1958. Don Milani nella Firenze di La Pira
Se fosse vivo avrebbe ancora la tonaca, come una divisa antiborghese, e sarebbe di tre anni più vecchio del papa. Lo si riconoscerebbe a orecchio, per l’inconfondibile uso della parola. Una parola infuocata, violenta, esigente, viva di tutti i registri. La parola di un uomo che dalla vocazione aveva ricavato un assoluto di verità e rifuggiva da ogni mediazione. Don Lorenzo Milani è la presa di distanza violenta: da un mondo conosciuto nell’infanzia, dalla realtà alto-borghese di una famiglia potente e intellettuale. Arriva alla religione e si fa prete contro tutto e tutti e da giovane cappellano a San Donato sperimenta sulla sua pelle la commistione fra fede e politica, che in quegli anni - tra guerra fredda e autoritarismo di Pio XII - tutti, proprio tutti, giudicano normale. Lui no: e la combatte dalle stanze della ‘scuola popolare’ che ha fondato per raggiungere i giovani, comunisti inclusi, e conquistarli al piacere di sapere. La combatte dal pulpito, da cui dispensa consigli elettorali. E infine la combatte dalle pagine di un libro anomalo, le Esperienze pastorali, un testamento steso quando quell’esperienza è stata troncata e il suo protagonista è ormai in esilio a Barbiana. Ma nemmeno da lì si riesce a zittirlo. Proprio a Barbiana Don Milani fa la sua esperienza più forte: costruisce dal nulla e nel nulla la sua irripetibile scuola.