l’impalcatura feudale e signorile e i privilegi ecclesiastici, e dall’altro
la frantumazione dell’autorità dello stato a profitto di una quantità di corpi privilegiati
e di circoscrizioni di dominio signorile. Si consolidarono le idee-forza di aristocrazia
e di feudalesimo, e la riconduzione delle loro origini a quell’epoca della storia
europea che si era inaugurata con le invasioni barbariche. Furono sentimenti e idee
diffuse in Europa col diffondersi della cultura rivoluzionaria francese per la mediazione
dell’imperialismo napoleonico. Così, nel Mezzogiorno d’Italia, un aristocratico napoletano
e grande intellettuale, Davide Winspeare, dedicò nel 1811 a Gioacchino Murat un’ampia
Storia degli abusi feudali che si apriva con queste parole:
Il sistema feudale è stato il prodotto della rivoluzione che divise le provincie dell’Imperio
romano, che spinse nuovamente l’Europa nel seno della barbarie, e che cancellò tutte
le vestigie della coltura e delle leggi latine. Questo mostro uscito dalle foreste
de’ barbari, e allevato dalla ignoranza e dagli errori di tredici secoli, è stato
perseguitato quando la coltura è ricomparsa in Europa, e a misura che le nazioni,
rivolgendosi indietro e paragonandosi con loro stesse, hanno riconosciuto le loro
smarrite istituzioni, e si sono accorte d’essere tuttavia ricoperte dalla pelle e
dalle unghie de’ selvaggi.
1.2. Filologie e passioni
Ma ciò che si era verificato nella prima fase della configurazione negativa del medioevo,
quella del Quattro e del Cinquecento, si ripeté fra Sette e Ottocento: mentre le passioni
intellettuali, spirituali e politiche imprimevano un giudizio di valore negativo sull’epoca
che era seguita al tracollo dell’impero romano, il movimento culturale seguitava a
indagare i testi e i monumenti di quell’epoca stessa. A volte si esprimeva una divaricazione
tra un sentimento comune e diffuso di ripulsa o indifferenza verso il medioevo e un’attenzione
da parte delle persone di alta cultura. Nel settembre del 1786, in viaggio per Verona,
Wolfgang Goethe si era soffermato sulle rive del Garda a disegnare le rovine e la
torre del castello di Malcesine. Le persone del luogo lo avevano preso per una spia,
ed egli aveva cercato di spiegare l’interesse di artisti e viaggiatori per le antiche
rovine, come l’Arena di Verona. Bene l’Arena che era cosa romana, gli era stato risposto,
ma il castello di Malcesine? E Goethe si era prodigato in un ampio discorso per persuadere
«che non solo le antichità greche e romane, ma anche quelle dell’età di mezzo, meritavano
attenzione».
Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, fra illuminismo e primo romanticismo,
le rovine medievali furono in effetti l’oggetto di un attento sentimento di architetti,
pittori e letterati. Su questo tipo di attenzione avevano influito anche particolari
vicende dell’esperienza e del gusto letterario. Nel 1764 un autore inglese, Horace
Walpole, aveva dichiarato la volontà di conciliare due elementi della narrazione romanzesca
che erano stati sino ad allora drasticamente separati: la pura invenzione fantastica,
che secondo Walpole aveva predominato nel «romanzo antico» e l’aderenza alla realtà,
alla «natura», che gli appariva tipica dei tempi suoi. Egli tentò allora la conciliazione
tra invenzione e aderenza alla natura offrendo al suo romanzo Il castello di Otranto un’ambientazione storica, che era anch’essa una via di mezzo: non remote antichità
né i tempi vicini, ma il medioevo. Era per la verità un medioevo dai confini cronologici
assai incerti, tra la fine del secolo XI e la metà del XIII, con pochi riferimenti
a fatti, personaggi e ambienti della storia. Il medioevo era lo sfondo generico di
questo genere «nero», popolato di manieri, fantasmi e tragici amori e duelli. Nella
stessa epoca e nello stesso ambiente inglese, però, uno spessore diverso fu dato dall’interesse
alle tradizioni poetiche nazionali, e in particolare di quelle nazionalità che erano
state assorbite entro successivi quadri imperiali e statali, come il mondo sassone
sopraffatto dalla conquista normanna, e ancor più il mondo celtico. La passione per
il genere «nero» in sé e la rievocazione di tradizioni poetiche e culturali del passato
ebbero grande seguito alla fine del Settecento e agli inizi dell’Ottocento, con le
raccolte di antiche poesie anglosassoni, le riprese di ballate e canti popolari anglosassoni
e celtici o pseudoceltici e il culto delle antiche rovine (nutrito ad esempio presso
le società storiche e antiquarie scozzesi). Nel 1801 Walter Scott riassunse molti
di questi sentimenti in una Apologia dei racconti del terrore, e una ventina di anni più tardi avrebbe pubblicato il Sir Tristrem, versione inglese duecentesca della leggenda di Tristano, e avrebbe prodotto infine
un meraviglioso pasticcio storico-letterario ambientato nell’Inghilterra dei tempi
di Riccardo Cuor di Leone, e destinato a strabiliante successo in tutta Europa (Ivanhoe, 1823).
L’evento di maggior peso nella medievistica dei primi decenni dell’Ottocento si realizzò
però in un altro ambito. Si trattò della saldatura fra quegli studiosi che erano protagonisti
di primo piano nello sviluppo scientifico e un pubblico di discenti assai più vasto
che nel passato. Non fu certo la realizzazione del diritto di tutti i cittadini alla
scuola, che era stato propugnato dai giacobini negli anni della Grande Rivoluzione.
Era un pubblico ancora molto selezionato, soprattutto ai livelli superiori dell’istruzione.
Ma in questi livelli superiori cominciò tuttavia ad affermarsi il principio delle
generalità del diritto all’istruzione, e l’altro principio secondo cui solo chi ha
un’esperienza di ricerca scientifica in una disciplina è anche in grado di insegnarla
(per riprendere le parole semplici di un grande storico nostro contemporaneo, Delio
Cantimori: «il pane della scienza è tale, che chi non lo sa fare, non lo sa spezzare
come si deve ai giovani»). La formulazione e la concretizzazione di tale principio
avvenne anzitutto in ambito tedesco, dove al primato conseguito nel campo della filologia
(con i grandi lavori di edizione e di metodo avviati dalla metà del Settecento e culminati
entro la metà dell’Ottocento con le proposte teoriche di Karl Lachmann) si accompagnò
un primato nell’organizzazione degli studi, con la fondazione dell’Università di Berlino
e la definizione di quel nesso inscindibile tra ricerca scientifica e insegnamento
sul quale ancora oggi si fonda, o si dovrebbe fondare, l’istituzione che chiamiamo
università.
Fu così in ambito tedesco che si realizzò agli inizi dell’Ottocento la maggiore impresa
di edizione delle fonti medievali. Ancora una volta ciò accadde non in un’atmosfera
rarefatta di studi ma in un clima di passione politica e ideologica: la rivendicazione
di un passato culturale unitario fra quelle popolazioni di lingua e cultura tedesca
che si trovavano politicamente divise in molteplici stati territoriali, o distribuite
in una formazione sovranazionale come l’impero austriaco, e la considerazione del
peso che la civiltà germanica aveva avuto nella costruzione d’Europa. I «Monumenta
Germaniae Historica» (una società ispirata dal «santo amore di patria», come recita
il motto che ancora oggi si legge nei frontespizi dei suoi meravigliosi volumi) posero
al centro della propria attività l’edizione sistematica delle fonti che riguardavano
le popolazioni germaniche che si erano insediate in Europa, erano state organizzate
nel Sacro Romano Impero fondato da Carlomagno e alle cui stirpi aristocratiche avevano
appartenuto, per la gran parte dei secoli medievali, i vertici di quella compagine
politica. Era una concezione larga di «Germania», che implicava perciò l’edizione
di testi riguardanti i diversi paesi (la Francia e l’Italia, ad esempio, o i paesi
slavi) che nel medioevo erano stati inquadrati nella formazione imperialistica di
matrice carolingia, e dunque franca, e dunque germanica.
Mentre i criteri filologici di edizione dei «Monumenta Germaniae Historica» (abbreviazione
usuale: MGH) si rifacevano ai metodi che si andavano consolidando nella cultura accademica
tedesca per i testi biblici e classici, il criterio di scelta delle cose da pubblicare
riproponeva la questione delle fonti e delle loro gerarchie di importanza. Qui le
scelte dei promotori dei MGH furono sostanzialmente conservative, e in linea con l’elaborazione
sei e settecentesca. Privilegiarono infatti tre grandi classi di fonti: le narrazioni
storiche, comprese nella collana degli Scriptores (abbreviazione usuale: SS), le leggi (Leges: LL), i diplomi (Diplomata: DD), e adottarono per leggi e diplomi, di fronte alla immensa congerie dei materiali
depositati in archivi e biblioteche, il duplice criterio della maggiore autorità da
cui emanavano i testi e della maggiore antichità: dunque, nel campo delle leggi, le
leggi nazionali, i capitolari carolingi, le costituzioni imperiali e alcuni atti di
concili, e non la miriade di statuti delle città e degli organismi collettivi (corporazioni,
ospedali ecc.); nel campo dei diplomi, quelli di imperatori e re.
In realtà sappiamo che già nelle discussioni preparatorie della loro grande impresa
i padri fondatori dei MGH avevano contemplato l’opportunità di pubblicare fonti che
non rientravano nella triade SS, LL, DD. Progettarono così una sezione di Antiquitates (AA), che però avrebbe molto stentato a vedere la luce. Va anche detto che per la
sterminata quantità degli atti privati e degli atti locali delle pubbliche amministrazioni
ci si affidava alle diverse iniziative nazionali. Tanto più che, nei decenni centrali
dell’Ottocento, la centralizzazione degli archivi presso le autorità statali e la
loro apertura al pubblico avevano imposto urgentemente i problemi della conservazione
e della edizione dei testi medievali.
Questi problemi organizzativi, eruditi e filologici si accompagnarono ancora una volta
a elementi politici, emotivi e sentimentali. Non solo nei paesi tedeschi, ma in tanti
luoghi d’Europa le tradizioni locali e l’interesse alle lingue, alle culture e alle
letterature nazionali dilagarono nell’età della Restaurazione e dei Risorgimenti.
E dalla metà del secolo si affermarono forme variegate di medievalismo, cioè di positiva
e talora nostalgica valutazione dell’arte e dello «spirito» dei secoli di mezzo. Sulla
scia degli inglesi, da Horace Walpole a Walter Scott, la «pelle e le unghie dei selvaggi»,
di cui aveva detto Davide Winspeare, seguitarono a ricoprirsi di mantelli ed elmi,
spade e scudi e insegne, a ingentilirsi di tornei, dame e giocolieri, ad aggirarsi
in fascinosi castelli e soprattutto nelle cattedrali gotiche che tuttora imponevano
la loro maestosa bellezza.
L’attenzione al medioevo espressa nei «Monumenta Germaniae Historica» si inseriva
dunque, oltre che nelle passioni politiche, nazionali e intellettuali delle quali
ho dato cenno, in un movimento complesso e anche confuso di rievocazione: un movimento
che nella cultura tedesca aveva avuto uno sviluppo tutto particolare, dall’attenzione
di Goethe alle rovine medievali che ho ricordata sopra, alle immagini di cattedrali
gotiche dilaganti nella pittura fra Sette e Ottocento (ricordiamo il grande Caspar
David Friedrich, 1774-1840), al «medievalismo» di poeti che avevano mostrato rimpianto
per l’epoca in cui l’Europa cristiana era stata tutta unita nella fede (Novalis, Cristianità o Europa, 1799), alle più lucide valutazioni del medioevo come dell’epoca che aveva ereditato
e trasmesso le culture letteraria e giuridica dell’antichità (Friedrich Schlegel,
e soprattutto il grandissimo storico del diritto Friedrich Karl von Savigny, professore
a Berlino, autore della Storia del diritto romano nel medioevo, 1815-1831).
Anche fuori della Germania si estesero, in parallelo con le iniziative editoriali
ed erudite, i sentimenti di attenzione al medioevo, quando non anche i veri e propri
«medievalismi». In Inghilterra proseguì gloriosamente la tendenza settecentesca e
poi romantica che privilegiava il momento «gotico» rispetto al «classico»; in Francia
questo «revival gotico» avrebbe condotto nei decenni centrali dell’Ottocento alla
grande opera di Eugène-Emmanuel Viollet Le Duc, architetto, restauratore di alcuni
tra i maggiori monumenti dell’arte gotica francese, massimo protagonista di un gusto
antiquario e medievalistico dove una straordinaria erudizione figurativa si univa
all’irresistibile tendenza, nella pratica architettonica e decorativa, alle forzature
e alle forgiature nel senso di quel gusto.
In Italia l’interesse alle cose medievali fu animato nei decenni centrali dell’Ottocento
da molteplici ragioni. L’apertura al pubblico degli archivi poneva problemi particolarmente
interessanti in un paese che era straordinario in Europa per la ricchezza delle scritture
medievali. Di speciale rilievo erano i documenti che erano stati prodotti e custoditi
in quelle città, numerose decine, le quali avevano avuto una lunga storia di autonomia
politica e amministrativa. Le Deputazioni di Storia Patria, di base regionale e in
parte corrispondenti agli stati italiani preunitari, nonché una miriade di società
storiche municipali, avviarono edizioni di fonti medievali italiane, ancora privilegiando
molto le fonti narrative, le leggi (statuti cittadini) e i diplomi. A queste fatiche
erudite ed editoriali faceva da sfondo la sentimentale esaltazione dei Comuni cittadini
medievali come di un’epoca aurea nella storia italiana per livello culturale, e soprattutto
per lo spirito di indipendenza e libertà che si riteneva avesse animato quei progenitori
contro lo straniero, cioè anzitutto contro l’impero tedesco, e poi contro ogni deriva
tirannica.
Era un atteggiamento analogo a quello che aveva ispirato in Svizzera, fra Sette e
Ottocento, le celebrazioni del medioevo, considerato come l’epoca fondante di quella
gloriosa storia di autonomie repubblicane. Ed era stato un illuminista svizzero a
produrre la prima grande sintesi di storia delle città comunali italiane del medioevo.
La Storia delle Repubbliche italiane del medio evo di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, apparsa in sedici volumi fra il 1807
e il 1818, poi riassunta nel 1832 in un volume unico che ebbe notevole diffusione
europea, fissò alcuni parametri di giudizio che si sarebbero incardinati poi stabilmente
nella valutazione del medioevo italiano e della storia d’Italia in genere: la rinascita
delle città come strettamente correlata allo sviluppo dei commerci e dell’economia,
il parallelismo fra slancio e liberazione dell’economia e sviluppo delle libertà civiche,
il declino di queste in Italia con l’avvento delle tirannie signorili, prima, e poi
delle preponderanze straniere. Nella generale visione della storia europea come storia
di progresso, che era sostanzialmente lo sfondo della sintesi di Voltaire, l’Italia
si inseriva con un suo proprio profilo, che inizialmente era quello di un’avanguardia
e faro di civiltà e in seguito declinava verso la decadenza economica e la fine delle
libertà civili e dell’indipendenza nazionale.
Questo schema non fu alterato dagli studiosi italiani dell’età del Risorgimento, nel
cui ambito non furono elaborate peraltro sintesi della storia dei Comuni cittadini
analoghe per ampiezza a quella del Sismondi. Gli italiani si trovavano poi stretti
in una non facile oscillazione ideologica fra la celebrazione dei valori di libertà
e autonomia locale e il glorioso finale monarchico e unitario cui la gran parte di
essi guardava con favore (come Cesare Balbo, autore di un diffusissimo e mediocrissimo
Sommario della storia d’Italia, 1846). Il contributo più importante alla medievistica italiana si realizzò invece,
come ho accennato, nel campo della sistemazione archivistica e in quello delle edizioni
di testi. Quanto alle opere letterarie di ambientazione «comunale» dell’Italia dell’Ottocento,
il tacerne è bello.
Furono peraltro due aspetti del medioevo italiano, estranei alle vicende comunali
cittadine, a ispirare opere importanti di letteratura e di storiografia. La più durevole
egemonia di una nazione germanica in Italia, quella dei Longobardi, aveva suscitato
molta attenzione negli eruditi italiani del Settecento e suggerì ad Alessandro Manzoni
una tragedia poetica, l’Adelchi (1822), ispirata da un lato al tema illuministico della natura intrinsecamente violenta
e ingiusta di ogni esercizio del potere, dall’altro alla situazione di soggezione
della generalità delle popolazioni: il Manzoni identificò nei «vinti romani» questo
oggetto «popolare» asservito prima dai Longobardi e poi dai Franchi con eguali meccanismi
di sopraffazione, e volle corredare la sua visione ideologica e poetica con attente
ricerche storiche. La loro ispirazione fu polemica, perché il Manzoni contestò sia
i giudizi ottimistici espressi da autori del Settecento sulla nazione longobarda sia
due idee di matrice ancora più antica: quella per cui Longobardi e Romani si sarebbero
fusi in un’unica nazione, e quella di una grave responsabilità del papato nell’avvento
di Carlo Magno – fatto che avrebbe impedito quella unificazione d’Italia che invece
i Longobardi avrebbero potuto realizzare. Pur dominato da una foga polemica e da una
volontà assertiva, il Manzoni si trovò a dover ammettere la grande incertezza, dovuta
alla carenza delle fonti, nel valutare le condizioni effettive delle popolazioni,
e nell’auspicare più accurate ricerche scrisse parole efficaci:
Che se le ricerche le più filosofiche e le più accurate sullo stato della popolazione
italiana durante il dominio dei Longobardi, non potessero condurre che alla disperazione
di conoscerlo, questa sola dimostrazione sarebbe una delle più gravi e delle più feconde
di pensiero che possa offrire la storia. Un’immensa moltitudine d’uomini, una serie
di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci
traccia, è un tristo ma importante fenomeno; e le cagioni d’un tal silenzio possono
riuscire ancor più istruttive che molte scoperte di fatto.
In Manzoni c’era una tensione etica, che non conduceva però a valutazioni complessive
di un’epoca storica determinata: così manca in lui una connotazione negativa del medioevo
in quanto tale, perché le vicende di violenza e sopraffazione non gli apparivano specifiche
di questa o quella nazione dominante. Più in generale, questa distanza dal giudizio
negativo che l’illuminismo aveva recato sul medioevo derivava dal rifiuto di considerare
i comportamenti morali degli uomini in funzione del periodo storico in cui erano vissuti.
Il Manzoni sviluppò questa idea nel suo grande romanzo storico I promessi sposi e negli scritti paralleli, soprattutto la Storia della colonna infame dove, in polemica con le idee espresse da Pietro Verri che aveva ricondotto a fatti
sociali, di ignoranza, superstizione, insomma oscurità dei tempi, i comportamenti
di inquirenti e giudici, sostenne invece l’autonomia della coscienza morale e delle
attitudini di bontà e di malvagità rispetto al condizionamento storico. Era una sorta
di «antistoricismo», una tendenza che sarebbe stata in seguito importante nella cultura
cattolica, come importante sarebbe stata l’idea di una fondamentale estraneità dei
ceti popolari alle vicissitudini del potere politico e delle sue componenti ideologiche.
A una generazione di distanza dal Manzoni, fra gli anni 1850 e gli anni 1870, una
diversa tematica di «popolo», e un altro confronto di popolazioni e civiltà che aveva
interessato la storia del medioevo italiano, ispirarono le opere, alcune di enorme
pregio, del patriota Michele Amari. Sono ancora oggi di grande importanza per gli
studiosi le sue ricerche sulla storia dei musulmani in Sicilia, che non si limitarono
al periodo della dominazione politica islamica ma si estesero anche alla presenza
araba successiva alla riconquista cristiana (l’Amari ad esempio pubblicò e commentò
le epigrafi arabe, in gran parte risalenti al periodo normanno, dimostrando non soltanto
la sua eccellenza di orientalista ma anche una competenza di epigrafista assai rara
ai suoi tempi). Più «datata» è probabilmente da considerare la sua ricostruzione della
ribellione del Vespro, animata dall’intento di negare ogni qualifica di trama di vertice
e complotto e di affermare invece il carattere largo, «popolare», dell’insurrezione
antiangioina. Negli autori italiani, era in effetti un tema ricorrente la situazione
di oppressione delle popolazioni in quella «età di mezzo, età d’armi e di fanatismo,
in cui rade volte i prìncipi s’avevano di mira il pubblico bene» (così il novelliere
Giambattista Bazzoni).
Mentre in Italia questi sviluppi dell’età del Risorgimento tentavano approcci a una
storia «popolare», in terre tedesche un altro movimento di pensiero andò prospettando,
non alla medievistica in particolare ma alla scienza storica in genere, possibilità
nuove: le possibilità, cioè, di considerare oggetto di attenzione intellettuale e
di ricostruzione storica non più soltanto «quelli che sono nella luce», come i re
e gli imperatori autori dei Diplomata, ma quelli, ben più numerosi, che «sono nell’oscurità»: e di considerare questi ultimi
non come una indifferenziata massa «popolare», eventualmente connotata in termini
di nazionalità emarginata e oppressa, bensì come definiti individui umani oggetto
di definiti modi di asservimento e sfruttamento. A Lipsia, nel 1845, il ventiquattrenne
Friedrich Engels pubblicò La situazione della classe operaia in Inghilterra, e pochi anni dopo lui e Karl Marx enunciarono nel saggio sull’Ideologia tedesca alcuni princìpi del materialismo storico. La loro visione della società umana dava
così luogo, da un lato, all’analisi molto dettagliata delle condizioni economiche
e sociali di un definito gruppo sociale dei loro tempi, dall’altro a una riconsiderazione
di tutto l’arco della vicenda umana sino dalle età più remote. Fra le implicazioni
del materialismo storico vi era infatti il rifiuto di periodizzazioni della storia
fondate solo sulle epoche documentate dalla scrittura e su evolute situazioni sociali,
culturali, politiche e ideologiche. La storia degli uomini cominciava dagli inizi
degli sforzi umani per la sopravvivenza, e aveva avuto sue dimensioni che si potevano
ricostruire attraverso analisi di testi molto antichi, soprattutto letterari e religiosi,
quali la Bibbia o le tragedie greche, e attraverso le persistenze e sopravvivenze
di strutture familiari, costumi sessuali e forme di relazione degli uomini tra loro,
e tra loro e le risorse economiche della terra, in Europa e fuori d’Europa.
In questo straordinario approccio storico e antropologico, la considerazione dei secoli
medievali ebbe un ruolo secondario, né Marx ed Engels alterarono quella tripartizione
antichità-medioevo-età moderna che era ormai canonica ai tempi loro, e che nella visione
di Marx diveniva la tripartizione fra tre modi di produzione – schiavistico, feudale,
capitalistico. In questo conservatorismo della tripartizione, Marx ed Engels espressero
tuttavia su alcuni aspetti della storia del medioevo europeo alcuni giudizi di grande
interesse, e che prescindevano da ogni valutazione negativa del medioevo in termini
di decadenza rispetto a un ordine antico. Incentrata sulle classi sociali e sui modi
di produzione, l’analisi marxiana riconosceva lucidamente come un fatto centrale di
quell’ordine antico fosse stata la schiavitù e il lavoro schiavile, e altrettanto
lucidamente riconosceva nei secoli di mezzo l’estenuazione di tale rapporto di dipendenza
e l’affermazione di una differente forma di dipendenza contadina, in un sistema «feudale»
che garantiva ai lavoratori delle campagne un certo possesso e controllo della terra.
Nell’economia urbana, i lavoratori erano stati soggetti nel medioevo a un dominio
delle corporazioni di mestiere e dei maestri artigiani. Lo sviluppo che avrebbe generato
il capitalismo, e con esso la polarizzazione fra capitalisti e lavoratori salariati,
aveva avuto come presupposto l’espropriazione dei produttori contadini e artigiani:
Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta,
da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e
per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi
affrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di
tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte
dalle antiche istituzioni feudali.
Del processo di espropriazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, che avrebbe
consentito lo sviluppo del capitalismo, Marx riconosceva le prime tracce, ancora assai
sporadiche, nei secoli XIV e XV, e il deciso slancio non prima del Cinquecento. A
queste analisi cronologicamente molto serrate, Marx ed Engels affiancavano l’interesse
per gli aspetti di lunghissimo periodo della storia dell’umanità e per le società
cosiddette primitive, che si imponevano alla loro attenzione soprattutto attraverso
gli studi dell’etnologo americano Lewis Henry Morgan (la cui Società antica – Ancient Society – apparve nel 1877). Subito dopo la morte di Marx, portando a termine un lavoro che
era stato ancora una volta comune con il grande amico, Friedrich Engels pubblicò la
sua opera antropologica sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), molto incentrata sul ruolo della donna nella storia, sulla problematica dell’evoluzione
dal matriarcato alla subordinazione della donna all’uomo, e dalle forme di promiscuità
sessuale al matrimonio monogamico e alla famiglia coniugale. Sia alle forme primitive
di commercio sessuale sia a una prima lunghissima fase del rapporto di coppia era
stato estraneo, secondo Engels, l’elemento dell’amore sessuale individuale, della
passione. Questo momento dell’amore come passione individuale avrebbe avuto nella
storia dell’umanità un suo preciso periodo di insorgenza: e sarebbe stato il medioevo.
La prima forma di questo «grande progresso morale» si ravvisa secondo Engels nell’amore
celebrato nella letteratura trovadorica e cavalleresca medievale, come un amore adulterino,
estraneo al matrimonio, il quale invece continuava a essere un legame sociale, di
gruppo, combinato tra le famiglie della donna e dell’uomo e indipendente dalle loro
pulsioni individuali.
Le valutazioni del medioevo che ricorrono negli scritti di Marx e di Engels non ci
interessano qui tanto quale esempio della loro grandezza intellettuale, ma come indice
dell’affermazione fra la metà e la fine dell’Ottocento di uno spettro di interessi,
di storia economica da un lato, di etnologia e antropologia dall’altro, che avrebbe
potuto comportare nuove modalità di periodizzazione della storia e, al suo interno,
dell’età medievale. Nei fatti, quanti si ispirarono a Marx e a Engels condussero la
propria attenzione soprattutto sulla storia economica, e tenendo presente essenzialmente
l’affermazione del moderno capitalismo. La problematica storiografica delle epoche
che avevano preceduto la rivoluzione industriale sarebbe stata così in grande misura
una problematica delle «origini del capitalismo». E ciò accadde anche per gli studiosi
di storia economica che non si ispiravano, o non si ispiravano direttamente, al materialismo
storico. L’interesse per la storia economica d’Europa si accentuò in effetti lungo
tutta l’ultima generazione dell’Ottocento e la prima del Novecento. Furono prodotte,
da un lato, analisi di tipo erudito, ad esempio sulla demografia e sulla storia dei
prezzi e dei salari (James Edwin Thorold Rogers, Georges D’Avenel), dall’altro grandi
sistemazioni teoriche e periodizzanti. Merita ricordare tra queste quelle di Karl
Bücher (1893), e quella di Werner Sombart, autore di una monumentale opera sul Moderno capitalismo (Der moderne Kapitalismus, che ebbe tre edizioni con progressivi arricchimenti fra il 1902 e il 1919), una
«esposizione storico-sistematica dell’economia europea dagli inizi al presente», che
contemplava sezioni amplissime sul significato che avevano avuto i secoli medievali
nella formazione dell’economia europea. Ancora oggi, a un secolo di distanza, lo studioso
può trarre un grande esempio dall’ansia sistematica con la quale Sombart descrisse
i fatti demografici, gli assetti produttivi, le forme di distribuzione della ricchezza,
il ruolo delle diverse componenti sociali, dello stato, dei movimenti religiosi, degli
ebrei, delle pubbliche finanze e della guerra, in una e
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