CONSTANTER ET NON TREPIDE
Paolo Cammarosano ha insegnato Storia medievale all’Università di Trieste. Si è occupato di temi di storia economica e sociale, culturale, religiosa e politica del Medioevo. Fra le sue pubblicazioni: Italia medievale(Roma 1991); Siena (Spoleto 2009); Studi di storia medievale ( Trieste 2009). L’edizione dei documenti medievali (Trieste 2011); Storia di Colle di Val d'Elsa nel medioevo (4 volumi, Trieste 2008-2015).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Capitolo primo. Privilegio di stirpe e preminenza sociale
Capitolo secondo. Greci e Longobardi
Capitolo terzo. Eserciti e chiese
Capitolo quarto. La società del secolo VIII
Capitolo quinto. Carlo Magno, una transizione
Capitolo sesto. Ordine e disordine carolingio
Capitolo settimo. Impero e regni
Capitolo ottavo. Le fedeltà armate
Capitolo nono. Comando delle città e comando degli eserciti
Capitolo decimo. Contrasti di sovranità, 861-899
Capitolo undicesimo. Un piccolo re
Capitolo dodicesimo. Tragedia e storia
Capitolo tredicesimo. Le origini delle dinastie
Capitolo quattordicesimo. La definizione dei ruoli sociali
Per un lungo periodo di tempo, dalla tarda antichità agli inizi del secolo XI, la storia politica d’Italia si riassume in una continua formazione di élites aristocratiche ed ecclesiastiche, e nella loro dialettica con i vertici istituzionali del potere: re e imperatori. Questa dialettica fu molto diversa nel corso di quei secoli, e anche famiglie la cui storia si può seguire su periodi lunghi di tempo presentano una fisionomia diversa nelle diverse fasi storiche. Sono comunque pochissimi, fino a tutto il secolo IX, gli esempi di continuità genealogiche che si estendano per più di tre o quattro generazioni. Solo nel corso del secolo X si realizzarono dei meccanismi di stabilizzazione sul territorio e di definizione sociale e dinastica: presero allora avvio tanti lignaggi destinati a durare per molte generazioni, fino al Duecento, e talora ben oltre.
Questo libro ha dunque il suo ambito cronologico nei secoli dal VI al X, caratterizzati dalla costante preminenza aristocratica e dal costante disfarsi e riformarsi di élites nobiliari sempre nuove. Si arresta verso il Mille, quando inizia un’epoca nella quale, da un lato, le aristocrazie appaiono avere finalmente conseguito una loro caratterizzazione sociale ben definita e le basi per una continuità dinastica; ma dall’altro il loro ruolo, pur sempre preminente, comincia a contemperarsi sempre di più con quello di altre componenti sociali.
Le fonti scritte attraverso le quali gli studiosi possono ricostruire questo mezzo millennio di storia si distinguono, semplificando, in tre grandi categorie: quelle di carattere letterario e storiografico, quali le epistole, le narrazioni e le descrizioni dedicate alle varie «nazionalità» e alle loro origini, gli annali e le cronache imperniate sulle sequenze di sovrani, papi, vescovi, le leggende agiografiche e monastiche; in secondo luogo le leggi emanate dai sovrani e dai loro consessi; infine i cosiddetti diplomi, cioè i documenti redatti per certificare un trasferimento di diritti (da sovrani ad altre persone o enti, o fra privati e privati). In schiacciante preponderanza, tutte queste scritture ci sono state tramandate da enti ecclesiastici, cioè episcopati e grandi monasteri. Ho descritto questa struttura delle fonti in un libro di qualche anno fa (Italia medievale, 1991), e non ci tornerò sopra se non per alcune questioni particolari.
Su questo insieme di fonti scritte è costruita la sintesi che propongo. Nel perseguire quella trasparenza, che deve essere il fondamento di ogni ricostruzione storiografica, ho cercato di indicare con puntualità le fonti, e talora ne ho inserito ampi stralci testuali (le citazioni sono in italiano, le traduzioni mie, salvo diversa indicazione). Sono stato invece sobrio nelle referenze alla letteratura storiografica, ricorrendo spesso al sistema di citare opere buone e recenti che contenessero copiose indicazioni di studi precedenti. Quella che il lettore troverà in fondo al volume non è una bibliografia, ma il semplice elenco delle fonti e degli studi che ho citato nel testo.
Ricordo comunque, qui in apertura, che esiste una eccellente Storia d’Italia in ventiquattro volumi, diretta da Giuseppe Galasso e pubblicata a Torino, Utet, dal 1979: ad essa si può ricorrere per una sintesi generale e per l’approccio bibliografico (l’alto medioevo è contemplato nei voll. I e II, rispettivamente del 1980 e del 1978). La migliore sintesi di storia politica dell’Italia medievale è, a mio giudizio, quella di Tabacco, Egemonie sociali, del 1974; un profilo più fattuale, comunque di eccellente impianto, e corredato di cronologie dei sovrani, tavole genealogiche e una bibliografia molto ben fatta, è Wickham, Early Medieval Italy, del 1981 (anche in traduzione italiana). Ricco di preziosi spunti è Capitani, Storia dell’Italia medievale. Per referenze più aggiornate su una letteratura storiografica in crescita esponenziale, una buona miniera è il secondo volume (1995) della New Cambridge Medieval History; per l’Italia è poi particolarmente utile l’amplissima rassegna compiuta da Balestracci, Medioevo italiano e medievistica. Il punto sulle evidenze archeologiche è stato fatto in un convegno recente: École Française de Rome, Università degli Studi di Siena, La storia dell’alto medioevo italiano.
Nello stesso anno di prima pubblicazione di questo libro (1998), sono apparse almeno tre opere importanti per alcuni dei temi principali in esso affrontati: le raccolte di saggi La royauté et les élites dans l’Europe carolingienne (du début du IXe siècle aux environs de 920), Paris, éd. Régine Le Jan (Centre d’Histoire de l’Europe du Nord-Ouest, 17) e L’incastellamento, Actes des rencontres de Gérone (26-27 novembre 1992) et de Rome (5-7 mai 1994), dir. Miquel Barceló et Pierre Toubert, Roma, École Française de Rome e Escuela Española de Historia y Arqueologìa en Roma (Collection de l’École Française de Rome, 241), e il libro di Karl Ferdinand Werner, Naissance de la noblesse, Paris, Fayard. Sul versante delle fonti, è da segnalare la comoda edizione con traduzione italiana e commento: I capitolari italici. Storia e diritto della dominazione carolingia in Italia, a c. di Claudio Azzara e Pierandrea Moro, Roma, Viella (Altomedioevo, collana diretta da Stefano Gasparri, 1).
1. Perentoriamente, gli storici attribuiscono un’età di nascita alla nobiltà europea. Secondo il grande Henri Pirenne, fu una creazione francamente medievale, e non anteriore al secolo X. Altri hanno istituito collegamenti stretti fra la nobiltà propriamente detta e il rito cavalleresco, e ne hanno individuato la chiusura, quindi la definizione come ceto, ordo, Stand, nel secolo XII. Tutti, comunque, hanno considerato centrale la questione del passaggio da una supremazia informale di maggiorenti, notabili, una situazione in cui nobilis significa semplicemente, in conformità con il suo etimo, «ben conosciuto», «che tutti conoscono», insomma una nobiltà di fatto, ad una nobiltà in senso proprio e di diritto: da uno Oberschicht a un Adel, come dicono i tedeschi, dall’«aristocrazia» alla «nobiltà», come suggeriscono recenti sistemazioni italiane1.
In realtà una dialettica tra una situazione di fatto e una situazione di diritto, tra un momento informale e un momento di istituzionalizzazione, percorre tutta la storia dei ceti eminenti dall’antichità alla fine del medioevo. Inoltre, per quanto si voglia «medievalizzare» la categoria di nobiltà, è un fatto che il mondo antico consegnò alle epoche a venire non soltanto una terminologia di nobilis e nobilitas, ma anche alcuni dei tratti che avrebbero identificato le aristocrazie in età medievale e moderna. Anzitutto l’idea di una corrispondenza fra una supremazia sociale e il suo fondamento nell’antichità della stirpe: dunque un collegamento tra il fatto biologico, di sangue, e una dignità sociale definita in termini di nobilitas. Poi l’idea di una normale connessione fra nobiltà e ricchezza, e d’altro canto l’immagine – talora polemica – di una nobiltà qualificata piuttosto da una distinzione culturale ed etica. Infine, alcuni modelli di legame fra dignità nobiliare, potere politico e funzioni pubbliche, ciò che apriva la possibilità di un accesso alla nobilitas anche senza il requisito dell’antichità di stirpe.
Nell’arco di tre generazioni che vide in Italia il governo di Odoacre, capo degli Eruli e di altre compagini germaniche (476-489), poi quello dei re goti con il grande Teoderico (489-526) e con i suoi successori sino alla riconquista greca del 553, tutti gli elementi che ho sintetizzato si vedono presenti nella fisionomia del Senato romano, i cui componenti concorrevano a formare un ordo, un ceto, «destinato – ha scritto un grande studioso dei nostri giorni – [...] a costituire il modello [...] per le aristocrazie che dominarono il medioevo europeo»2. Il Senato di Roma conobbe in quest’epoca un’importanza rinnovata rispetto al passato, per l’esigenza di legittimazione dei nuovi re germanici e per la loro volontà di creare una coesione ai vertici politici. E a quest’epoca risalgono alcune testimonianze particolarmente incisive sulla fisionomia del Senato, e più in generale della nobilitas tardoantica.
Sui gradini delle due prime file dell’Anfiteatro Flavio (il Colosseo) vennero iscritti negli anni del regno di Odoacre i nomi dei senatori, ai quali appunto questo settore era riservato3. I cittadini romani non pagavano un biglietto per assistere agli spettacoli del Colosseo, ma entravano con una tessera che indicava il settore loro assegnato, in funzione dell’ufficio, dell’istituzione, del ceto di appartenenza. In basso, più vicini dunque alla scena, l’imperatore e la sua corte e i membri dell’ordo senatorius; subito sopra, i sedili riservati ai membri dell’altra grande compagine aristocratica, l’ordo equestris; più in alto ancora, gli spazi destinati a collegi diversi, a gruppi provenienti da altre città, e naturalmente al populus di Roma: quella Romulea plebs della quale, in un’epistola destinata ad un nobile funzionario della città intorno al 535, il senatore Cassiodoro avrebbe celebrato la sobrietà, la quiete, il «clamore senza ribellione», il comportamento chiassoso (strepitus) che mai però degenerava in furor, il desiderio di scampare alla povertà senza peraltro anelare alle ricchezze4.
Nello spazio ampio e chiuso del Colosseo si vedeva così, ad occhio, il discrimine delle classi. Che negli anni di cui parliamo era anzi polarizzato, poiché da circa un secolo l’ordine equestre era di fatto scomparso, assorbito nell’ordine senatorio, così che si era dato luogo ad una semplice contrapposizione fra aristocrazia senatoria e plebei. La rigida distinzione di classe andava di pari passo con una prossimità fisica, fra persone che insieme godevano di una stessa cultura di spettacolo, non più cruenta come era stato fino a poche generazioni prima, dato che alle lotte mortali fra gladiatori erano subentrate le sole venationes, lotte fra gladiatori e bestie; sembra poi che un altro spettacolo, la corsa dei carri al Circo Massimo, avesse maggior successo in questo scorcio del V secolo.
Su questo declino del gusto per i giuochi cruenti avevano inciso molti fattori. Possiamo anche pensare che l’atrocità delle guerre civili e delle invasioni, con le devastazioni di tante città e della stessa Roma, saccheggiata nel 410, poi ancora nel 455 e nel 472, avessero tolto il loro smalto alle rappresentazioni spettacolari della crudeltà. Dobbiamo tenere nel massimo conto l’incidenza della religione cristiana, ufficiale nell’impero dalla fine del IV secolo, quando era stato sopraffatto l’attaccamento al paganesimo classico che proprio nel ceto senatorio romano aveva avuto i suoi baluardi ultimi.
Nella stessa epoca in cui si era semplificata la divisione dell’aristocrazia politica romana fra senatores ed equites, con la fusione nell’unico ordo senatorius, quest’ordo era stato articolato al suo interno secondo una gerarchia di tre ranghi: alla base i clarissimi, quindi gli spectabiles, alla sommità gli inlustres, i soli che si potessero chiamare senatori in senso proprio, poiché essi soli avevano il diritto di partecipare ai lavori e alle decisioni del Senato. Puntualmente, nella disposizione dei sedili al Colosseo, si tenevano distinti i viri inlustres (la fila più in basso), i viri spectabiles, i viri clarissimi. Questi ultimi erano, in primo luogo, i figli dei senatori, ai quali un principio di ereditarietà conferiva automaticamente il clarissimato. Ai viri clarissimi erano riservate una serie di cariche dell’amministrazione urbana ed imperiale, di alto livello: dopo un periodo di permanenza in varie cariche, cioè dopo l’espletamento di un cursus honorum, il vir clarissimus entrava nel Senato e assurgeva al rango di inlustris.
In parallelo con questo percorso ereditario, si era affermato nella tarda età imperiale un altro tipo di percorso, che consentiva l’accesso di maggiorenti locali e di homines novi all’ordine senatorio. Alte cariche dell’amministrazione potevano essere conferite dall’imperatore anche a persone estranee al Senato, e il loro esercizio comportava automaticamente l’attribuzione del rango di clarissimus, spectabilis, inlustris, in funzione rispettivamente del livello della carica: portatori della qualifica più alta erano il prefetto di Roma (praefectus urbi) e i maggiori ufficiali della corte regia residente in Ravenna, cioè il prefetto del Pretorio per l’Italia e pochi altri dignitari5.
La rigida corrispondenza tra uffici pubblici e rango sociale contemplava così, con un paradosso apparente, una mobilità che faceva sfuggire l’evoluzione dei ceti al mero giuoco dell’ereditarietà. Arbitro di questa mobilità era l’imperatore, che poteva attribuire i maggiori uffici a homines novi, persone non nobili ed estranee all’ordine senatorio, e poteva candidarle al Senato, dove mai si sarebbe respinta una sua proposta di cooptazione. D’altro canto era necessario l’assenso dell’imperatore per quelle cooptazioni al Senato che potevano essere proposte dai senatori stessi, allo scopo di favorire loro amici e clienti.
Se i gradini del Colosseo fotografano, in un ristretto arco di anni, la distinzione fra senatori e popolo, e la triplice gerarchia interna all’ordo senatorius, le epistole e le formule scritte da Cassiodoro per i re goti d’Italia rinviano più volte a questa dialettica di ereditarietà e di cooptazione con intervento imperiale. L’enfasi maggiore è nel senso della nobiltà ereditaria e dunque del diritto ereditario agli uffici. Così, l’epistola con cui verso il 510 Teoderico presenta ai senatori Importuno, della grande stirpe dei Deci, si apre ricordando come all’imperatore sia grato sollevare agli onori personas novas, ma ancor più attribuirli a persone già illustri per sangue: la loro origine è gloria di per sé, il loro pregio connaturato alla loro nobilitas6. Nel 533 il re Atalarico avrebbe indicato ai senatori, come prova della grande considerazione che nutriva per loro, il fatto che promuoveva alle più alte funzioni uomini che non aveva mai veduto, ma che essendo figli di senatori si presumevano degni di onore, per natura; e anche qui si ricordano, nella conclusione dell’epistola, i due percorsi nell’ordine senatorio: i senatori concedono il favore della cooptazione ad esterni, ma sono ancor più contenti quando infoltiscono i ranghi con i propri figli7.
Ma negli stessi contesti nei quali si esalta la continuità di sangue dell’aristocrazia senatoria, affiorano i temi del venir meno delle stirpi, o del venir meno dell’alta qualità morale in una stirpe, cioè della non necessaria coincidenza fra nobiltà ereditaria e virtus. Nella raccomandazione di Importuno, citata sopra, Cassiodoro fa esporre a Teoderico la contrapposizione fra una posterità indigna, nella quale si rinnega la bontà dell’antica stirpe, ed una praeclara, che conferma con le sue virtù quelle dei padri. A una generazione di distanza il re Teodato, nel raccomandare il patrizio Massimo, della stirpe degli Anici, ripete il concetto della nobiltà per nascita e sottolinea che tale nobiltà continua a meritare il suo nome fin quando i suoi rampolli mantengono la probità delle loro azioni; al tempo stesso, lamenta che alcune grandi familiae si siano estinte nel tempo8.
L’estinzione delle stirpi e la necessità che la qualifica nobiliare si accompagni ad una virtù individuale motivano la retorica sull’opportunità di incrementare il Senato con homines novi e la tematica dell’acquisizione di alti uffici, con l’ascesa di rango che ne deriva, per meriti del singolo. «Una diuturna fatica acquisisce per sé ciò che non può conseguire una inesperta nobiltà», recita una formula delle Variae di Cassiodoro. Altre stabiliscono le modalità di accesso a posti vacanti di rango senatorio, o offrono una struttura retorica alla proposta di conferire il laticlavio, l’insegna dei senatori, a persona di famiglia non senatoria9. Si ricorda, da un lato, che si può essere nobili ma anche poveri, od otiosi, e che è dunque importante assicurare una elevazione di rango per merito personale; si insiste sull’importanza della numerositas del Senato, che non si può conseguire facendo solo affidamento alla prole senatoria: «Se l’antichità vi ha fatto nobili, noi vogliamo che il Senato sia celebrato anche per la quantità dei suoi membri: così voi siete semenza del Senato, ma per nostra concessione nasce chi possa entrare nei vostri ranghi», fa dire Cassiodoro al re Atalarico nella candidatura di un questore, illustre per la sua eloquenza forense10.
Sarebbe una questione cruciale, per afferrare la fisionomia aristocratica dell’ordine senatorio alla fine del mondo antico, capire quale fosse il peso del momento ereditario e quale quello della cooptazione; o, se si preferisce, come si svolgesse l’evoluzione delle due componenti che potremmo distinguere, rispettivamente, come «aristocratica» e «funzionariale». Ma l’assetto delle fonti di quest’epoca, con la rarefazione dell’epigrafia e il naufragio quasi totale sia della produzione documentaria privata sia di quella della pubblica amministrazione, non lascia grande spazio all’analisi che vorremmo. Dei circa duecento nomi di persone dell’ordine senatorio scolpiti nei gradini del Colosseo al tempo di Odoacre, non sono più di una trentina quelli che, noti per un certo numero di altre fonti, possono configurare una prosopografia di un certo spessore11. E nelle epistole e formule di Cassiodoro, se a volte si possono rintracciare delle carriere funzionariali e le corrispondenti evoluzioni di rango all’interno di una famiglia di antica aristocrazia, più spesso l’enfasi su una carriera familiare e sul crearsi di una dinastia di funzionari non lascia comprendere su quale arco cronologico, su quale sequenza di generazioni si fosse svolta l’affermazione sociale della famiglia12.
Queste considerazioni pessimistiche sulle fonti hanno una loro base di comparazione. Per molte città italiane dell’età dei Comuni, anche di media importanza come, ad esempio, Imola od Orvieto, noi conosciamo con puntualità la composizione dei consigli e di altri uffici collegiali; la documentazione notarile da un lato, dall’altro le serie pur discontinue di estimi e catasti, consentono di raffigurare a determinati intervalli cronologici le posizioni patrimoniali dei residenti, la composizione delle famiglie e la loro vicenda genealogica, le loro dinamiche sociali nel corso del tempo. Dei componenti di quell’amplissimo e potente Senato romano del V e del VI secolo non sappiamo con sicurezza nemmeno il numero totale (i gradini del Colosseo sono pur sempre un’evidenza frammentaria, non configurano un albo senatorio); la prosopografia faticosamente elaborata dagli studiosi conclude su pochi ed esili alberi genealogici, come può vedere a colpo d’occhio chi consideri le appendici di stemmata del grande repertorio elaborato nella scuola di Cambridge; e per nessuna famiglia senatoria dell’età di Odoacre e di Teoderico disponiamo di un elenco dei possedimenti fondiari paragonabile alle dettagliate indicazioni che i registri del tardo medioevo offrono anche per piccoli artigiani e possessori fondiari di medio livello13.
Rassegnati all’impressionismo, possiamo però cercare di mettere a fuoco le impressioni giuste. Anzitutto sul numero dei componenti il Senato. André Chastagnol ha calcolato che i nomi scolpiti al Colosseo potessero rappresentare circa un terzo del numero totale dei senatori, che sarebbe stato dunque fra i trecento e i seicento; altri studiosi hanno suggerito una cifra inferiore; comunque, il numero si era assai ridotto rispetto a quello di duemila, che affidabili testimonianze letterarie segnalano per la seconda metà del IV secolo14. Questa vistosa riduzione era parallela a una generale riduzione della popolazione di Roma nel V secolo: quanto dire che il declino demografico, nel quale ebbero gran parte le devastazioni dei barbari, risultò in una concentrazione dell’élite romana ancora più vistosa che nel passato. Poche centinaia di individui, dunque due o tre centinaia di nuclei familiari, avevano una posizione di preminenza e privilegio su una popolazione che valutiamo nell’ordine di alcuni milioni di abitanti. È una considerazione banale, semplice, ma che terremo ben presente anche per altre valutazioni della storia di quest’epoca.
Quando parliamo dell’estensione del dominio di questa aristocrazia senatoria, non ci riferiamo al solo dominio politico. Pur mancando di una descrizione analitica dei patrimoni, sappiamo comunque che le famiglie senatoriali avevano patrimoni fondiari (ancora organizzati nella forma della villa, la grande azienda policolturale lavorata da schiavi e coloni) sia nella Cisalpina che nell’Italia centrale e meridionale, e spesso anche al di là delle Alpi, nelle Gallie e nel Norico. Era una diffusione legata al quadro della dominazione imperiale romana, che naturalmente andava subendo delle erosioni a mano a mano che l’unità di questa dominazione si disgregava: fu anzitutto la conquista vandala di una parte dell’Africa mediterranea (429-442) che compromise il quieto possesso dell’aristocrazia senatoria in quell’area. Ancora in età teodericiana, comunque, le grandi proprietà dei senatori romani si dislocavano su zone distanti, tra le quali erano efficienti le comunicazioni e vitale lo scambio commerciale.
Più incerta è la nostra valutazione su un aspetto di particolare interesse quale la struttura delle famiglie senatorie. I testi letterari, quando celebrano l’antichità di stirpe di questo o quel personaggio, fanno riferimento ancora alla fisionomia della gens, la vasta compagine dell’età repubblicana e della prima età imperiale fondata in parte sul legame di consanguineità e in parte su forme di «parentela artificiale». Si sa che l’espressione di questa struttura era il sistema romano di designazione delle persone, che le identificava con tre nomi, il secondo dei quali era appunto il gentilizio, indicava l’appartenenza a quella sorta di clan, con un inserimento che non seguiva necessariamente la via naturale e della parentela ma poteva derivare da adozione, affiliazione, affrancazione dallo stato servile, quando non si riferiva alla gens dell’imperatore che aveva concesso alla persona la cittadinanza romana. Questo sistema onomastico si sfaldò in età tardoantica, e noi consideriamo questo un sintomo di una mutazione strutturale in seguito alla quale la gens non aveva più l’antica coesione ed estensione. Anche ai livelli elevati della società, abbiamo forti motivi di dubitare che i Deci e gli Anici del V e VI secolo si organizzassero altrimenti che in famiglie di tipo ristretto15.
È probabile che il venir meno di una struttura gentilizia abbia rappresentato un elemento di fragilità per l’aristocrazia senatoria del V e VI secolo. Ma altri, e certamente più gravi, erano i punti di debolezza. Se questa élite fondava la sua fortuna sulla grande estensione dello Stato romano, da gran tempo aveva perduto decisivi elementi di potere e di controllo su questo stesso Stato. Primo fra tutti, la partecipazione diretta al potere militare.
2. Ereditando il sistema della diarchìa principe-Senato, il regno dei Goti in Italia ereditò anche una situazione in cui il ruolo del principe era da secoli predominante nella gestione della guerra, e dunque delle finanze, e in genere in ogni importante scelta politica. Se questo predominio del principe si era di fatto affermato già agli inizi dell’impero, rafforzandosi poi nel continuo stato di guerra interna ed esterna del III e del IV secolo, nell’età di Odoacre e di Teoderico era consolidato da tempo anche un altro fatto importante, cioè il distacco fra l’aristocrazia senatoria e la struttura militare nel suo complesso. Fra V e VI secolo l’esercito, sul quale Roma fondava il suo dominio di tanta parte del mondo, aveva perduto da grandissimo tempo la sua connotazione aristocratica. I soldati provenivano da variegate popolazioni, i capi militari di ogni livello erano persone estranee all’aristocrazia romana, e per lo più di stirpi non latine. Quanto ai re che nel corso del V secolo subentrarono nelle Gallie, in Spagna, in Africa, infine nella stessa Italia, alle precedenti autorità politiche dell’impero romano, non solo essi erano di stirpe germanica, ma avevano convogliato con sé alcune migliaia di guerrieri della propria nazione, normalmente insieme ad altri di altre nazioni germaniche (Goti, Svevi, Franchi, Burgundi, Vandali)16.
Se è problematica la valutazione dell’entità numerica di questi eserciti germanici spostatisi ad ovest del Reno e a sud del Danubio e delle Alpi, ancora più difficile è cogliere la loro composizione sociale interna, e in particolare rispondere al quesito che più ci interessa qui: se anche al loro interno si distinguesse una categoria nobiliare, se un processo di differenziazione sociale fosse determinato dallo sforzo di espansione militare e conquista, se risalisse invece a strutture tradizionali delle società germaniche.
All’aprirsi del II secolo Cornelio Tacito non aveva esitato a parlare di uno strato di nobiles in quelle nazioni germaniche che egli considerava i più temibili nemici dell’impero romano. La sua valutazione presta il fianco qui, come in ogni luogo del piccolo libro De origine et situ Germanorum, o Germania, al dubbio e alla discussione. L’opera è nel novero di quelle che sono state talmente passate al vaglio della critica storica, talmente considerate in ogni loro passo dal punto di vista del grado di attendibilità o di tendenziosità, da scoraggiarne ogni nuovo approccio; su questo motivo di allontanamento un altro si può sovrapporre, il fastidio per le fonti letterarie, già mille volte percorse, rispetto a testimonianze di altra natura (epigrafiche ed archeologiche) che offrono un fondamento conoscitivo al tempo stesso di maggiore solidità e di più continuo rinnovamento.
Ma noi lasceremo da parte come sterile ogni discorso di gerarchia di importanza delle fonti, e ci richiameremo con fiducia alla Germania di Tacito come ad un testo eccezionale per l’acutezza con cui diede luce ad alcuni tratti fondamentali della società descritta e per il modo con cui prefigura agli occhi del medievista problemi ricorrenti nella storia delle élites sociali17.
Dei Germani Tacito mise in evidenza la differenziazione tra «nazioni» (nationes, gentes, civitates) ben distinte tra loro, con propri nomi e proprie aree ormai consolidate di insediamento: erano eccezionali casi come quello degli Osii e degli Aravisci, che attestati su sponde opposte del Danubio avevano ancora in comune lingua, istituzioni, costumi (Germ., 28). Da un complesso di testimonianze noi sappiamo per certo come nei primi secoli dell’era volgare le nationes germaniche non si comprendessero più tra loro, così che nelle lingue slave furono definiti come «sordi» (niemcy) in contrapposizione agli Slavi stessi, il cui nome collettivo indica la «parola» (slowo) e dunque il mantenimento di una comunicazione verbale reciproca. Quanto ai costumi, nel delinearne alcuni tratti caratteristici, quali la rigidezza del vincolo coniugale, Tacito accennò a possibili differenziazioni di intensità (presso alcune civitates le vedove non si risposavano: Germ., 19). Ma più sostanziali erano le differenze nell’ambito delle istituzioni. Molte nationes erano organizzate sotto un re; altre mantenevano la fisionomia di un insieme di gentes, stirpi familiari, senza supremazia politica di una tra esse, e si avvicinavano dunque – dobbiamo pensare – a compagini sociali come quelle degli Slavi e di altre popolazioni dell’Oriente euroasiatico le quali, come avrebbe scritto molti secoli dopo Tacito un altro grande osservatore di genti e costumi, Procopio di Cesarea, vivevano «in democrazia»18.
Qualunque fosse la forma politica, presso i Germani come presso i Romani era l’agricoltura sedentaria la base della vita. Nella Germania di Tacito, in una divisione della società fondata sull’esercizio diretto delle armi da parte di un segmento della popolazione, i contadini erano in una condizione di dipendenza. Fra le caratteristiche sociali che egli descrisse comuni a tutti i Germani c’era la diffusa presenza di servi, i quali, a differenza dell’omonima categoria presso i Romani (cioè gli schiavi), erano semplicemente i contadini, che avevano la loro propria casa ed erano tenuti a versare censi in forma di prodotti della terra ai loro padroni; gli atti di violenza del padrone (dominus) contro il servo apparivano a Tacito un fatto consueto presso i Germani, ma come espressione di ira subitanea (Germ., 25), cioè – dobbiamo interpretare – non come un diritto istituzionale all’afflizione corporea quale competeva formalmente al dominus romano. Alla forma di dipendenza censuaria del singolo servo dal singolo padrone si affiancava, nella descrizione di Tacito, un sistema di tributi agricoli dovuti ad una élite di principes dal complesso della popolazione, dalla civitas come egli la chiama: una popolazione contadina stabilmente insediata con un sistema collettivo di possesso delle terre e di rotazione tra le famiglie (Germ., 15 e 26).
Alla summa divisio tra liberi e servi dell’ordinamento giuridico romano, che sottintendeva poi grandi differenze sociali e diversi ruoli economici all’interno di ambedue le categorie, fa da contrappunto nella Germania tacitiana una più elementare differenza tra un insieme di padroni-nobili-guerrieri, al cui interno emerge ancora una ristretta categoria di principes, ed una popolazione contadina in condizione o di dipendenza servile personale o di dipendenza collettiva da un princeps locale. Al momento di descrivere gli Svevi, cioè la gens che occupava la maggior parte della Germania, Tacito sottolineò il loro costume di piegare e annodare i capelli come segno al tempo stesso di distinzione dei liberi dai servi e degli Svevi da altre gentes. C’era dunque una coincidenza fra lo stato di libertà, la distinzione nobiliare e l’idea della stirpe; e c’era una differenziazione ulteriore, un nucleo di principes, i quali si forgiavano la capigliatura in maniera ancor più elaborata (Germ., 38)19.
La convergenza tra elemento «nazionale» ed elemento «gentilizio», il fatto che una «nazione» fosse un insieme di persone che ritenevano di avere un’ascendenza comune e dunque un legame di sangue, si traduce nella scrittura tacitiana in una sostanziale intercambiabilità dei termini gens e natio: a volte affiora un cenno di distinzione tra identità etnico-linguistica e ascendenza biologica (ad esempio in Germ., 2 e 38), ma poi la coincidenza è prevalente, e diventa franca promiscuità terminologica quando a gens e natio si alternano con assoluta fungibilità civitas o populus (Germ., 29, 31, 34, 35 e passim), cioè parole che si riferirebbero piuttosto al fatto dell’insediamento territoriale e dell’organismo sociale complessivo.
Una serie di radicati costumi sociali, destinati a lunga permanenza nel medioevo, sosteneva l’ambizione alla costituzione della gens come una vasta parentela di sangue. Tacito sottolineò la repulsione germanica verso pratiche contraccettive o abortive (Germ., 19), il sistema successorio che non conosceva testamento né privilegio di un figlio sugli altri, lo stretto legame tra zio materno e nipoti (Germ., 20). Ma soprattutto rilevò con geniale acume alcuni aspetti della situazione delle donne e dei rapporti matrimoniali. La disciplina matrimoniale era severa, e se contemplava presso una stretta élite la possibilità di avere più mogli, questo era in funzione della «nobiltà» dello sposo e non di una rilassatezza morale (Germ., 18). Avvezzo al sistema romano della dote, Tacito rilevò come presso i Germani vigesse un sistema all’apparenza contrario, nel quale era il marito a recare un donativo alla moglie, salvo a ricevere anch’egli qualche oggetto in contraccambio; ma nel sottolineare questo costume, che a secoli di distanza potremo ritrovare come tipico delle popolazioni germaniche (pensiamo in particolare alla morgengabe, che sarebbe stata diffusa dai Longobardi in Italia), Tacito lo collegò in maniera vivida e circostanziata alla tradizione guerriera dei Germani e alla fisionomia di un matrimonio che fondava una reale condivisione coniugale di pericolo e di destino:
Non è la moglie che reca la dote al marito, ma il marito alla moglie. Ciò accade alla presenza dei genitori e dei parenti, che danno la loro approvazione ai doni nuziali: doni che non sono destinati a delizie femminili e all’ornamento della novella sposa, ma consistono in un bove, un cavallo bardato, uno scudo, lancia e spada. Con tali doni viene presa la moglie, che a sua volta dà al marito qualche arma. Ecco cosa sono presso di loro lo strettissimo legame, i sacri arcani, gli dèi coniugali: affinché la moglie non si reputi estranea ai sentimenti di coraggio e ai casi della guerra, subito alle soglie del matrimonio la si ammonisce che sarà compagna di fatiche e pericoli, che avrà a soffrire e ad osare le stesse cose del marito sia in pace che in guerra (Germ., 18).
Tutte queste costumanze andavano nel senso di assicurare la continuità di élites guerriere. Tuttavia nel corso delle generazioni il coagulo fra identità di stirpe, libertà e nobiltà ed esercizio delle armi andava soggetto a evidenti processi di mutazione: in parte per la dinamica dell’organizzazione politica, in parte per il fatto stesso dell’attività guerriera.
La libertas Germanorum che Tacito esaltò in un passo celebre (Germ., 37) coincideva con una fisionomia della guerra come valore supremo, che dava il tono a tutte le istituzioni: «Non fanno niente né di privato né di pubblico se non in armi», egli scrisse lapidariamente (Nihil autem neque publicae neque privatae rei nisi armati agunt: Germ., 13), e articolò poi questo legame nelle sue incidenze sulla partecipazione familiare al combattimento, sui vincoli matrimoniali e sul sistema dei doni nuziali che si è visto, sul rituale armato dei consigli (Germ., risp. 7, 18, 11).
Ma proprio il fatto militare apriva delle smagliature nella rigidezza delle categorie sociali. In una società guerriera, prestanza fisica e attitudine personale al combattimento possono aprire la via a un’ascesa. Esemplari saranno alcuni aneddoti nella saga delle prime migrazioni longobarde, recepiti e tramandati agli inizi dell’età carolingia da Paolo Diacono, su liberazioni di servi, sia individuali che di massa20. Quanto a Tacito, egli notò con grande acutezza il particolare peso dei liberti, gli schiavi liberati per volontà del padrone, nelle gentes rette a monarchia: qui essi potevano superare in importanza i liberi, e gli stessi nobili (Germ., 25). Questa osservazione non rappresenta, come si è talora pensato, una indebita attribuzione alle popolazioni germaniche di una caratteristica sociale dell’impero romano; accenna invece al meccanismo per cui un forte potere politico, nel crearsi una rete di sostegni personali, produce ascese sociali al di fuori della dinamica della stirpe.
Era in effetti il processo politico, con il passaggio dalle «democrazie» di guerrieri ai regni, che soprattutto innescava dinamiche sociali nuove. Emanazione della sua gens, il re era necessariamente un nobilis: i Germani «tengono conto della nobiltà nella scelta dei re, del valore nella scelta dei comandanti militari» (reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt: Germ., 7); e il potere regale tendeva ad essere ereditario e costitutivo di una determinata stirpe, una particolare gens regia (così ad esempio presso Marcomanni e Quadi: Germ., 42). Poi si creavano articolazioni diverse del rapporto fra il re e il complesso del corpo sociale: duces – si è appena citato – ex virtute sumunt, dunque i vertici dell’esercito subito al di sotto del re potevano essere in funzione dell’attitudine alle armi più che della nobilitas; i liberti, abbiamo veduto, potevano raggiungere un peso preminente; nelle varie nazioni germaniche c’erano vari gradi di assolutezza della monarchia, e presso quelle più a nord, che vivevano sul mare ed esercitavano sulle navi la loro forza armata, il potere regio giungeva fino al controllo esclusivo delle armi, custodite da un servo, assegnate ai guerrieri solo per il conflitto con i nemici (Germ., 44).
Esercizio delle armi e organizzazione politica mobilizzavano così la fisionomia delle gentes, e l’identificarsi in un’ascendenza di stirpe diveniva un fatto di mentalità e di ideologia. La struttura sociale non si riassumeva stabilmente in una semplice divisione tra liberi-guerrieri e servi-contadini. Si creavano equilibri diversi di potere fra il re e i duces, principes, proceres; alcuni servi erano fatti liberi, e anche nobilitati, per iniziativa regia; altri trovavano il loro spazio di ascesa nella schiera dei compagni d’armi (comites) dei diversi principes (Germ., 13, 14). La fluidità della terminologia nobiliare, in Tacito come in tanti altri autori dei primi secoli dell’era volgare, corrispondeva ad una effettiva fluidità nelle cose.
Questi elementi di non immediatezza e di non rigidità della relazione fra esercizio delle armi, antichità di stirpe e status sociale e politico si sarebbero accentuati nel movimento delle grandi migrazioni al di là di Reno e Danubio e degli assestamenti entro i territori dell’impero. Queste vicende comportarono da un lato il rafforzamento, nelle società germaniche, del peso sociale di una élite armata, dall’altro l’importanza delle forme monarchiche di organizzazione politica. L’ulteriore complessità venne dai contatti, alleanze, fusioni e osmosi etniche fra le diverse stirpi germaniche e dalla progressiva consuetudine con la società e la cultura romano-ellenistiche.
3. Tra le variegate forme di sistemazione che si realizzarono fra V e VI secolo, e che siamo soliti riassumere nella formula di «Stati romano-germanici», l’Italia dei re goti conobbe una situazione che era al tempo stesso di separatezza netta fra aristocrazia romana e capi militari germanici e di convivenza lungamente pacifica. Questa stabilità fu resa possibile da vari fattori, a cominciare dal mantenimento di quella distinzione tra funzioni militari e funzioni civili che era stato uno dei cardini dell’amministrazione imperiale. Accadde così che degli insiemi di alcune migliaia di guerrieri goti e di altre nazionalità germaniche, capeggiati da un loro re, al quale in determinate circostanze gli imperatori di Bisanzio riconobbero la sovranità sull’Italia, si diffusero in un paese di qualche milione di abitanti, senza che cambiasse la situazione della grande maggioranza della popolazione e in particolare senza intaccare ricchezze e privilegi dell’aristocrazia senatoria di Roma e dei notabilati urbani.
Uno svolgimento del genere si profilò già nei tredici anni di regno di Odoacre, dal 476 al 489. Odoacre era un capo militare emerso dall’ambiente dei sostenitori germanici del re unno Attila. Nel solco del disfacimento di quella sorta di impero, che Attila aveva creato in Europa e che non sopravvisse alla sua morte (453), Odoacre fondò un suo potere personale riunendo diverse stirpi germaniche o aiutando le une contro le altre (in particolare, nell’area danubiana, sostenne i Longobardi contro i Rugi). Egli ottenne dall’imperatore Zenone di farsi riconoscere re d’Italia al posto dell’ultimo imperatore della parte occidentale dell’impero, il giovinetto Romolo Augustolo, deposto il 5 settembre del 476. Abbiamo avuto modo di accennare al pieno mantenimento dei privilegi senatori, testimoniato nelle gradinate del Colosseo. La situazione non mutò quando a Odoacre successe violentemente Teoderico, il re goto mandato anch’egli dall’imperatore Zenone in Italia e definitivamente vittorioso dopo quattro anni di guerra21.
La maggiore compattezza del contingente gotico in Italia (certo diverse decine di migliaia di persone) e la più lunga durata della dominazione dei re goti (oltre mezzo secolo) diedero senza dubbio all’élite armata germanica un peso che non avevano avuto le composite milizie di Odoacre22. Inoltre Teoderico sarebbe stato celebrato come un grande re, destinato ad entrare fra le figure eminenti della cultura e dell’immaginazione medievale23. Ma presso i contemporanei la sua grandezza fu vista appunto nel segno di un rispetto sostanziale, anzi di una piena accettazione ed esaltazione, delle tradizioni romane antiche:
Teoderico fu uomo di grande valore guerriero, forte; suo padre era il re dei Goti, si chiamava Walamir; Teoderico era suo figlio naturale; anche la madre, Ereriliva, era gotica, però cattolica, e nel battesimo prese nome Eusebia. Glorioso, uomo in tutto di buona volontà, diede all’Italia trenta anni di prosperità, e la pace a chiunque venisse ad abitarvi. Non fece alcuna impresa che non andasse a buon fine. Governò due genti in un regno, cioè i Romani e i Goti. Lui era ariano, ma non attentò in nulla alla religione cattolica. Organizzò i giuochi del circo e dell’anfiteatro, tanto da essere chiamato dai Romani Traiano o Valentiniano, dei quali ravvivò i tempi, mentre i Goti lo ritenevano in ogni cosa un re fortissimo, anche per il suo editto, con il quale diede al diritto un fondamento. Stabilì per i Romani un servizio militare come era sotto gli imperatori. Elargì doni e pubblici alimenti. Aveva trovato l’erario del tutto estenuato, e con la sua operosità lo ricostituì e lo arricchì. Era analfabeta, ma nonostante ciò di tale sapienza che alcune delle cose che disse sono tenute comunemente ancora oggi in luogo di proverbi24.
Agli elementi di elogio descritti in questo brano di un autore anonimo, altri scrittori, più importante fra tutti un consigliere e segretario di Teoderico, il senatore Cassiodoro, ne avrebbero aggiunti di ulteriori, e sempre nel segno di una piena ricezione di valori fondamentali del principato classico: la cura per il decoro e la funzionalità delle città (cura di fontane e acquedotti, oltre che dei luoghi del giuoco), la subordinazione del principe alle leggi, la tolleranza religiosa fondata sul principio che «nessuno può essere costretto a credere contro la propria volontà», e correntemente la tutela delle aristocrazie e in primo luogo dei senatori romani25.
Su questo sfondo retorico generale si impiantava quello che sarebbe stato, sia in vita di Teoderico che dopo la sua morte (526) e nei momenti difficili, il tema dominante dei sostenitori del dominio gotico in Italia: la pacifica convivenza garantita fra Goti e Romani, il suo fondarsi sull’ordinata dicotomia fra un potere legislativo-amministrativo e un potere militare. Ennodio, Cassiodoro, il cosiddetto Anonimo Valesiano, e indirettamente lo stesso Procopio di Cesarea, avrebbero detto del modo pacifico e senza sofferenze con cui si era insediata in Italia la dominazione dell’elemento militare germanico e del quieto affiancarsi del goto soldato e del romano civile.
Non è facile, data la scarsità di fonti epigrafiche e documentarie di quest’epoca, sceverare l’elemento puramente ideologico e propagandistico e il fondamento obbiettivo in questo complesso di scritture letterarie che quasi sole ci parlano del regno goto d’Italia. Non ci sono, comunque, dubbi su alcuni elementi che fecero da effettivo supporto a una convivenza. Anzitutto, come si è detto, l’esiguità numerica dei Goti rispetto alle popolazioni da tanto tempo stanziate nel sud d’Europa. Bisogna anche tenere presente che il regno di Teoderico comprendeva, oltre all’Italia nei suoi confini di oggi, la Provenza, la Rezia e il Norico, l’Istria e la Dalmazia, le valli della Drava e della Sava, e in una breve fase si dilatò addirittura, in una sorta di protettorato, alla Spagna visigotica. In parte Teoderico riprendeva così un’antica tradizione «imperiale» dei Goti, che nel IV e nel V secolo, prima di essere travolti dalla pressione unna, avevano egemonizzato popolazioni neolatine, germaniche, slave. Il fatto che in un momento di questa pulsione imperialistica un re goto esprimesse, a quanto si tramanda, la volontà di contrapporre una Gothia a una Romania, deve essere letto non come una forma di contrapposizione nazionale, ma come una forma di concorrenza fra imperi, e cioè fra strutture fondate proprio sul coagulo di nazioni diversissime e sul sostanziale mantenimento e rispetto di tali diversità26.
Un altro aspetto importante era nel modo di finanziamento della forza militare gotica. Con un procedimento che fu largamente diffuso nei secoli dal IV al VI, ogni volta che gli imperatori poterono in qualche modo gestire i movimenti di popoli ed eserciti barbarici, ai nuovi venuti germanici impegnati nell’esercizio della guerra non furono date senz’altro in proprietà terre sottratte a proprietari residenti da antica data, men che meno a proprietari aristocratici: si ricorse invece al consolidato sistema di devolvere ai guerrieri goti, insediati come hospites, l’imposta fondiaria già dovuta all’imperatore27. Non si può però dubitare che si svolgessero anche fenomeni di appropriazione e di colonizzazione: ma sembra che almeno inizialmente si contenessero in zone dell’Italia padana e della Toscana, senza pregiudizio dunque per i grandi patrimoni dell’aristocrazia romana nel Centro-Sud e in Sicilia. È possibile che le maggiori sottrazioni avvenissero a spese di proprietari medi e piccoli, e contribuissero così ad accentuare quella preponderanza dei cittadini romani potenti sui poveri che alcuni autori cristiani, Agostino in testa, avevano denunziato dal V secolo28.
Deve essere infine banalmente ricordato, per i Goti come per successivi insediamenti di popoli germanici in Italia, il fatto che si assestarono su un quadro territoriale già molto definito. Così si adeguarono anche alla struttura fondamentale di inquadramento, la città, intelaiatura di base di una articolazione che si ordinava poi, con configurazioni più mobili e variegate attraverso le epoche, per regioni, diocesi, prefetture, province. Erano le città il luogo di formazione delle élites: qui i possessori di terre e i collettori di imposte seguivano carriere locali, coprivano le magistrature urbane, componevano quei senati che, nella retorica imperiale, avrebbero dovuto riprodurre ovunque la curia senatoria della capitale; si costruivano, infine, la base per una eventuale ascesa alla grande aristocrazia, che era in Italia quella del Senato di Roma29.
Così, attraverso le Variae di Cassiodoro, compaiono dinanzi ai nostri occhi la serie delle città e i riferimenti ai loro possessores, defensores, curiales: a Pavia e a Trento, a Parma e a Forlì, per citare solo alcune referenze più specifiche, in un panorama comunque tutto cittadino e tutto retoricamente dominato dall’idea della civilitas urbana30. E nelle città dovettero realizzarsi i primi e più importanti fenomeni di osmosi tra élites gotiche ed élites neolatine. Le celebrazioni retoriche dell’armoniosa convivenza fra Goti e Romani – i primi difensori armati dei secondi – tendono paradossalmente a sottolineare la separatezza, e lasciano così nell’ombra quello che poté essere il principale motore della convivenza, cioè l’insieme dei processi di osmosi. Ora noi sappiamo per certo che, come uomini di stirpe gotica ricoprivano anche uffici civili, così nell’esercito di Teoderico erano presenti guerrieri e capi di altre stirpi, ed anche neolatini. Purtroppo, le evidenze che abbiamo rimangono di carattere del tutto individuale e disperso. Ed è anche modesta la nostra conoscenza delle chiese cittadine e dei loro vescovi in questi anni, ciò che ci avrebbe aperto una pista importante per seguire i processi di avvicinamento tra Goti e Romani.
Era infatti l’episcopato, fondamentale ossatura della società cristiana, adeguato ovviamente all’ossatura dello stato romano-ellenistico nella quale era cresciuto e quindi fondato anch’esso sulle città, l’istituzione che apriva una strada importante alle osmosi fra élites di popolazioni diverse31. L’episcopato era un ufficio molto ambito, e si manifestava già un problema di simonìa, cioè di acquisizione dell’ufficio con esborso di denaro a chi poteva influenzare l’elezione. Questa competeva in linea di principio a tutti i fedeli, sia chierici che laici, della diocesi, ma nella pratica era il fatto di una informale élite di preti e di notabili laici della città. Era nella formazione di questi informali corpi elettorali, oltre che nella individuale acquisizione dell’ufficio, che dovevano svolgersi le dinamiche dell’osmosi. Ma sappiamo pochissimo delle elezioni episcopali in genere, e praticamente nulla di quelle dell’età di Teoderico. Abbiamo comunque, pur nella miserevole situazione delle fonti del V e VI secolo, qualche attestazione di vescovi goti in Italia, come Gudila di Sarsina, ricordato in un testo di Cassiodoro che è poi molto interessante anche per il riferimento ai problemi del governo locale cittadino32. Sappiamo però di un fattore che rallentò la via episcopale all’osmosi fra Goti e Romani: l’adesione delle élites gotiche alla versione ariana del cristianesimo, che era stata definita eretica nei concili ecclesiastici del IV e del V secolo.
I problemi più critici della vita civile in Italia nell’età di Teoderico sembrano tuttavia essere provenuti non tanto dalla questione dell’arianesimo, quanto da alcune disfunzioni nella struttura sociale, che andavano al di là della questione della convivenza fra le stirpi e fra le osservanze dottrinali. Se erano le città il perno dell’inquadramento politico, giudiziario e amministrativo, la vita economica si fondava essenzialmente sulla produzione delle campagne, e il tutto presupponeva dunque la prosecuzione di un ordinato sistema di scambi e comunicazioni, anche su lunghe distanze, fra regioni diverse e tra campagne e città. Ma nelle epistole di Cassiodoro, accanto alla solennizzazione della civilitas e dei valori urbani, troviamo anche notizia del dissesto di strade e di fiumi navigabili; peggio: ne appaiono in parte responsabili alcuni ricchi privati, i quali per farsi delle pescaie osano intercludere il corso del Mincio, dell’Oglio, del Serchio (Auser), dell’Arno, del Tevere33. Dopo la morte di Teoderico, si formò un partito ostile al suo figlio giovinetto e a sua madre reggente, e coagulato attorno a un nipote di Teoderico, il nobile Teodato. Ora costui sarebbe stato ricordato anzitutto come uno sterminato proprietario terriero, ricco «della massima parte delle terre di Toscana», aggressore dei beni dei vicini perché avere un vicino gli sembrava «una specie di sciagura»34.
Se queste dinamiche di disordine sociale sono documentate in maniera sporadica, vi è tuttavia un segno clamoroso di crisi della civiltà urbana: la progressiva rarefazione della cultura cittadina laica. Certamente persisteva un alfabetismo di base abbastanza diffuso, e ricorderò anch’io la bambina inlustris di Verona, «istruita nelle lettere». Si venne estenuando però, da un lato, la produzione epigrafica, che era stata il fatto di larghi segmenti della società civile e militare sino al III secolo, dall’altro la produzione letteraria laica di livello elevato, fondata sugli studi retorici e filosofici e su un insegnamento di carattere domestico e privato. Essa fu oramai il prodotto di élites quanto mai rarefatte: in sostanza, di alcuni esponenti del Senato di Roma35.
In questo contesto, le elaborazioni di scritture più ampie, solenni e anche ricche di informazioni fattuali, fonti dunque tra le più importanti, hanno un carattere fortemente ideologico, cioè di anelito a un assetto quale lo si sarebbe desiderato, oppure di sublimazione, o ancora di superamento in senso filosofico – cristiano o non – di difficoltà e drammi del presente. A questa categoria appartiene anche il testo più celebre del senatore Severino Boezio, che fu poi uno dei protagonisti delle prime crisi del regno di Teoderico e delle prime gravi incrinature fra la corte regia e l’aristocrazia senatoria. Proprio nel fuoco di questa crisi, sospettato di avere congiurato ai danni del re in collegamento con altri senatori romani, egli scrisse il trattatello De consolatione philosophiae, nel quale si legge una riduzione sia della gloria romana che di quella ambizione nobiliare che era concresciuta con essa:
Perché non è chi non veda quanto vacuo, quanto futile sia l’appellativo di nobile. Se si riferisce alla claritas, appartiene ad altri: la nobiltà è infatti un pregio che deriva dalla fama dei progenitori [...]. Se c’è nella nobiltà qualcosa di buono, penso che sia solo questo, che ai nobili è imposto l’onere di non degenerare dalle virtù degli avi [...]. Ogni genere di uomini nasce in terra da una stessa origine: uno è infatti il padre di tutti [...]. Dunque fu un nobile seme a dare origine a tutti i mortali. Perché fate tanto rumore sulla stirpe e gli antenati? Se considerate la vostra prima origine e il vostro autore, Dio, comprenderete che nessuno decade di stirpe se non chi si allontana da quella origine con i propri vizi e con la ricerca del peggio36.
L’egemonia gotica in Italia si svolgeva dunque in un quadro che non era più, da gran tempo, di quieto e ordinato sviluppo economico e sociale, e sul quale si innestarono, già prima della morte di Teoderico e del conflitto per la sua successione, lacerazioni interne delle élites. Tensioni fra città e campagne, rarefazione di élites potenti e perciò stesso piene di intrigo e rivalità al loro interno, erano lo sfondo sul quale si sarebbe dovuto svolgere un processo di convivenza tra popoli diversi. Mancò, comunque, la dimensione temporale necessaria a un tale processo. Non fa meraviglia che quando Giustiniano volle la guerra contro i Goti d’Italia, alla metà del VI secolo, essi parlassero ancora nella propria lingua37.
1. Non possiamo dire come si sarebbe evoluta una acculturazione dei Goti in territorio italiano che si fosse distesa per più di tre generazioni. In questo limite essa fu confinata per l’iniziativa imperialistica di Giustiniano, il quale nel 535 ordinò una campagna militare per la riacquisizione dell’Italia all’impero, dopo avere concluso vittoriosamente la campagna per la conquista dell’Africa dominata dai Vandali. In Italia la vittoria finale bizantina fu raggiunta dopo un conflitto di diciotto anni, nel corso del quale si esasperò l’esclusività del ruolo militare dei Goti e si cristallizzò una loro separatezza culturale rispetto alle élites romano-ellenistiche.
Fra le testimonianze di questo conflitto primeggia la narrazione storica di Procopio di Cesarea. Esponente di un alto notabilato cittadino, assessore di Belisario, il comandante dell’esercito bizantino in Italia, testimone oculare di molti dei fatti che narrò, Procopio manifestò una serena tendenziosità di scrittura storica. La tendenziosità consisteva in uno scetticismo sostanziale verso le iniziative promosse in campo religioso e in campo politico dall’imperatore Giustinano. Affidando ad altri testi la dichiarazione esplicita del suo atteggiamento antigiustinianeo, nella storia della guerra gotica Procopio lo espresse solo attraverso una ostentazione di serenità di giudizio, uno sforzo di equanime comprensione dell’animo umano e un’attenzione autentica – ereditata dalla grande tradizione etnografica greca e della quale abbiamo veduto un’espressione in Tacito – per i diversi popoli, i loro costumi e i loro atteggiamenti mentali1.
I Goti furono così descritti da Procopio senza alcuna insistenza su loro crudeltà o rozzezze, come era avvenuto invece presso autori precedenti e come sarebbe stato poi amplificato in una gran parte della tradizione medievale. Intessendo la narrazione, in conformità con un modello classico, di ampi discorsi di re, ambasciatori e comandanti di eserciti di ambo le parti – esortazioni ai soldati e alle popolazioni, argomentazioni nelle trattative politiche ecc. – Procopio non manifestò attraverso questa retorica alcuna predilezione per gli uni o per gli altri. Semmai diede a volte l’impressione di una maggiore persuasività delle perorazioni dei capi goti, ad esempio nelle loro rivendicazioni retrospettive di un governo buono e tollerante verso le popolazioni soggette, o mise in luce gli sforzi da essi operati per addivenire a un accordo politico con la divisione di distinte sfere di dominio in Italia; laddove da parte greca non sembra che vi fosse alcuna reale controargomentazione, ma solo la secca intimazione ai Goti di sottomettersi all’autorità imperiale, e il rifiuto di ogni altra ipotesi di soluzione politica2.
Analogamente, nel valutare i capi delle due parti in guerra, Procopio avrebbe espresso immenso elogio per Belisario ma senza mancare di esaltare il valore e la magnanimità del suo maggiore avversario, il re goto Totila. E commentandone l’esito di sconfitta e di morte, esso gli sarebbe apparso non come il portato di una qualche forma di superiorità dello schieramento greco o di un meritato favore divino per esso, bensì come una ennesima prova del dominio della sorte (la tyche) sulle cose umane, e dunque dell’irrazionalità della storia:
Tal fine ebbe il principato e la vita di Totila dopo undici anni di regno sui Goti; fine non degna degli atti suoi passati, poiché, mentre prima ben riuscivano a lui le sue imprese, alle sue gesta non fu proporzionata la sua morte. Ma anche allora la sorte brillando manifesta e facendosi giuoco dei fatti umani, diede a divedere la stranezza della sua natura e la irrazionalità dei suoi decreti; dacché, dopo aver senza alcun motivo di suo arbitrio prodigato a Totila la felicità, capricciosamente poi, senza che se ne veda il perché, fece colui morire così miserabilmente. Ma son cose queste che l’uomo mai non poté, né mai potrà intendere; eppur se ne parla, se ne discorre e si van ventilando in sempiterno, siccome a ciascuno aggrada confortare la propria ignoranza con parvenze di probabili ragioni3.
L’assenza di una intenzione denigratoria nei confronti dei Goti non toglie che Procopio ne mettesse in risalto alcuni tratti peculiari. In particolare affrontò la questione della loro «illetteratezza», che un altro testo dell’epoca aveva sottolineato parlando di un analfabetismo dello stesso re Teoderico. Questa informazione è stata molto discussa, è quasi certamente falsa, e va considerata come uno dei primi esempi di uno stereotipo destinato al successo: l’analfabetismo del re, recuperato poi in chiave positiva per far rifulgere la grande ed innata saggezza di sovrani pure «illetterati». Quanto a Procopio, egli seppe inserire l’attribuzione di illetteratezza a Teoderico nel suo contesto culturale e politico. Narrò che quando, dopo la morte di Teoderico, si era aperta la grave questione della successione del suo figlioletto sotto la reggenza della madre Amalasunta, il malcontento dei maggiorenti goti verso Amalasunta si era espresso nella rivendicazione di una educazione solo militare e non scolastica del fanciullo, come autentica tradizione del popolo goto e del grande re che ne era stato espressione:
Aggiungevano che neppur Teoderico avea permesso che alcun Goto mandasse i figli alla scuola di lettere [es grammatistoù], poiché, solea dire a tutti, se in essi si introduca il timore della sferza mai più non saran capaci di spregiare con forte animo spada e lancia4.
Attento a questi aspetti culturali e al loro autentico spessore (l’alternativa tra educazione militare ed educazione letteraria sarà un fatto importante nella storia delle élites medievali), attento alla definizione delle etnìe presenti in campo (i Bizantini avrebbero fatto intervenire Gepidi e Longobardi, mentre i Goti avrebbero cercato a più riprese l’accordo con i Franchi), Procopio di Cesarea offre minore chiarezza sulle componenti interne e sulle differenziazioni sociali delle popolazioni coinvolte. Per le campagne viene proposta a tratti l’immagine di una contadinanza piuttosto indifferenziata, in gran parte in condizione servile, alla quale il re goto Totila farà balenare una prospettiva di liberazione. Per le città vi sono riferimenti altrettanto occasionali come quello sui modesti artigiani di Roma che vivevano «alla giornata» e ai quali Belisario si preoccupò di assicurare un salario istituendo dei lavori di guardia; in via più generale, quando come a Napoli si svolgono i contrasti politici e si accende la divisione fra un partito filogoto e uno filobizantino, appare in un contesto retorico la classica contrapposizione di una «plebe» (plèthos) ai cittadini «più eminenti» (dòkimoi)5.
Questi elementi «più eminenti», presenti nelle città sia in campo romano che in campo goto, sono definiti a più riprese nei termini di dòkimoi e dokimòtatoi, lòghimoi e loghimòtatoi, pròtoi ed altri simili, o in forma di litote («uomo non oscuro», ouk afanès, come viene detto il goto Ulia dato in ostaggio ai Bizantini), insomma con una serie di accezioni che nella loro stessa promiscuità indicano una informale supremazia sociale. Così fra i lòghimoi di Napoli compare accanto ai maggiorenti locali anche il siro Antioco, mercante marittimo, il quale «godeva colà di molta riputazione per senno e rettitudine». Il presidio goto di Verona era comandato da Ildibado, «nobile uomo» (anèr dòkimos), il che non avrebbe impedito a Narsete di definire il re goto Totila, che di Ildibado era nipote, come un «tiranno plebeo» (tyrannon agelàion)6.
Una posizione di più nitida qualifica nobiliare era quella ancorata alle istituzioni romane classiche: così gli eupatrìdai Simmaco e Boezio, già consoli e preminenti fra i senatori; e in generale le persone insignite della dignità senatoria e della qualifica di patrizi, la cui attribuzione era stata rivendicata dal legato di Giustiniano, nella fase della trattativa con Teodato che precedette il conflitto, come una competenza del solo imperatore7.
Ma fu proprio questa aristocrazia senatoria e patrizia ad essere travolta dalla guerra, per eliminazione fisica o per una fuga spesso senza ritorno dalle proprie terre e città, mentre nel campo goto la preminenza delle armi apriva la possibilità dell’ascesa sociale a soldati di oscura stirpe ma di prestanza militare. Se Totila poteva dirsi un «tiranno plebeo» solo nella retorica sprezzante del comandante bizantino, che abbiamo ricordata poco sopra, certamente «plebeo» era stato il suo predecessore Vitige: «uomo di famiglia invero non illustre» (oikìas men ouk epifanoùs), egli aveva primeggiato nell’esercito di Teoderico lottando contro i Gepidi, e giunto in posizione eminente volle sposare una figlia della regina Amalasunta entrando così nella parentela degli Amali8. Il caso di Vitige è doppiamente esemplare, per l’ascesa da un rango ignobile consentita dall’esercizio della guerra e per l’ambita nobilitazione regia attraverso il matrimonio.
Il virulentarsi della guerra d’Italia non aperse soltanto la via al predominio del fatto militare e guerresco nel determinare l’ascesa sociale di singoli, ma più ancora segnò – come ho accennato – la liquidazione di buona parte dei senatori e delle aristocrazie di stirpe italica. Nello scenario degli stermìni per fame (i «non meno di cinquantamila contadini romani» morti nel Piceno nella carestia dell’estate 539) e dei massacri di guerra (la strage dei cittadini di Milano, che Procopio stima in almeno trecentomila, nello stesso anno), si collocano verso la fine della guerra le uccisioni selettive dei senatori di Roma, dei patrizi di Campania, dei «figli dei nobili romani in ciascuna città» (tòn ek pòleos ekàstes dokìmon) recati in ostaggio da Totila oltre il Po e finiti dal suo successore Teia9. Altri si rifugiarono a Costantinopoli o comunque in territori imperiali, e di questi non sembra che molti abbiano fatto ritorno alle proprie case e possedimenti dopo la vittoria bizantina10.
Non è difficile intuire la vulnerabilità di élites già di per sé rarefatte come sappiamo. Del resto anche l’entità numerica dell’esercito goto appare, per quanto incerta sia la valutazione delle cifre offerte da Procopio, relativamente modesta e destinata ad assottigliarsi tragicamente nel corso della guerra. Dopo aver messo in campo qualcosa come centocinquanta-duecentomila armati nei primi anni del conflitto, dagli anni 540 i Goti si sarebbero contati in meno di diecimila; seimila furono i loro morti nella sconfitta di Totila sull’Appennino del luglio 55211.
2. Era dunque un’Italia depauperata di ambedue i suoi ceti dominanti, il goto sconfitto e l’italico decimato, quella che venne reinserita nell’impero romano. Il 13 agosto 554 una legge imperiale, nota come la Prammatica Sanzione, deliberava il ripristino degli antichi proprietari nei loro possedimenti, revocava le liberazioni di servi che erano state promulgate sotto la «tirannia» dei Goti, e soprattutto sanciva la piena integrazione dell’Italia nell’assetto politico, giuridico e amministrativo comandato da Bisanzio.
Quest’assetto, non che essere una mera prosecuzione o restaurazione di strutture precedenti, aveva conosciuto una evoluzione sostanziale, accelerata proprio durante gli anni delle guerre d’Africa e d’Italia. Contemporaneamente e contestualmente a queste guerre di riconquista l’imperatore e il suo apparato curiale avevano promosso una imponente iniziativa legislativa, in parte espressa nella sistemazione dei princìpi fondamentali del diritto romano e delle elaborazioni dottrinali che i grandi giuristi (iuris prudentes) avevano compiuto intorno ad esso, in parte risultante dalla raccolta delle leggi degli imperatori e dalla corrente iniziativa giuridica dello stesso Giustiniano12. In questa parte «imperiale», e massimamente in quella giustinianea, era contenuta una mutazione sostanziale rispetto al diritto romano classico, cioè l’integrazione nel sistema giuridico pubblico di tutto ciò che riguardava la religione cristiana e i suoi ministri. Da un lato era riconosciuto valore di legge ai canoni dei concili ecclesiastici (Nov. 131), dall’altro le leggi imperiali contemplavano la tutela dell’ortodossia cristiana, con la persecuzione delle eresie e con pesanti forme di repressione della religione ebraica (si può vedere per tutte la Nov. 37, intesa a sistemare la situazione nell’Africa riconquistata), definivano le modalità dell’accesso alle gerarchie ecclesiastiche e la disciplina della vita chiericale e monastica, sancivano l’inalienabilità dei beni delle chiese e istituivano privilegi di foro e di natura fiscale in loro favore (si vedano in particolare le Novv. 79, 83, 123, 131). Ai vescovi erano attribuite funzioni pubbliche, come quando si assegnava ad essi e ai maggiorenti delle città il compito di notificare i precetti imperiali e farli inserire nei gesta municipali (Nov. 17); più ancora, venivano investiti di competenze giudiziarie, con funzioni di sollecitazione e controllo nei confronti dei giudici ordinari (Nov. 86).
Di fronte a questa accelerazione dell’ufficializzazione dell’ortodossia cristiana e alla sua pervasività nella vita sociale (si pensi, nel campo del diritto pubblico, all’esclusione dai pubblici uffici, o nel campo del diritto di famiglia all’equiparazione dell’eresia all’ingratitudine, con conseguente facoltà per il genitore di diseredare i figli eretici: Novv. 37 e 115), suscita ammirato stupore la tenacia con cui tanti eretici e tanti ebrei mantennero fede alla propria convinzione religiosa, mentre è ben comprensibile la corsa di esponenti di ceti agiati alle cariche ecclesiastiche, soprattutto all’episcopato. La generalizzata ambizione dei ceti eminenti alle cariche episcopali diede luogo a due fenomeni, la cui diffusione fu tale da indurre a ricorrenti iniziative di legge per arginarli: la promozione all’episcopato di laici e l’acquisto della carica, con una pratica che nell’ambito della dottrina ecclesiastica venne definita in termini di «simonìa» e considerata alla stregua di un’eresia religiosa (Novv. 6, 123, 137).
L’integrazione di legge imperiale e di dottrina e normativa ortodossa, accentuata in maniera decisiva nel regno di Giustiniano, rappresenta un elemento di innovazione difficilmente confutabile anche dalle visioni più continuistiche del passaggio dal mondo antico al medioevo. A noi importa cogliere il riflesso di questa evoluzione sulla fisionomia delle élites sociali. Naturalmente alcuni elementi di continuità si impongono. L’organizzazione politica giustinianea mantenne la struttura per grandi circoscrizioni (diocesi, province) e su un tessuto di base che rimaneva imperniato sulle città. Le élites sociali erano sempre assise sulle città, come lo era la struttura gerarchica della Chiesa, incardinata sull’episcopato. Qui si continuava un’amministrazione pubblica, una fiscalità, una tenuta di gesta municipalia – che hanno fatto purtroppo totale naufragio – e dunque, pensiamo, una cultura scritta di base: una Novella del 538 sottolineava la differenza tra le città e le campagne, nelle quali ultime era grande la simplicitas e vi era penuria di persone capaci di scrivere (Nov. 73).
L’accentuato ruolo dell’episcopato nell’amministrazione pubblica aveva a sua volta contribuito a consolidare ed estendere il peso istituzionale delle città. Alla nomina dei vescovi concorrevano insieme al clero i maggiorenti cittadini, che la legislazione imperiale del VI secolo non definisce in maniera più formale di quanto non si sia veduto nella narrativa di Procopio: primates, primores, pròtoi, nobiles (si possono vedere, fra altre, le già citate Novv. 17, 123 e 137). Un ceto, dobbiamo pensare, all’interno del quale erano i pubblici funzionari urbani, defensores e curiales, senza una rigida sovrapposizione tra ufficio e qualifica aristocratica; una serie di convergenze di fatto tra preminenza economica e ruolo istituzionale, che in un contesto giuridico diverso e con riferimento a Costantinopoli vengono espresse nella contrapposizione fra coloro che si distinguono «per il fatto della dignità o della milizia o della ricchezza o dell’ufficio» e i «carrettieri o gente terra terra o del tutto oscura» (Nov. 90, del 539)13.
Proprio per le categorie meglio definite in base a funzione e ufficio, quella dei milites e soprattutto quelle, inerenti alla vita pubblica cittadina e alla responsabilità fiscale delle città verso l’impero, di curiales e defensores, ci si interroga sull’effettiva condizione sociale. Oscillante è stata fra gli storici la valutazione sullo stato di sofferenza che si sarebbe manifestato nelle élites cittadine tradizionali, sulla renitenza ad assumere le cariche di curiales e defensores che risulta da tante testimonianze, sulla fuga dalle curiae cittadine, o al contrario sulle opportunità che tali cariche avrebbero offerto. Una lettura semplice delle Novellae giustinianee suggerisce la contrapposizione tra uffici che erano molto appetiti, tanto da doverne essere disciplinato in maniera rigorosa l’accesso, e altri verso i quali si manifestava una renitenza. Ai primi appartengono giudici e vescovi, uffici per i quali è attestata la pratica dell’acquisto, che le leggi imperiali ricorrentemente proibiscono (dei vescovi si è detto, per gli iudices si veda in particolare la Nov. 8). Alle funzioni amministrative e fiscali delle città, impersonate da curiales e defensores, si tendeva invece a sottrarsi: di qui le denunzie contro il decadere delle curiae, questi «senati» che i fondatori della res publica romana avevano voluto costituire in ogni città (si veda tutto l’importante proemio della Nov. 38), di qui le leggi per imporre una rotazione fra i maggiorenti nella carica di defensor (Nov. 15) e per punire il rifiuto degli uffici e invalidare una serie di motivi accampati per l’esenzione: fino all’assurdo di dichiarare l’obbligo a ricoprire tali funzioni pubbliche per ebrei ed eretici, senza peraltro che essi avessero diritto ai privilegi connessi (Nov. 45, del 537).
Alle persone qualificate da una funzione pubblica e a quelle genericamente indicate come notabili o maggiorenti, le leggi imperiali accostano i possessores: come quando attribuiscono ad essi, congiuntamente con il vescovo e i primates civitatis, il compito di istituire gli ufficiali preposti all’approvvigionamento delle popolazioni urbane (Nov. 128, del 545). Una teoria vuole che questi possessores non fossero proprietari fondiari, ma semplicemente responsabili della percezione dei relativi cespiti fiscali, collettori di imposte14. Tutte le Novellae giustinianee smentiscono tale interpretazione, a cominciare dalla fondamentale 128 che ho appena citato, e che concerne per l’appunto il regime di raccolta ed esazione dei tributi. Le responsabilità fiscali che le leggi cercavano di accollare ai possessores derivavano direttamente, e ovviamente, dalla loro posizione di proprietari fondiari nelle cui terre lavoravano schiavi, coloni, enfiteuti, e anche contadini che oltre alle terre dei possessores coltivavano qualche fondo proprio (quindi la norma per cui non si doveva esigere da un possessor l’imposta fondiaria gravante su terre di proprietà di questi contadini, anche se poi essi lavoravano, oltre a questa loro, la terra del possessor: Nov. 128, 14). Molto interessante è il cenno alla prassi per cui i possessores distraevano a proprio profitto il lavoro dei milites e dei foederati, impiegandoli «nella loro casa o nei loro possedimenti» e sottraendoli così al compito di difesa della libertas rei publicae (Nov. 116, del 542).
Due motivi impediscono di trarre, da questo insieme di leggi, deduzioni sicure sulle concrete realtà sociali dell’Italia del VI secolo. Anzitutto la consueta difficoltà di valutare le relazioni fra normativa legale e andamento reale delle cose, in assenza di una serie consistente di testi documentari e amministrativi. Poi l’insicurezza nel valutare l’incidenza regionale e locale di una legislazione che aveva carattere generale, ed era stata in buona parte promulgata prima della riconquista, anche se non fa dubbio l’estensione all’Italia dopo la disfatta dei Goti. Bisognerà attendere almeno la fine del secolo per avere una luce un poco più nitida rispetto a quella che emana dalle fonti di natura normativa e letteraria.
Nonostante queste cautele, solo una sterile ipercritica delle fonti potrebbe impedire di cogliere attraverso le Novellae giustinianee il potere di iudices e vescovi, la crisi degli altri ordinamenti cittadini, il peso della grande proprietà fondiaria, e in quest’ambito il singolare impulso offerto al consolidamento e all’espansione delle proprietà ecclesiastiche. Alle donazioni dei privati e alle elargizioni imperiali si aggiungevano il trasferimento di beni pubblici già addetti al culto pagano o imperiale, la ricadenza delle successioni di chierici morti senza aver fatto testamento o senza eredi legittimi e la ricadenza di beni di eretici (Novv. 131, 13, 3, e 132). Pur suscettibile di deroghe ed elusioni, l’inalienabilità dei beni ecclesiastici (Nov. 7) restava comunque un principio di base del quale si sarebbero veduti clamorosamente gli esiti nei secoli a venire.
Il favore verso la proprietà delle chiese era espressione di un sistema politico nel quale le istituzioni ecclesiastiche e l’ortodossia religiosa venivano rivestendo un peso inaudito, e una inaudita integrazione con il potere dello Stato. L’integrazione non tolse che alcuni equilibri si rivelassero fin da quest’epoca molto problematici. Nella retorica legislativa si affermava una necessità di tutelare i sacri canoni e le leggi divine, istituite per la salvezza delle anime, con rigore superiore a quello richiesto dalla salvaguardia delle leggi umane. Ma nel campo fiscale le necessità dello Stato potevano suggerire deroghe all’inalienabilità dei beni delle chiese (Nov. 46, del 537), mentre nel campo del diritto di famiglia sarebbe rimasta a lungo salda la tradizione del matrimonio romano, con il suo fondamento nella mutua dilezione dei coniugi e la conseguente opportunità del divorzio quando questa venisse a mancare (Nov. 140, di Giustino II, 566).
Le difficoltà maggiori provennero tuttavia dall’interno stesso dell’ideologia di tutela imperiale dell’ortodossia, poiché l’ortodossia era l’oggetto di una continua elaborazione e discussione, i cui protagonisti erano le centinaia di vescovi dell’impero, a nessuno dei quali era riconosciuto un primato sul terreno dell’elaborazione dogmatica. Vero è che circa un secolo prima di Giustiniano, nel 451, a momentanea conclusione di una elaborazione dottrinale molto faticosa intorno alla natura del Cristo e alla Trinità divina, un concilio ecumenico riunito a Calcedonia (dirimpetto a Costantinopoli, al di là del Bosforo) era stato largamente ispirato da papa Leone Magno, e ne aveva riconosciuto l’altissima autorità. Nessun canone aveva però sancito un’autorità dirimente della sede vescovile di Roma, alla quale rimaneva solo l’indiscusso onorifico primato che competeva al luogo dove Pietro aveva subìto il martirio. All’avvento di Giustiniano, mentre il conflitto trinitario era ancora vivissimo nella cristianità greca e orientale e si affermavano le tendenze monofisite, insistenti sull’unicità della natura divina, era aperto il campo all’elaborazione dottrinaria dei vescovi e dello stesso imperatore. L’intervento imperiale in favore dell’uno o dell’altro schieramento poteva incrinare in maniera sostanziale, in aree importanti dell’impero, quella solidarietà tra potere pubblico e istituzioni ecclesiastiche che si voleva perseguire.
Fu appunto ciò che accadde con Giustiniano, che in un tentativo di accomodamento con le tendenze monofisite convocò nella capitale imperiale nel 553 un nuovo concilio ecumenico i cui deliberati, da un lato, non acquietarono i monofisiti, dall’altro suscitarono una opposizione durissima a Roma e nella gran parte della cristianità occidentale e latina. Particolare indignazione suscitò la condanna postuma di tre autori, fra i quali un grande teologo del V secolo, Teodoro di Mopsuestia. Il papa dovette tuttavia piegarsi dopo interventi anche molto violenti del governo bizantino, mentre i metropolitani di Milano e di Aquileia e il clero delle loro province rimasero fermi ai canoni di Calcedonia del 451, trovandosi dunque in contrasto non soltanto con la cristianità greca e con l’imperatore ma con lo stesso papa che si era a questi allineato15.
Questo scisma, che si disse dei Tre Capitoli dal fatto dei tre autori condannati nel 553, ebbe conseguenze pesanti sia immediate che di lunga durata, e in particolare nei territori italiani. Ma anche nell’Oriente greco l’interventismo religioso di Giustiniano suscitò ostilità, non soltanto presso quanti professavano credenze definite adesso come ereticali, ma in genere presso quegli esponenti del notabilato urbano che erano legati a una tradizione antica di tolleranza religiosa e di separatezza tra funzioni civili e clero. L’esponente più incisivo di una opposizione del genere è ancora Procopio di Cesarea, che se nella narrazione della guerra d’Italia aveva infiltrato più di un elemento di critica dell’ingerenza religiosa di Giustiniano, si slanciò poi in una più generale, violentissima e per certi aspetti poco credibile denigrazione di Giustiniano, dell’imperatrice Teodora e di altri grandi esponenti dell’apparato imperiale. Affidata a un libello che avrebbe poi ricevuto tradizionalmente il titolo di Storia arcana o Storia segreta, la polemica di Procopio era anche espressione di uno sconvolgimento dell’ordine sociale che veniva imputato al governo imperiale e che si risolveva nel decadere di nobili e senatori a profitto, da un lato, dei preti, dall’altro di elementi plebei e financo servili. L’origine rozza e contadina di Giustiniano, l’infame vita di attrice e di prostituta di Teodora divenivano allora, al vertice, gli emblemi di una alterazione dell’ordine antico, dell’attentato al patriziato urbano ed ai suoi valori16.
Quanto all’Italia, destrutturata nelle sue élites tradizionali, lacerata sul terreno religioso, essa sarebbe rimasta un’entità politica unitaria ancora per pochissimi anni dopo la morte di Giustiniano (565). Per più d’una fra le popolazioni che si andavano assestando in Europa essa continuava a rappresentare uno spazio di attrazione. Proprio la riconquista bizantina dell’Africa vandala, dell’Italia e di un’area della Spagna visigotica aveva sconvolto un certo equilibrio che si era delineato in Occidente, e aveva accentuato il peso del regno dei Franchi, che acquistò in quest’epoca la posizione di preminenza tra le dominazioni politiche germaniche che avrebbe mantenuto poi per circa tre secoli. Egemoni nella gran parte dell’attuale Francia dagli inizi del secolo VI, i Franchi trovarono nella tensione fra Goti e Bizantini lo spazio per estensioni e consolidamenti nell’arco alpino occidentale e in Provenza. Procopio di Cesarea individuò in questa loro espansione il vero pericolo per l’impero, e verso di loro la sua equilibrata narrazione si altera in una singolare animosità: erano i Franchi, non i Goti, i veri barbari, ai quali l’inopportuna guerra voluta in Italia da Giustiniano dava la più ampia opportunità di espansione:
Nel tempo di questa guerra i barbari si fecero apertamente padroni di tutto l’impero d’occidente [...]. Già al principio della guerra i Goti tutta la Gallia ad essi soggetta avean ceduta ai Germani [= i Franchi], pensando di non poter resistere ad un tempo contro due [...]. Né i Romani poterono impedire questo fatto, ma anzi Giustiniano imperatore dovette loro confermarlo, perché questi barbari, messisi in guerra, non gli procacciassero imbarazzi. Poiché i Franchi non pensavano poter ritenere con sicurezza il possesso della Gallia se l’imperatore non vi avesse apposto il suo suggello. Dopo di che avvenne che i re germanici si impadronirono di Marsiglia, colonia focese, e di tutti i paesi del littorale come pur di quel mare. Ed ora se ne stanno in Arles allo spettacolo delle corse del circo e battono moneta d’oro dalle miniere delle Gallie; non già, com’era costume, coll’effigie dell’imperatore, ma sibbene con la loro17.
Fu tuttavia un’altra popolazione germanica, quella dei Longobardi, che per prima e in maniera più durevole approfittò della situazione di debolezza dell’Italia riacquisita all’impero ma lacerata dalla guerra greco-gotica, dalle carestie ed epidemie che l’avevano accompagnata, dalla divisione dell’episcopato intorno alla questione dei Tre Capitoli, dalla difficile situazione delle comunità ebraiche che avevano solidarizzato con i Goti e si trovavano ora soggette a una monarchia di esasperato assolutismo cristiano, dall’annichilamento o dall’esilio di tante famiglie di maggiorenti di stirpe latina al vertice, e alla base dalla frustrazione dei contadini ai quali erano stati prospettati dai «tiranni» goti dei miglioramenti di condizione che la Prammatica Sanzione aveva vanificato.
3. I Longobardi che fra il 568 e il 569 si avventarono su questa Italia erano una presenza già importante sullo scacchiere europeo, con una consolidata esperienza di organizzazione monarchica e una lunga stabilità nell’area danubiana, alla quale erano approdati dopo una plurisecolare migrazione dalla Scandinavia all’Elba, alla Moravia18. Nelle pianure del Danubio i Longobardi si erano trovati in un conflitto ricorrente con altre nazioni germaniche, specialmente con i Gepidi, e con la popolazione asiatica degli Avari. Alimentando e gestendo questi conflitti tra «barbari», l’imperatore Giustiniano aveva deciso anche di appoggiarsi ad alcuni tra di essi, e in ispecie ai Longobardi, per dare la spallata finale ai Goti d’Italia. Dal re Audoino aveva così ottenuto, dietro un forte compenso, l’invio di duemilacinquecento guerrieri scelti e di oltre tremila loro assistenti armati. Procopio di Cesarea, che fornisce questi dati, delinea anche un’immagine del tutto negativa di questo contingente barbarico: a tal punto esso si sarebbe distinto in incendi e stupri, che dopo la vittoria sui Goti Narsete ritenne di doverlo rispedire sotto scorta armata ai luoghi di provenienza19.
Memori della strada d’Italia, premuti dal regno (khanato) degli Avari, i Longobardi avrebbero organizzato nel 568 una grande migrazione armata sotto il comando del re Alboino, con mogli e figli e con un insieme di altre genti, germaniche e non: in particolare i Sassoni, «vecchi amici» di Alboino, che in numero di oltre ventimila, anch’essi con donne e bambini, avrebbero tentato la conquista. Questo sui Sassoni è l’unico dato quantitativo che le fonti sulla spedizione di Alboino in Italia ci abbiano tramandato. Sul numero delle persone di effettiva stirpe longobarda, una nazione germanica della quale era sempre stata posta in rilievo, da Tacito in poi, l’esiguità numerica, non abbiamo alcun appiglio nella tradizione20.
Il fatto della migrazione armata e della ricerca di una nuova patria, e la coalizione di nazionalità diverse, conferirono nei fatti e nella memoria un peso straordinario alla figura del re. Nella saga longobarda Alboino sarebbe stato ricordato anzitutto come un grande condottiero, fautore dell’invenzione di nuove armi, simile nei gesti ai grandi conquistatori del passato. La sua morte non sarebbe avvenuta per il soccombere al nemico armato, ma per una perfida insidia muliebre; nel corso della conquista d’Italia, egli si sarebbe mostrato magnanimo verso chi gli si sottometteva, come fu il caso del vescovo di Treviso, che si vide confermati da questo rex largissimus tutti i beni della sua chiesa21.
Questa aneddotica regia, come la gran parte delle tradizioni sulla migrazione longobarda, la conquista d’Italia e le vicende del regno e dei ducati longobardi fino all’epoca di re Liutprando (712-744), ci è stata tramandata da Paolo Diacono, che scrisse l’Historia Langobardorum all’epoca di Carlo Magno e dopo l’unione personale della corona franca e della longobarda (774). La valutazione delle informazioni di Paolo è sempre delicata, in particolare per questa grande distanza di tempo dai fatti narrati, e avremo nuove occasioni di discuterne. Meritano di essere sottolineate una sua sia pure episodica attitudine «archeologica», cioè una sensibilità verso le conservazioni o le perdite della lingua, dei costumi, delle istituzioni, una sua scrittura combinatoria di tradizione orale e di fonti scritte (alcune giunte anche sino a noi, come le storie dei Franchi di Gregorio di Tours o le opere di Gregorio Magno o il Liber pontificalis della Chiesa romana, altre perdute), una assoluta episodicità dell’atteggiamento critico verso le fonti scritte e una più normale prassi di mutuazione meccanica e di semplice combinazione fra di esse, e fra esse e le diverse tradizioni orali.
Ma come sempre di fronte a un grande autore, dobbiamo considerare Paolo Diacono anzitutto fonte su se stesso. Si riteneva nobile, fondando la sua nobiltà sull’ascendenza longobarda e dunque sulla derivazione da una stirpe venuta in Italia al seguito di Alboino: in questo senso aveva recepito una sua saga familiare che volle inserire a modo di parentesi nella generalis historia. In realtà non sembra che avesse una percezione chiara dei suoi antenati al di là di quattro generazioni prima: dunque all’epoca in cui i Longobardi erano stabilmente impiantati nei territori italiani, largamente fusi con le popolazioni di più antica residenza, propensi nei ceti elevati ad orientare la propria affermazione sociale verso le carriere ecclesiastiche, come sarebbe stato appunto il caso di Paolo22.
Quando scrisse la sua storia nazionale, egli si trovò a contemperare l’atteggiamento simpatetico verso la natio longobarda con due elementi diversi: la visione attuale della fine di un regno longobardo autonomo e del suo inserimento nell’egemonia della dinastia carolingia, della quale egli aveva accolto in pieno la legittimazione e l’ideologia, e la visione retrospettiva mediata da autori di alta considerazione ma fondamentalmente ostili ai Longobardi, come Gregorio di Tours e soprattutto Gregorio Magno23. Ma queste contraddittorietà si trovano del tutto smussate nella struttura del racconto storico di Paolo Diacono: che è nella sostanza una sequenza di gesta regi, con indicazione degli anni di regno, delle modalità dell’avvento al trono e della morte (quando su un re – Arioaldo – non ha notizie, lo scrittore sente di dover rilevare l’interruzione narrativa che ne discende)24. Ai gesta regi si accompagnano, in misura minore ma comunque notevole, dei fasti ducali per Cividale, Benevento, Spoleto. E su tutte queste sequenze regie e ducali, scandite dalla mera narrazione delle successioni dinastiche e delle imprese di re e duchi e senza indicazioni cronologiche esterne, planano dei criteri di valutazione che rappresentano – essi, e non le tensioni attuali o retrospettive fra natio longobarda ed altre nationes – l’ideologia e la tendenziosità dell’autore.
Nei confronti dei re, il giudizio è ancorato soprattutto al loro rapporto con le chiese, senza che sia una discriminante necessaria e globale l’adesione all’arianesimo o al cattolicesimo. Nei confronti dei duchi, sono costantemente sottolineate e condannate le loro ribellioni alla corona. Ed è in quest’ottica, di esaltazione dell’autorità regia, che Paolo rielaborò tradizioni orali e narrazioni scritte sull’avvento longobardo in Italia.
Le fonti scritte di Paolo erano quasi tutte di ambito franco e romano, e avevano sottolineato la violenza e la brutalità degli invasori. Si può pensare certo a un elemento tendenzioso e stereotipo nella visione di chiese saccheggiate e sacerdoti uccisi offerta da Gregorio di Tours, ma c’è poco da dubitare sull’andamento violentissimo della conquista, anche per la brevità dei tempi: un testo del VII secolo che recepì importanti tradizioni del popolo invasore, l’Origo gentis Langobardorum, parla di tre anni, mentre Gregorio di Tours dilatava le sacrileghe scorrerie dei Longobardi in Italia su un periodo di sette anni, dunque anche dopo la morte di Alboino avvenuta nel 57225. Tardiva ma ben più analitica, e per ciò più attendibile, l’Historia di Paolo Diacono avrebbe delineato il percorso dell’esercito di re Alboino fino al Piave, dove fu accolta e compensata la dedizione del vescovo di Treviso, poi l’occupazione di Vicenza, di Verona e delle altre città della Venezia (ad eccezione di Padova, Monselice e Mantova), l’ingresso in Liguria e la presa di Milano all’inizio della terza indizione (settembre 569); come il patriarca di Aquileia si era rifugiato nell’isola di Grado, così l’arcivescovo di Milano riparò a Genova, mentre Alboino occupava «tutte le città della Liguria, ad eccezione di quelle poste sulla riva del mare», quindi «tutti i luoghi sino alla Tuscia, all’infuori di Roma e di Ravenna e di alcuni castelli in riva al mare». Fra le città dell’interno, organizzò una forte resistenza Pavia, che sarebbe caduta secondo la tradizione di Paolo dopo un po’ più di tre anni26.
Che questo ritmo così veloce andasse di pari passo con una strage di resistenti fa poco dubbio. Scevro da tendenziosità di matrice nazionale o religiosa, Paolo Diacono avrebbe comunque rievocato quegli stermini dei nobili romani che certo segnarono un nuovo e grande passo verso il tracollo dell’aristocrazia antica. E tenendo banalmente presente come le chiese fossero il luogo di custodia dei maggiori tesori, va dato anche credito alle voci sulla violenza contro gli ecclesiastici e i saccheggi degli edifici sacri, di cui aveva parlato Procopio a proposito dell’intervento longobardo a fianco dei Greci nella guerra del 553 e che ricorrono nella notizia sulla conquista longobarda del 568-569 offerta da Gregorio di Tours.
Nel riprendere a sua volta questa rievocazione di brutalità e nefandezze, Paolo Diacono ne avrebbe data però una sua sistemazione ideologica, inserendo il momento della violenza estrema contro chiese e sacerdoti e lo sterminio di città e popolazioni in quel decennio, dal 574 al 584 circa, nel quale i Longobardi non ebbero re e furono retti dai duchi: i duchi di Pavia, di Bergamo, di Brescia, di Trento, di Cividale del Friuli e di altre trenta città che Paolo non nomina. È a questi duchi che Paolo attribuisce quegli atti di violenza che Gregorio di Tours aveva imputato ai Longobardi nel loro insieme; e riprendendo la descrizione delle nefandezze che Gregorio aveva disteso su sette anni, Paolo le appiattì sul settimo anno dall’avvento in Italia, dunque all’epoca dell’interregno ducale. A quest’epoca ricondusse anche l’immagine di un’Italia subiugata, nella quale i nobili «Romani» sarebbero stati in parte uccisi, in parte ridotti alla stregua di tributarii, obbligati cioè a riconoscere una sovranità dei Longobardi che si concretava nella cessione ad essi della terza parte dei redditi fondiari27.
Quest’ultima notizia denunzia quanto vi è di eccessivo nella narrazione di Paolo Diacono, sia dal punto di vista dell’esclusiva attribuzione degli atti di violenza all’interregno ducale sia dal punto di vista della qualificazione di questa violenza stessa. La cessione del terzo dei redditi fondiari configurava un rapporto simile alle tradizionali forme di delegatio dei cespiti fiscali e di hospitalitas che avevano regolato i rapporti fra popolazioni germaniche e residenti antichi nell’Italia dei re goti e in altre formazioni politiche nell’età delle grandi invasioni. E in effetti Paolo adopera proprio il termine di hospites per definire la situazione istituzionale dei Longobardi, non espropriatori di possesso fondiario ma subentranti nella percezione dei relativi redditi: in una misura certo molto elevata, conformemente alla situazione di subordinazione non meramente fiscale bensì politica dei possessori. Quando, in un contesto diverso e in una tonalità idillica, Paolo dipingerà la restaurazione regia con Autari (584-590), riprenderà la definizione dei Longobardi come hospites ai quali erano devolute le imposte della popolazione soggetta: ma questi populi adgravati (cioè contribuenti fiscali) non saranno più definiti tributarii, e saranno inseriti in un quadro ordinato di sistemazione possessoria e fiscale, nel quale i duchi avranno ceduto metà dei loro possedimenti al re perché su questa base egli possa finanziare la corte e i diversi funzionari pubblici; il tutto in un regno nel quale nessuno era soggetto ad angherìe (cioè a inique prestazioni fiscali) e a spoliazioni, non c’erano violenze né furti né rapine e ciascuno andava senza timore dove gli pareva28.
Paolo Diacono offerse dunque alla posterità, certo ignaro delle ridde di interpretazioni che avrebbero suscitato fra i posteri i suoi passi (in particolare i due appena citati, che è ormai un’obbligata clausola di stile qualificare «tormentati» o «tormentatissimi»), un quadro tendenzioso, ma non oscuro. O, per lo meno, complicato e contraddittorio nella stessa misura in cui lo era la vicenda che egli rievocava. Nella quale erano ovviamente connessi un momento dell’impatto violento, del saccheggio e dello sterminio, che andrà ricondotto soprattutto ai primi anni della veloce conquista, e un momento della sistemazione nell’insediarsi degli invasori sul territorio italiano, sistemazione già avviata con Alboino (non abbiamo serie ragioni per non credere al ralliement del vescovo di Treviso, e comunque sappiamo che non tutti i vescovi fuggirono come i metropolitani di Aquileia e di Milano) e certo largamente delineata nell’arco di una generazione, tra il regno di Alboino e quello di Autari.
Allo stesso modo, se riconosciamo il momento soggettivo dell’ideologia «regia» di Paolo e della sua conseguente ostilità verso le turbolenze e il ribellismo dei duchi, non sfugge l’obbiettiva sostanza di una dialettica fra grandi del regno e re che fin dall’inizio si prospettò difficile. E dall’insieme dell’esposizione fattuale di Paolo e della sua sistemazione narrativa, si ricava un altro aspetto importante di tale dialettica. Sembra che l’autorità regia fosse garante non solo di un ordine pubblico generale, come nell’idillica descrizione della restaurazione monarchica di Autari, ma anche della coesistenza di popolazioni diverse. Se Alboino aveva convogliato in Italia assieme ai suoi Longobardi anche altre etnìe, poco dopo la sua morte la più consistente fra queste, i suoi «amici» Sassoni, lasciò l’Italia con mogli e figli per tentare un nuovo insediamento nelle Gallie. Nel riprendere questa notizia nei termini in cui era stata data dalle storie dei Franchi di Gregorio di Tours, Paolo volle darne una motivazione e la cercò nella mancata disponibilità, da parte dei Longobardi, a garantire ai Sassoni di vivere secondo le proprie leggi29. Poiché il distacco dei Sassoni avvenne durante l’interregno ducale, sembra che Paolo indirettamente contrapponga un dominio ducale incapace di superare l’immediatezza fra autorità politica e identità nazionale ad una sovranità regia atta a far coesistere i diversi popoli con le rispettive leggi e consuetudini. L’episodio dei Sassoni getta così una luce sul rapporto fra Longobardi e Romani, questi ultimi tributarii sotto i duchi, come si è visto, ma normali sudditi di un tranquillo stato multietnico sotto Autari. Questo re si sarebbe attribuito, come già aveva fatto il grande Teoderico, il titolo di Flavius, del quale poi si sarebbero insigniti tutti i re longobardi: l’imitazione imperiale significava soprattutto l’imitazione di un dominio fondato sulla molteplicità della nazioni soggette, rispettoso e garante delle loro libertà30.
Nel rievocare la figura di Autari come restauratore dell’autorità regia e sistematore di un regno bene ordinato, Paolo Diacono riprese anche la tradizione secondo cui quel re avrebbe espresso l’ambizione ad una conquista totale della penisola: dopo avere sottomesso i ducati di Spoleto e di Benevento, egli si sarebbe poi spinto fino a Reggio, «ultima città d’Italia prima della Sicilia», ponendovi i termini del regno longobardo31. Fino a quest’epoca, cioè per oltre un ventennio, l’espansione territoriale dei Longobardi aveva interessato piuttosto l’area tra la pianura padana e le Alpi, al di qua e al di là di queste, con imprese nelle regioni delle Gallie che avevano avuto per protagonisti soprattutto i duchi e che avevano ravvivato, per contraccolpo, l’ormai tradizionale espansionismo franco in area alpina e subalpina. In questa fase si erano ripetuti tentativi dell’imperatore Maurizio per indurre Childeperto, re dei Franchi, a combattere i Longobardi, e si era svolto un giuoco politico e militare nel quale questo triangolo di formazioni statali era complicato dai protagonismi di duchi e altri grandi della guerra32. Verso la fine del regno di Autari i guerrieri franchi compirono scorrerie fino a Verona e al Trentino. Fu poi opera del re Agilulfo, fra il 591 e il 604, una sistemazione di pace con i re franchi che avrebbe dovuto avere carattere di stabilità, mentre con l’impero bizantino si concludevano tregue annuali33.
In realtà il conflitto tra regno longobardo e impero romano non poteva avere un orizzonte di pacificazione, perché proprio la rinunzia all’espansione verso nord-ovest e al di là delle Alpi implicò per i Longobardi un accentuarsi della loro pressione in Italia, e il «pacifico» re Agilulfo fu il promotore della distruzione di Padova, della presa del vicino castrum di Monselice, delle conquiste di Cremona e Mantova e di altre acquisizioni nel nord34. Nell’orizzonte dei grandi concorrenti al potere politico sull’Italia l’obbiettivo di fondo fu certamente a lungo quello di una dominazione che la comprendesse tutta. Ma a fronte di quest’ambizione stava più di una difficoltà.
Anzitutto l’impero bizantino era ancora una struttura molto forte. Un’altra struttu