Introduzione
Il costituzionalismo è l’orientamento oggi prevalente nella teoria e nella filosofia
del diritto. Esso si è affermato sulla base di quella profonda innovazione nella struttura
degli ordinamenti giuridici dell’Europa continentale che è stata l’introduzione, all’indomani
della seconda guerra mondiale, di costituzioni rigide, sopraordinate alla legislazione
ordinaria e assistite dal controllo giurisdizionale di costituzionalità. Ne è seguito
un mutamento delle condizioni di validità delle leggi, legate non più solo alle forme
e alle procedure della loro produzione, ma anche ai loro contenuti, cioè alla coerenza
dei loro significati con i principi stabiliti dalle norme costituzionali, primi tra
tutti il principio di uguaglianza e i diritti fondamentali. Questo mutamento ha retroagito
sulla natura delle nostre democrazie, rendendo a mio parere inadeguate le tradizionali
concezioni puramente formali o procedurali della democrazia quali insiemi di regole
del gioco, indipendenti dai e indifferenti ai contenuti del gioco democratico. Esso
ha infatti innestato nella democrazia una dimensione sostanziale, corrispondente alla
dimensione sostanziale della validità delle leggi e disegnata dai limiti e dai vincoli
giuridici, di sostanza o contenuto, imposti ai poteri politici di maggioranza. Ha
imposto, in breve, quella che possiamo chiamare la sfera del non decidibile: ciò che nessuna maggioranza può validamente decidere, cioè la violazione o la restrizione
dei diritti di libertà, e ciò che nessuna maggioranza può legittimamente non decidere,
cioè la soddisfazione dei diritti sociali costituzionalmente stabiliti.
Di questa innovazione nella struttura del diritto e della democrazia sono state fornite
due interpretazioni diverse, corrispondenti, grosso modo, a due diverse concezioni
del costituzionalismo e perciò della democrazia costituzionale: da un lato quella
ancorata al vecchio paradigma giuspositivista, secondo la quale le costituzioni rigide
hanno solo innestato un ulteriore livello normativo, quello costituzionale, nella
struttura a gradi dello stato legislativo di diritto, senza alterarne l’interna sintassi
né conseguentemente la dimensione semantica e la dimensione pragmatica; dall’altro
quella opposta e oggi prevalente, post-positivista e tendenzialmente neo-giusnaturalista,
secondo la quale i principi etico-politici di giustizia introdotti nelle costituzioni
– oggetto di ponderazione anziché, come le regole, di applicazione mediante sussunzione
– avrebbero ristabilito la connessione premoderna tra diritto e morale e posto fine
alla separazione tra le due sfere che si era prodotta con l’affermazione, nel diritto
moderno, del paradigma positivista.
Nella prima parte di questo libro, dedicata al costituzionalismo come modello teorico, vengono discusse e sottoposte a critica queste due concezioni, alle quali viene
contrapposta una terza, non intermedia ma diversa da entrambe: è la concezione del
costituzionalismo e della democrazia che ho chiamato “garantista” e che si fonda sulle
tesi che ho sviluppato in Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. In base a essa, diversamente dalla prima concezione, il costituzionalismo è un modello
normativo di ordinamento prodotto da un mutamento di paradigma sia del diritto che
della democrazia, grazie al quale la validità delle leggi e la legittimità della politica
sono condizionate al rispetto e all’attuazione delle garanzie dei diritti stipulati
nelle costituzioni. Diversamente dalla seconda concezione, inoltre, la stipulazione
di principi e diritti fondamentali in costituzioni rigidamente sopraordinate a tutte
le altre fonti equivale all’imposizione, all’intera produzione normativa, di limiti
e vincoli applicabili alle loro violazioni esattamente come le regole. Il costituzionalismo
garantista viene così a configurarsi, sul piano teorico, come un completamento sia
del positivismo giuridico, dato che consiste nella positivizzazione delle scelte medesime
cui il legislatore deve uniformarsi, sia dello stato di diritto e della democrazia,
dato che comporta la sottoposizione di ogni potere, incluso quello politico e legislativo,
a norme formali e sostanziali dirette in via primaria a limitarne e a vincolarne l’esercizio
e in via secondaria a censurarne o a rimuoverne le violazioni a garanzia dei diritti
di tutti. Ne risulta una virtuale e in qualche misura fisiologica illegittimità del
diritto positivo vigente rispetto al dettato costituzionale, che la scienza giuridica
ha il compito di accertare e la politica e la giurisdizione hanno il compito di riparare
o di correggere.
Questa illegittimità è in una certa misura fisiologica, dato che le norme costituzionali
che impongono alla progettazione legislativa l’introduzione e il rispetto delle garanzie
dei diritti da esse stabiliti ben possono essere violate, per commissione o per omissione.
Ma essa, come mostrerò nella parte seconda dedicata al costituzionalismo come progetto politico, sta oggi diventando patologica. È in atto una crisi profonda del paradigma costituzionale,
che investe sia le forme rappresentative della democrazia che la sua sostanza costituzionale
e sta compromettendo il ruolo di governo della politica e le funzioni regolative e
garantiste del diritto. Questa crisi si manifesta nello sviluppo, a livello statale
ed extra- o sovra-statale, di poteri economici e finanziari privi di limiti e controlli,
nella subordinazione ad essi delle funzioni politiche di governo e nell’aggressione
– ad opera di una politica tanto impotente nei confronti del capitale finanziario
quanto onnipotente nei confronti dei ceti sociali più deboli – all’insieme dei diritti
sociali e del lavoro. L’espansione del costituzionalismo e delle connesse garanzie,
in ottemperanza alle sue prescrizioni normative e all’altezza dei nuovi poteri economici
globali, sarà quindi proposta, nell’ultimo capitolo, come il compito principale della
politica e come la sola alternativa razionale a un futuro di disordini, di violenze,
di oppressioni e disuguaglianze, oltre che di involuzioni autoritarie e antidemocratiche.
All’origine delle tesi esposte in questo libro ci sono stati due intensi e per me
fecondi dibattiti, svoltisi su un saggio – Costituzionalismo principialista e costituzionalismo garantista – pubblicato, insieme alle mie repliche, sul numero 34 del 2011 della rivista «Doxa.
Cuadernos de Filosofía del Derecho», e nel volume brasiliano Garantismo, hermeneutica e (neo)constitucionalismo. Um debate com Luigi Ferrajoli, curato da Lenio Luiz Streck e da André Karam Trindade. Sono perciò debitore e desidero
ringraziare quanti sono in essi intervenuti: Joao Mauricio Adeodato, Josep Aguiló
Regla, Manuel Atienza, Mauro Barberis, Pierluigi Chiassoni, Paolo Comanducci, Alfredo
Copetti Neto, Alfonso García Figueroa, Andrea Greppi, Liborio L. Hierro, André Karam
Trindade, Francisco Laporta, Alexandre Morais De Rosa, José Juan Moreso, Rafael Tomaz
de Oliveira, Giorgio Pino, Luis Prieto Sanchís, María Cristina Redondo, Angeles Ródenas,
Alfonso Ruiz Miguel, Pedro Salazar Ugarte, Carlos Luiz Strapazzon, Lenio Luiz Streck
e Sérgio Urquhardt de Cademartori. Le critiche e le sollecitazioni rivoltemi sono
state per me preziose, inducendomi a precisare, a chiarire e in taluni casi a correggere
le tesi inizialmente sostenute. La discussione è perciò servita a rimuovere talune
incomprensioni reciproche e anche a ridurre dissensi e divergenze, in molti casi dovuti
soprattutto ai diversi apparati concettuali che sono alle loro spalle. Particolarmente
chiarificatrice mi è parsa inoltre la lunga conversazione sul costituzionalismo con
Juan Ruiz Manero – Dos modelos de constitucionalismo. Una conversación, pubblicata dall’Editorial Trotta di Madrid nel 2012 – che ha avuto il merito, grazie
anche alla forma del dialogo e all’immediatezza delle repliche e controrepliche, di
dissipare ulteriormente equivoci e fraintendimenti che dividono i nostri orientamenti.
Ho infine discusso questo libro con Perfecto Andrés Ibáñez, Lucia Antonazzi, Alexander
Araujo de Souza, Mauro Barberis, Tatiana Effer, Carlo Ferruccio Ferrajoli, Dario Ippolito,
Raniero La Valle, Fabrizio Mastromartino, Giorgio Pino, Roberto Schiattarella, Salvatore
Senese, Simone Spina e Hermes Zaneti, che parimenti ringrazio per le loro osservazioni.
Non è inutile sottolineare fin d’ora il carattere non accademico di queste controversie.
Esse non solo sottintendono concezioni teoriche diverse delle costituzioni e della
democrazia, ma hanno anche rilevanti implicazioni pratiche: la normatività debole
o forte associata alle norme costituzionali sostanziali, a seconda che siano concepite
come principi tra loro ponderabili o come regole che impongono la loro attuazione
legislativa e la loro applicazione giurisdizionale; la promozione di un ruolo attivo
e creativo della giurisdizione, oppure la difesa della sua rigida soggezione alla
legge e perciò della separazione dei poteri; il primato della giurisdizione, o invece
dell’innovazione legislativa, e quindi della politica, nell’attuazione garantista,
sempre incompleta e imperfetta, del progetto costituzionale; la conseguente opzione
strategica per un’integrazione giuridica sovranazionale basata prevalentemente sul
ruolo di garanzia affidato all’attivismo delle giurisdizioni secondo il modello del
rule of law, oppure per un costituzionalismo rigido multilivello, allargato ai molteplici poteri
politici ed economici globali ed attuato dalla politica mediante la costruzione, alla
loro altezza, di funzioni e istituzioni di garanzia dei diritti stipulati nelle tante
carte statali e internazionali; la valenza pragmatica del costituzionalismo: se esso
sia solo un modello teorico di diritto e di pratica giuridica oppure anche, come sosterrò
nell’ultimo capitolo di questo libro, un progetto politico di costruzione della democrazia;
la concezione, infine, della scienza giuridica: se ne sia ancora sostenibile il carattere
solamente descrittivo e avalutativo, tuttora difeso dal vecchio positivismo giuridico,
o se al contrario se ne debba riconoscere il ruolo critico e progettuale nei confronti
del diritto illegittimo, cioè delle indebite antinomie e lacune generate dalla virtuale
divaricazione fra il dover essere costituzionale e l’essere legislativo del diritto
positivo medesimo.
Naturalmente le concezioni teoriche del diritto non sono né vere né false. Sono più
o meno adeguate alle finalità esplicative e ricostruttive perseguite dalla teoria.
Oltre a una dimensione semantica, consistente nella loro portata empirica e nella
loro capacità esplicativa, esse hanno tuttavia una rilevante dimensione pragmatica,
dato che valgono a costruire l’immaginario giuridico intorno a quei particolari oggetti
d’indagine, non meno artificiali delle teorie, che sono il diritto positivo e i sistemi
politici. Questo immaginario, quando si afferma nella cultura giuridica e in quella
politica, retroagisce sui sistemi istituzionali che sono oggetto della riflessione
teorica, contribuendo a modellarne la normatività e ad orientare le pratiche e la
deontologia degli operatori del diritto e degli attori della politica. Di qui la rilevanza
pratica delle teorie e in generale delle culture giuridiche e politiche, determinata
dal loro ruolo largamente performativo dell’artificio istituzionale, che è, almeno
in parte, come esse lo concepiscono e lo teorizzano.
I. La democrazia costituzionale
1.1. I percorsi della modernità giuridica. Tre modelli di diritto: giurisprudenziale,
legislativo, costituzionale. Tre norme di riconoscimento. Tre nozioni di validitàPossiamo distinguere, schematicamente, tre paradigmi o modelli teorici di diritto,
corrispondenti grosso modo ad altrettante esperienze storiche sviluppatesi negli ultimi
secoli nel continente europeo: il paradigma giurisprudenziale, quello legislativo
e quello costituzionale. Si tratta, è bene precisare, di tre paradigmi teorici, non descrittivi di nessun
ordinamento storico reale, consistendo in modelli concettuali che delle corrispondenti
esperienze storiche identificano soltanto le norme di riconoscimento e i tratti distintivi
prevalenti e caratterizzanti.
Il primo modello è quello del diritto giurisprudenziale premoderno. Secondo questo modello, che riflette l’esperienza storica del diritto
romano e del diritto comune fino all’età delle codificazioni, il diritto, non esistendo
un monopolio incontrastato della produzione normativa in capo a fonti predeterminate,
consiste principalmente in un patrimonio di massime, di categorie, di principi e di
precedenti giudiziari tramandato dalla cultura e dalla pratica giurisprudenziale e
dottrinaria. Esso è perciò un sistema normativo che, secondo la terminologia kelseniana,
possiamo ben caratterizzare come tendenzialmente e prevalentemente nomostatico. La sua norma di riconoscimento è infatti l’intrinseca giustizia o razionalità. Esistevano ovviamente, anche nell’esperienza storica premoderna, leggi, decreti,
ordinanze e statuti. Tuttavia queste norme, a causa dell’eterogeneità, del pluralismo
e del particolarismo degli ordinamenti che convivevano sui medesimi territori, finivano, nei tempi lunghi, per inserirsi e amalgamarsi entro il corpus iuris tramandato dalla tradizione, soggiacendo al principio normativo, pur se di fatto
largamente inattuato, dell’interna coerenza e completezza. L’esistenza e la validità
delle norme di diritto comune, al di là delle deroghe costituite dal diritto statutario,
dipendevano, in altre parole, dalla loro sostanza o contenuto prescrittivo. La logica, infatti, era interna e non esterna al sistema
giuridico. Veritas, non auctoritas facit legem: è la verità, cioè l’intrinseca giustizia o razionalità, la norma di riconoscimento
delle norme giuridiche secondo tale modello. Di qui la confusione tra diritto e morale,
ovvero tra validità e giustizia. Una massima di Gaio, ad esempio, prevaleva in giudizio
su una massima di Ulpiano, o viceversa, perché ritenuta, nel caso concreto, più giusta
o comunque più appropriata. Per questo il gius-naturalismo era la filosofia del diritto che rifletteva questa esperienza. Del resto non si spiegherebbe
il predominio millenario di questa dottrina senza questo suo ancoraggio storico all’esperienza
pratica del diritto.
Il secondo modello è quello legislativo o paleo-giuspositivista, affermatosi con quella prima rivoluzione istituzionale che è stata l’affermazione
del monopolio statale della produzione normativa. In base a tale modello, la cui norma
di riconoscimento è il principio di legalità, le norme esistono perché prodotte, ben più e ben prima che perché dedotte. Si tratta di sistemi normativi caratterizzabili, secondo il lessico kelseniano,
come nomodinamici. L’esistenza e la validità delle norme sono infatti in essi riconoscibili sulla base
della loro forma di produzione, e non già sulla base dei loro contenuti. Auctoritas, non veritas facit legem: è non già l’autorevolezza dei dottori, e neppure l’intrinseca giustizia o razionalità
delle norme, bensì l’autorità delle loro fonti che fonda l’appartenenza di una norma
giuridica a un dato ordinamento. Di qui la separazione tra diritto e morale, o tra
validità e giustizia, che non è altro che un corollario del principio di legalità:
se l’esistenza delle norme dipende unicamente dalla loro positività, possono ben darsi
norme positive ingiuste e tuttavia esistenti e norme giuste e tuttavia non positive
e perciò inesistenti. La possibile ingiustizia delle norme è il prezzo che viene pagato
ai valori della certezza del diritto, dell’uguaglianza davanti alla legge, della libertà
contro l’arbitrio e della soggezione dei giudici al diritto assicurati da tale modello.
Si capisce che il gius-positivismo è la filosofia del diritto che si afferma in corrispondenza con questa esperienza.
Il punto di vista della giustizia, conseguentemente, si autonomizza dal diritto e
dalla scienza giuridica come punto di vista politico e assiologico, esterno sia all’uno
che all’altra.
Infine, il terzo modello è quello costituzionale o neo-giuspositivista, che si afferma con un ulteriore mutamento di paradigma e con una seconda rivoluzione
istituzionale: la subordinazione al diritto della stessa legislazione, e perciò il
completamento dello stato di diritto come stato costituzionale di diritto grazie alla diffusione in Europa, all’indomani della seconda guerra mondiale, delle
costituzioni rigide quali parametri di validità del diritto vigente. In base a questo
modello, mentre l’esistenza o vigore delle norme continua a dipendere dalla loro forma di produzione, la cui norma di riconoscimento resta il vecchio principio di legalità formale, la loro validità dipende anche dalla loro sostanza o contenuto, la cui norma di riconoscimento consiste nel principio di legalità sostanziale che la vincola alla coerenza con i principi e i diritti costituzionalmente stabiliti.
Alla separazione e divaricazione esterna tra giustizia e validità, si aggiunge così
la divaricazione interna tra validità ed esistenza: possono ben esistere, negli ordinamenti
costituzionali odierni, norme esistenti perché prodotte in conformità alle norme formali
sulla produzione e tuttavia invalide perché in contrasto con la costituzione. Con
i principi e i diritti fondamentali da questa stabiliti viene infatti stipulata, quale
solenne “mai più” agli orrori dei totalitarismi, quella che ho chiamato la sfera del non decidibile: ciò che nessuna maggioranza può decidere, in violazione dei diritti di libertà,
e ciò che nessuna maggioranza può non decidere in violazione dei diritti sociali,
gli uni e gli altri dalla costituzione stabiliti. L’ordinamento resta un sistema nomodinamico, nel quale le norme vengono ad esistenza se e solo se prodotte nelle forme da esso
stabilite; e tuttavia viene in esso innestata anche una dimensione nomostatica, in forza della quale le norme indebitamente prodotte o non prodotte in contrasto
con la costituzione si configurano come vizi, cioè come antinomie o come lacune che
richiedono di essere rimosse. I principi logici della coerenza e della completezza,
identificandosi con il dover essere della produzione legislativa rispetto ai principia iuris et in iure stipulati costituzionalmente, tornano ad assumere – quali principia iuris tantum, come li ho chiamati – valenza normativa. Di qui, come si vedrà nel §2.8, il ruolo critico della scienza giuridica nei confronti
del diritto illegittimo promosso dal gius-costituzionalismo, divenuto oggi la filosofia del diritto più diffusa perché più d’ogni altra in grado
di dar conto delle odierne democrazie costituzionali.
Abbiamo così tre modelli di diritto identificabili sulla base di tre diverse norme
di riconoscimento, a loro volta corrispondenti a tre diverse nozioni di validità.
Nel primo modello la validità delle norme tende a riconoscersi e a identificarsi con
la loro intrinseca giustizia, legata immediatamente al loro contenuto normativo, cioè alla loro sostanza o significato prescrittivo. Nel secondo modello essa si riconosce e si identifica
con la loro positività, legata unicamente alla conformità delle loro forme di produzione alle norme formali sulla loro produzione. Nel terzo modello essa si
riconosce e si identifica, oltre che con la conformità delle loro forme, anche con la coerenza della loro sostanza o significato con le norme non più solo formali ma anche sostanziali sulla loro produzione.
La modernità giuridica nasce con il secondo modello e giunge a compimento con il terzo,
grazie alla positivizzazione dapprima delle forme della produzione legislativa e poi
dei limiti e dei vincoli di sostanza imposti da norme costituzionali a questa sopraordinate.
Se nel primo modello la validità delle norme era immediatamente legata alla loro sostanza
e nel secondo era determinata unicamente dalla loro forma giuridica, nel terzo modello
forma e sostanza sono entrambe vincolate, quali condizioni di validità delle norme
prodotte, l’una alla conformità e l’altra alla coerenza o compatibilità con le norme
costituzionali sulla loro produzione.
Con il primo giuspositivismo, corrispondente alla formazione dello Stato sovrano quale
detentore del monopolio della produzione legislativa, nasce dunque la politica moderna
come fonte primaria del diritto: il diritto diventa un prodotto della politica e il
suo principale strumento di governo. Con il secondo giuspositivismo, quello costituzionale,
che positivizza il dover essere della produzione legislativa, il rapporto tra politica
e diritto si complica: il diritto continua ad essere un prodotto e uno strumento della
politica, ma la politica si subordina al diritto, e precisamente alla sfera del non
decidibile stipulata nelle costituzioni. Nella concezione del primo stato legislativo di diritto, non dotato di costituzioni rigide ma al più di costituzioni flessibili, il fondamento
dello Stato veniva espresso con formule di tipo organicistico e vagamente metafisico:
il corpo sociale, la nazione, la volontà generale, il demos, il popolo sovrano, lo spirito del popolo e simili, di cui la sfera pubblica veniva assunta come espressione politica. Il costituzionalismo
rigido e democratico dello stato costituzionale di diritto, non a caso affermatosi in Europa all’indomani della liberazione dai vari fascismi,
sostituisce queste raffigurazioni ideologiche con l’esplicita positivizzazione, nel
patto costituzionale, dei fondamenti e della ragion d’essere dell’artificio statale:
da un lato le forme rappresentative della democrazia politica e la separazione dei
poteri, dall’altro i diritti fondamentali imposti alle decisioni politiche quali limiti
e vincoli di sostanza. La politica, le cui forme e le cui istituzioni rappresentative
sono generate e legittimate dall’esercizio dei diritti politici, continua ad essere
il motore della nomodinamica giuridica. Ma il fondamento assiologico e la ragione
sociale dell’intero artificio giuridico e istituzionale si identificano con la garanzia
dell’insieme dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti.
Va infine aggiunto fin d’ora che oggi assistiamo alla crisi del paradigma costituzionale
determinata essenzialmente dalla fine del monopolio statale della produzione normativa
e dallo sviluppo, a livello globale, di poteri pubblici e soprattutto di poteri economici
e finanziari che si sottraggono al ruolo di governo delle istituzioni politiche della
democrazia rappresentativa e ai limiti e ai vincoli giuridici dello stato di diritto,
sia legislativo che costituzionale. A questa crisi e alle sue prospettive future sarà
dedicata la seconda parte di questo libro. Qui basti dire che il futuro dello stato
di diritto e della democrazia, in alternativa al crollo di entrambi anche all’interno
degli Stati nazionali, dipende oggi dalla progressiva espansione del paradigma costituzionale
agli ordinamenti sovranazionali, all’altezza dei nuovi poteri extra- o sovrastatali.
1.2. Il costituzionalismo tra (paleo)giuspositivismo e (neo)giusnaturalismo. Una questione
terminologicaIl paradigma costituzionale può essere concepito in maniere diverse. Può essere considerato,
nel segno della continuità con il vecchio paradigma giuspositivista dello stato legislativo,
come il frutto della semplice introduzione nell’ordinamento di un ulteriore livello
normativo sopra-ordinato alla legislazione ordinaria; oppure, nel segno di una radicale
discontinuità, come un superamento in senso tendenzialmente giusnaturalista o etico-oggettivista
del positivismo giuridico. Uno degli scopi di questo libro è sostenere una concezione
del costituzionalismo diversa da entrambe queste raffigurazioni: accomunata alla prima
perché anch’essa giuspositivista, inteso con “positivismo giuridico” una concezione
e/o un modello di diritto che riconoscano come “diritto” qualunque insieme di norme
poste o prodotte da chi è abilitato a produrle, indipendentemente dai loro contenuti
e quindi dalla loro eventuale ingiustizia; diversa da entrambe, come si vedrà nei due prossimi capitoli, per la novità strutturale
e per la normatività forte associate al paradigma costituzionale, da essa configurato
come un sistema di garanzie, cioè di limiti e vincoli giuridici imposti all’esercizio
di qualunque potere quale condizione della sua legittimità.
Il nuovo paradigma e la sua concezione vengono comunemente denominati con il termine
“neocostituzionalismo”: in opposizione da un lato al costituzionalismo classico e, dall’altro, al vecchio
positivismo giuridico. Ambedue queste opposizioni sono a mio parere fuorvianti. Lo
è quella tra “neocostituzionalismo” e “costituzionalismo” a causa dell’asimmetria
dei due termini, il primo dei quali designa un modello teorico-giuridico empiricamente
riferito agli odierni ordinamenti dotati di costituzioni rigide, mentre il secondo
non designa né un sistema giuridico né una teoria del diritto, bensì la dottrina politica
– realizzata di fatto in ordinamenti dotati di solide tradizioni liberali, ma indipendente
da qualunque ordinamento – della limitazione dei pubblici poteri a garanzia di determinati
ambiti di libertà. Ma altrettanto fuorviante è la contrapposizione tra “neocostituzionalismo” e “positivismo
giuridico”, accreditata dal significato di comodo associato ai due termini dell’opposizione:
il primo concepito, anziché come un nuovo e più sviluppato paradigma giuspositivista,
come un superamento in senso anti-positivista e tendenzialmente giusnaturalista del
positivismo medesimo, e il secondo associato, anziché alla semplice idea della positività
del diritto, a quella del primato della legge statale prodotta dai parlamenti, e perciò
al modello paleo-giuspositivista dello stato legislativo di diritto. Il risultato delle due opposizioni è la consegna dell’odierno costituzionalismo
all’area delle dottrine giusnaturalistiche o comunque anti- o post-positiviste. Identificato il “costituzionalismo” con l’ideologia politica liberale e il “neocostituzionalismo”
con la tesi antigiuspositivistica della connessione tra diritto e morale – sul piano
teorico “concorrente con quella positivista” e ad essa “alternativa” – il costituzionalismo giuspositivista non trova infatti spazio quale paradigma teorico
in questa classificazione, chiaramente assai poco descrittiva perché frutto della
sovrapposizione alla riflessione sul costituzionalismo del vecchio scontro tra (neo)giusnaturalisti
e (paleo)giuspositivisti.
Mi sembra perciò opportuno adottare e proporre una terminologia diversa che faccia
uso, all’interno di un medesimo discorso, di termini omogenei: ‘costituzionalismo
giuridico’, ‘giuscostituzionalismo’ o ‘secondo giuspositivismo’ – in opposizione al
‘primo giuspositivismo’ dello stato legislativo di diritto, privo di costituzione
o dotato di costituzioni flessibili – per designare il costituzionalismo rigido delle
odierne democrazie costituzionali, quale che sia la dottrina filosofico-politica alla
quale si aderisce; ‘costituzionalismo politico’ per designare invece la dottrina liberale
dei limiti al potere, quali che siano le caratteristiche strutturali dei concreti
ordinamenti giuridici. Naturalmente può ben usarsi ‘costituzionalismo’ per designare in sede di filosofia
politica la dottrina liberale dei limiti al potere, e in sede di teoria del diritto
il paradigma delle odierne democrazie costituzionali. L’importante è che non si confondano
i due diversi significati all’interno di un medesimo discorso.
Potremmo poi chiamare ‘costituzionalismo giusnaturalista’ e ‘costituzionalismo giuspositivista’
le concezioni dell’odierno costituzionalismo giuridico, a seconda che questo sia configurato
o meno come un superamento del positivismo giuridico. Tuttavia i sostenitori di una
concezione anti-giuspositivista del costituzionalismo non si dichiarano di solito
giusnaturalisti, ma piuttosto non-positivisti o post-positivisti. Ciò che tutti li
accomuna è invece la configurazione come principi etico-politici di gran parte delle
norme costituzionali, e in particolare dei diritti fondamentali, e l’adozione di una
distinzione forte, qualitativa e strutturale, tra principi e regole, oggetto i primi
di argomentazione e ponderazione e le seconde di applicazione nella forma della sussunzione. Questa stessa distinzione, d’altro canto, sia pure come distinzione debole o quantitativa
o di grado, è accettata anche da molti giuspositivisti.
Alla distinzione tra costituzionalismo giuspositivista e costituzionalismo giusnaturalista
o non-positivista sarà perciò opportuno aggiungere la distinzione e il confronto tra
quello che ho chiamato costituzionalismo principialista, o modello principialista o semplicemente principialismo, e quello che ho chiamato costituzionalismo garantista, o modello garantista o semplicemente garantismo. Il primo orientamento è caratterizzato dalla configurazione dei diritti fondamentali
come valori o principi morali strutturalmente diversi dalle regole perché dotati di
una normatività più debole, affidata non già alla loro attuazione o applicazione ma
alla loro ponderazione legislativa o giudiziale. Ad esso sarà qui opposto il secondo
orientamento, caratterizzato invece da una normatività costituzionale forte, di tipo
regolativo: cioè dalla tesi che, a parte taluni principi puramente direttivi, tutti
gli altri principi costituzionali, e in particolare i diritti fondamentali, si comportano
come regole, dato che implicano l’esistenza o impongono l’introduzione delle regole
consistenti nei divieti di lesione o negli obblighi di prestazione che ne sono le
relative garanzie. In questa seconda concezione, che sarà illustrata in questo e nel prossimo capitolo,
il costituzionalismo sarà configurato come un modello normativo di ordinamento giuridico
fondato sulla rigida soggezione dell’intera produzione normativa alle norme costituzionali
e ai diritti in esse stabiliti, sulla configurazione come antinomie o come lacune
delle loro violazioni, le une per commissione e le altre per omissione, e sull’obbligo
della giurisdizione di annullare le prime e della legislazione di colmare le seconde.
È peraltro utile precisare che “garantismo” è un neologismo diffusosi in Italia negli
anni Settanta con riferimento al diritto penale, quale replica teorica alla riduzione,
in quegli anni, delle garanzie penali e processuali dei diritti di libertà, ad opera
di una legislazione e di una giurisdizione eccezionali giustificate dall’emergenza
del terrorismo. Ma è chiaro che il paradigma garantista deve essere allargato, in
sede di teoria generale del diritto, all’intero campo dei diritti della persona. Con
“garantismo” s’intende quindi, in questa più larga accezione, un modello di diritto
basato sulla rigida subordinazione alla legge di tutti i poteri e sui vincoli loro
imposti a garanzia dei diritti, primi tra tutti i diritti fondamentali sanciti dalla
costituzione. In questo senso il garantismo è sinonimo di “stato costituzionale di
diritto”, cioè di un sistema che ricalca il paradigma classico dello Stato liberale
allargandolo in due direzioni: da un lato a tutti i poteri, non solo a quello giudiziario
ma anche a quelli legislativi e di governo, e non solo ai poteri pubblici ma anche
a quelli privati; dall’altro a tutti i diritti, non solo a quelli di libertà, ma anche
a quelli sociali, con conseguenti obblighi, oltre che divieti, a carico della sfera
pubblica. Va aggiunto che l’opzione tra uso ristretto e uso allargato di “garantismo”
non è affatto politicamente neutrale. L’appello al garantismo quale sistema di limiti
imposti alla sola giurisdizione penale si è infatti spesso coniugato, nel dibattito
pubblico non solo italiano, con l’insofferenza per limiti giuridici e controlli giudiziari
dei poteri politici e dei poteri economici, sulla base di una concezione della democrazia
come onnipotenza della maggioranza legittimata dal voto popolare e del liberalismo
come assenza di regole e limiti alle cosiddette libertà del mercato. In questo senso
l’espressione significa perciò esattamente il contrario di “garantismo” quale paradigma
teorico generale: che vuol dire invece soggezione al diritto di qualunque potere,
sia esso pubblico o privato, tramite regole, vincoli e controlli giuridici idonei
a impedirne, a garanzia dei diritti di tutti, l’esercizio arbitrario o illegale. In
quest’altro senso allargato il garantismo è la faccia per così dire attiva del costituzionalismo,
consistendo le garanzie nelle modalità attive – i divieti e gli obblighi – correlative
alle aspettative passive nelle quali consistono tutti i diritti. Esso designa, in
breve, l’insieme dei limiti e dei vincoli imposti a qualunque potere e idonei a garantire
la massima effettività di tutti i diritti e di tutte le promesse costituzionali.
1.3. Positivismo giuridico, stato di diritto e democrazia. Il carattere formale del paradigma
legislativo e di quello costituzionaleÈ chiaro che, così concepito, il paradigma costituzionale, in quanto frutto della
sottoposizione dell’esercizio di qualunque potere a norme positive non solo formali
ma anche sostanziali, rappresenta non già un superamento, bensì un rafforzamento e
un completamento del positivismo giuridico, da esso allargato alle stesse scelte –
la garanzia dei diritti fondamentali stipulati da norme costituzionali – cui deve
sottostare la produzione del diritto positivo. La modernità giuridica risulta in tal
modo completata dai due mutamenti del diritto all’inizio illustrati e consistenti
entrambi in un’articolazione multi-livello dei sistemi giuridici: dapprima la subordinazione
della giurisdizione alla legislazione; poi la subordinazione della legislazione alla
costituzione. Ne conseguono due nessi che legano il positivismo giuridico così allargato
con il sistema politico: l’uno, strutturale, con lo stato di diritto; l’altro, strumentale,
con la democrazia.
Il primo nesso, strutturale, tra positivismo giuridico e stato di diritto, si fonda
sul principio di legalità. Tutti i pubblici poteri sono, dal paradigma costituzionale
o neo-positivista, sottoposti al diritto: la giurisdizione e l’amministrazione alla
legalità ordinaria; la legislazione alla legalità costituzionale. Il principio di
legalità assume quindi, nel paradigma costituzionale, una complessità strutturale
e una valenza garantista ignote al paradigma legislativo. Come meglio si vedrà nel
prossimo capitolo, nel quale sarà ridefinito come primo postulato dello stato costituzionale
di diritto, esso può essere articolato in due principi – quello di mera legalità e quello di stretta legalità – che hanno due significati distinti, anche se connessi dal fatto che il primo forma
un presupposto del secondo. Nel primo significato, quale norma di riconoscimento del
diritto esistente, esso equivale al principio di positività: è diritto tutto e solo
quello che è posto o prodotto tramite l’esercizio di poteri conferiti dalla legge e nelle forme, quali che siano, da questa stabiliti. In questo senso – lato, o debole, o formale
– il principio è alla base di tutti gli ordinamenti giuridici moderni, anche i più
illiberali, nei quali i pubblici poteri hanno una fonte o una forma legale, dalle
quali è condizionata la validità del loro esercizio. Nel secondo significato, che suppone la positività richiesta dal primo, il principio
di legalità esprime la prima garanzia contro l’arbitrio: è diritto valido tutto e
solo quello prodotto tramite l’esercizio di poteri altresì subordinati alla legge, non solo quanto alle forme ma anche quanto ai contenuti del loro esercizio. In questo senso – stretto, o forte, o sostanziale – il principio
è alla base di quei soli ordinamenti nei quali anche il potere legislativo è subordinato
a limiti e a vincoli sostanziali quali quelli ad esso imposti dalla costituzione.
Non è peraltro inutile precisare che il senso “stretto” o “forte” o “sostanziale”
dello stato di diritto non coincide con quello di “stato costituzionale di diritto”,
essendo il primo non equivalente, bensì più esteso del secondo. Sono infatti “di diritto
in senso stretto” o “forte” anche quegli ordinamenti, non riconducibili né al paradigma
legislativo né al paradigma costituzionale dello stato di diritto, nei quali la legge
è però, di fatto, sottoposta a principi normativi sostanziali quali le libertà fondamentali
e la separazione dei poteri. È il caso dell’esperienza inglese del rule of law, nella quale quei principi sono radicati storicamente, socialmente e culturalmente
nella tradizione giuridica e nel comune senso civico e che perciò, benché priva di
una formale costituzione ed anzi estranea alle vicende giuridiche dello Stato moderno,
ha ispirato l’intera vicenda dello stato di diritto nel continente europeo. Il nesso biunivoco oggi pressoché generalizzato tra stato di diritto in senso forte
e costituzionalismo giuridico risiede nel fatto che le costituzioni rigide hanno positivizzato
quei principi politici in norme giuridiche di rango costituzionale, affidandone l’effettività
non già semplicemente al loro spontaneo rispetto da parte di giudici e legislatori,
ma anche al controllo giurisdizionale di costituzionalità sulle loro violazioni. La
legalità, che nel primo significato, mero o lato, è solo condizionante, quale che
sia, del valido esercizio dei pubblici poteri, è così divenuta, nel secondo significato,
stretto o forte, anch’essa condizionata, quale legalità a sua volta valida o legittima,
dal rispetto e dall’attuazione delle norme costituzionali e dei diritti in esse stabiliti.
Il costituzionalismo giuridico ha così soppresso l’ultima forma di governo degli uomini
che nel vecchio paradigma legislativo si manifestava nell’onnipotenza del legislatore.
C’è poi un secondo nesso, strumentale e non meno importante, pur se di solito trascurato,
che lega il positivismo giuridico vecchio e nuovo e la democrazia. Per comprendere
questo nesso, è necessario chiarire che il paradigma costituzionale, non meno del
paradigma legislativo, è un paradigma formale, cioè un modello teorico – formale tanto da essere formalizzabile, quale semplice
sintassi, in sede di teoria del diritto – che di per sé non dice nulla sui suoi concreti
contenuti normativi. “Nello stampo della legalità”, scrisse Piero Calamandrei, “si
può calare oro o piombo”. E lo stesso si dica della costituzione, che è semplicemente un insieme di norme,
qualunque esso sia, sopraordinato a ogni altra fonte normativa. Per questo, né il positivismo giuridico né il costituzionalismo, né il paradigma
legislativo né il paradigma costituzionale implicano la democrazia, e neppure sono
da questa implicati: perché entrambi sono paradigmi teorici formali, in quanto tali
compatibili, in astratto, anche con sistemi politici non democratici. Non implicano
né sono implicati, del resto, neppure dallo stato di diritto nel senso forte o sostanziale
più sopra illustrato, se con “sostanziale” si fa riferimento non già a qualunque contenuto
normativo sopraordinato alla legislazione ma alle classiche libertà fondamentali o
ai diritti sociali alla salute o all’istruzione. Possono ben darsi, infatti, non soltanto
leggi, ma anche costituzioni, cioè testi normativi sopra-ordinati a qualunque altra
fonte, di tipo illiberale e antidemocratico. È questa la differenza del paradigma
costituzionale e legislativo dello stato di diritto rispetto al rule of law, che invece incorpora principi di giustizia sostanziale sedimentatisi nella sua tradizione
secolare quali limiti al dispotismo politico – al di là e magari contro il diritto
prodotto dallo Stato – e che perciò conserva, sotto questo aspetto, un tratto caratteristico
del vecchio paradigma giurisprudenziale.
E tuttavia, grazie alla positivizzazione delle norme formali e delle norme sostanziali
sulla produzione giuridica e al conseguente carattere artificiale delle une e delle
altre, è stato possibile innestare, nei due paradigmi dello stato di diritto, forme
e contenuti democratici. È questa una tesi teorica puramente descrittiva, indipendente
dalle opzioni filosofiche di tipo giuscostituzionalista, o giuspositivista o giusnaturalista,
e dalle opzioni politiche di tipo liberale o illiberale, democratico o antidemocratico.
Essa ci dice semplicemente che la formulazione in norme di diritto positivo delle
norme sulla produzione giuridica è la tecnica mediante la quale sono stipulate le
forme e i contenuti cui sono vincolate le norme prodotte, e quindi, in particolare,
anche le forme della democrazia politica o formale, come la rappresentanza popolare
e la separazione dei poteri, nonché i contenuti della democrazia costituzionale o
sostanziale, come il principio di uguaglianza e i diritti fondamentali: la tecnica,
in breve, mediante cui sono state democratizzate, storicamente, le regole che disciplinano
sia le forme di produzione che la sostanza del diritto prodotto. Non solo. Il primo
giuspositivismo, basato sul primato della legge, ha reso possibile alla legislazione la positivizzazione delle garanzie dei diritti fondamentali, cioè
la loro stipulazione in norme di diritto positivo. Il secondo giuspositivismo, basato
sul primato della costituzione e sulla subordinazione ai diritti in essa stabiliti
della stessa produzione legislativa, ha reso obbligatoria la positivizzazione delle medesime garanzie mediante la loro imposizione allo stesso
diritto positivo. Le garanzie dei diritti fondamentali, che nel primo positivismo
sono introdotte autonomamente dalla legislazione in accordo con principi di giustizia
politici o esterni, sono state insomma imposte dalla costituzione, che ha trasformato
tali principi politici in principi giuridici o interni.
Precisamente, se grazie al primo positivismo giuridico è stato possibile, con l’introduzione
del suffragio universale nell’elezione degli organi legislativi e di governo, affidare
il chi e il come della produzione normativa a soggetti politicamente rappresentativi, grazie al secondo
positivismo è stato vincolato il che cosa delle norme prodotte alla garanzia degli interessi e dei bisogni vitali dei soggetti
rappresentati. La collocazione gerarchica della costituzione al di sopra della legislazione
equivale infatti alla normatività della prima nei confronti della seconda, che a sua
volta equivale, a causa del carattere linguistico di entrambe, al dover essere logico,
oltre che giuridico, della coerenza e della completezza della seconda rispetto alla
prima. L’antico, ricorrente contrasto tra ragione e volontà, tra legge della ragione e legge della volontà, tra diritto naturale e diritto positivo, tra Antigone e Creonte, che fin dall’antichità attraversa l’intera filosofia giuridica
e politica e corrisponde all’antico e parimenti ricorrente dilemma e contrasto tra
il governo delle leggi e il governo degli uomini, è stato così in gran parte risolto dalle odierne costituzioni rigide con la positivizzazione
della “legge della ragione”, sia pure storicamente determinata e contingente, nella
forma dei principi e dei diritti fondamentali in esse stipulati quali limiti e vincoli
alla “legge della volontà”, che in democrazia è la legge del numero espressa dal principio
di maggioranza. È in questo che consiste il completamento del positivismo giuridico prodotto dal
costituzionalismo: nella positivizzazione non più solo dell’essere ma anche del dover essere del diritto; non più solo delle sue forme di produzione ma anche delle scelte che
la sua produzione deve rispettare ed attuare. Ciò non vuol dire affatto che venga
meno la separazione tra diritto e morale che del positivismo giuridico forma il tratto
distintivo. Antigone conserva la sua autonomia, quale portatrice del punto di vista
morale e politico irriducibilmente esterno, critico e progettuale nei confronti del
diritto vigente, incluso il suo contingente dover essere costituzionale. Certamente,
con la trasformazione delle leggi di ragione, da essa volta a volta rivendicate, in
norme costituzionali di diritto positivo, il divario tra il diritto e il senso corrente
della giustizia si è ridotto. Ma il divario è destinato a riaprirsi con l’emergere
di nuove istanze di giustizia e, di nuovo, a ridursi con la conquista di nuovi diritti,
e perciò con il progresso storico del costituzionalismo.
La democrazia costituzionale è il prodotto dell’integrazione di queste due dimensioni,
quella formale e quella sostanziale, della democrazia, che, come vedremo nel quarto
capitolo, sono oggi ambedue in crisi. Per comprenderne la complessità strutturale,
è ora opportuno sottoporre ad analisi entrambe queste dimensioni generate, quali altrettanti
mutamenti di paradigma, l’una dal primo giuspositivismo dello stato legislativo di
diritto e l’altra dal secondo giuspositivismo dello stato costituzionale di diritto.
1.4. Il primo giuspositivismo e la dimensione politica o formale della democrazia. Aporie
e fallacie nelle concezioni soltanto formali della democraziaLa dimensione formale della democrazia innestata nel paradigma legislativo consiste
essenzialmente in un metodo di formazione delle decisioni politiche: precisamente,
nell’insieme delle regole del gioco che attribuiscono al popolo o alla maggioranza
dei suoi membri il potere, diretto o tramite rappresentanti, di assumere tali decisioni.
È questa la concezione della democrazia tout court che accomuna l’intera storia del pensiero politico: dalla classica tripartizione
introdotta da Platone nel Politico e ripresa da Aristotele all’idea rousseauviana della volontà generale, fino alle odierne teorie della democrazia rappresentativa, da Kelsen a Bobbio, da
Schumpeter a Popper e a Waldron.
Ho illustrato più volte le ragioni e le aporie che a mio parere rendono insufficiente
questa concezione solamente politica o formale della democrazia: la sua mancanza di portata empirica a causa della sua inidoneità a dar conto delle
odierne democrazie costituzionali, nelle quali il potere del popolo o dei suoi rappresentanti
non è affatto illimitato ma è sottoposto ai limiti e ai vincoli di contenuto imposti
dai diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti; la necessità di tali limiti
e vincoli, a cominciare dai diritti di libertà, quali condizioni della stessa effettività
della democrazia politica, cioè della formazione di una volontà degli elettori consapevole
e informata; il fatto infine che tali limiti sono una garanzia di sopravvivenza della
stessa democrazia politica, la quale in loro mancanza può essere manomessa dall’onnipotenza
delle maggioranze, come hanno dimostrato il fascismo e il nazismo del secolo scorso
che conquistarono il potere con mezzi legali e formalmente democratici e poi soppressero
la democrazia. Qui intendo sottolineare due fallacie ideologiche che di solito accompagnano
questa concezione solo formale e che consistono entrambe in un’indebita connotazione
assiologica associata alle forme della democrazia politica: da un lato la giustizia,
cioè l’idea che il potere del popolo sia un potere buono e giusto e, dall’altro, l’autogoverno
che da tali forme risulterebbe garantito.
La prima di queste due tesi attraversa gran parte della storia del pensiero democratico:
dall’apologia della democrazia diretta formulata da Protagora nell’omonimo dialogo
di Platone, all’argomento di Aristotele sulle molteplici e perciò superiori intelligenze che
concorrono nelle decisioni, fino alla tesi di Rousseau sulla volontà generale come volontà “sempre retta” e
rivolta “all’utilità pubblica”, sostanzialmente ripresa da Kant, secondo il quale tale volontà non può “recare ingiustizia”
né “fare torto a nessuno”. Certamente questo principio ribalta la svalutazione o peggio il disprezzo nei confronti
del popolo e, conseguentemente, il giudizio negativo sulla forma di governo democratica
che accomunano gran parte del pensiero politico. Certamente, inoltre, in paesi di solide tradizioni liberali e democratiche l’idea
della maggiore “saggezza” della moltitudine in opposizione a quella di una singola
persona o di un’élite, già sostenuta da Aristotele, può essere invocata a sostegno
della dignità della legislazione prodotta con metodo democratico. Tuttavia quel principio resta un non sequitur. Leggi ingiuste oltre che indegnamente incostituzionali possono ben essere emanate
dalle maggioranze, come attesta l’attività quotidiana delle corti costituzionali negli
ordinamenti che dispongono di questa giurisdizione. Ma, soprattutto, l’illusione di
una cosiddetta volontà generale come volontà buona non sottoposta a limiti legali
– di nuovo, l’idea del governo degli uomini in luogo del governo delle leggi – è stata
tragicamente smentita dai totalitarismi del Novecento, che certamente godettero di
un consenso maggioritario e furono essi stessi il frutto di un suicidio delle democrazie.
E torna purtroppo a riproporsi, come in questi anni abbiamo sperimentato in Italia,
nella demagogia populista e nel senso comune.
Esclusa ogni connotazione sostanziale della volontà popolare come volontà giusta e
di qualunque potere, pur se democratico, come potere buono, domandiamoci allora se
sia quanto meno sostenibile, quale fondamento assiologico della dimensione formale
o procedurale della democrazia, la sua seconda connotazione sopra ricordata, quella
che la caratterizza come “auto-nomia”, o “auto-governo” o “auto-determinazione” popolare,
ossia come libertà positiva del popolo di non essere soggetto ad altre decisioni,
e quindi ad altri limiti o vincoli, che non siano quelli deliberati da se medesimo.
È anche questa una classica tesi, sostenuta da Rousseau e ripresa da Kant. Ma è anche la tesi sostenuta da Hans Kelsen: “politicamente libero”, scrive Kelsen,
“è colui che è soggetto a un ordinamento giuridico alla cui creazione partecipa. Un
individuo è libero se ciò che egli ‘deve’ fare secondo l’ordinamento sociale coincide
con ciò che egli ‘vuole’ fare. Democrazia significa che la ‘volontà’ che è rappresentata
nell’ordinamento giuridico dello Stato è identica alle volontà dei sudditi. Il suo
opposto è la soggezione dell’autocrazia”. Kelsen ammette che “democrazia ed autocrazia, quali sono state ora definite, non
descrivono effettivamente determinate costituzioni storiche, ma rappresentano piuttosto
dei tipi ideali. Nella realtà politica non vi è alcuno Stato che si conformi completamente
all’uno o all’altro di questi tipi ideali”. E ripiega perciò su di una fondazione quantitativa della democrazia politica quale
massimizzazione della libertà politica assicurata dal principio di maggioranza: “l’idea
che sta alla base del principio di maggioranza è che l’ordinamento sociale deve essere
in accordo con quanti più soggetti possibile, e in disaccordo con quanti meno sia
possibile. Poiché la libertà politica significa un accordo fra la volontà individuale
e la volontà collettiva espressa nell’ordinamento sociale, il principio di maggioranza
semplice è quello che assicura il più alto grado di libertà politica possibile nella
società”.
Ma anche questa è una raffigurazione illusoria. Come ha osservato lo stesso Kelsen,
nella democrazia rappresentativa il voto popolare contribuisce soltanto all’elezione
di chi è chiamato a decidere, ma non ha nulla a che vedere con le decisioni degli
eletti. Il popolo, nella democrazia rappresentativa, non decide nulla nel merito delle questioni
politiche. Decide solo, nelle forme e nella misura in cui lo consentono le leggi elettorali,
chi saranno coloro che decideranno. Non a caso il divieto del mandato imperativo, ben più che un connotato accidentale, è tutt’uno con la nozione stessa di democrazia
rappresentativa, non essendo neppure possibile prefigurare, al momento delle elezioni,
le decisioni che saranno prese dagli eletti. Anche nella democrazia diretta, d’altro
canto, si decide comunque a maggioranza, e chi resta in minoranza risulta subordinato
alla volontà eteronoma della maggioranza. La sola ipotesi di effettiva autodeterminazione
popolare si avrebbe in una democrazia diretta in cui tutte le decisioni fossero prese
all’unanimità. Ma questo tipo di unanimismo, ove fosse verosimile, farebbe supporre
una ben più grave distruzione dello spirito pubblico: l’omologazione ideologica e
la fine del pluralismo e del conflitto politico e perciò proprio della libertà. Ciò che caratterizza la democrazia, infatti, è non tanto il libero consenso, quanto
il libero dissenso.
Ma allora anche l’idea della democrazia politica come “autogoverno” è un’idea fallace.
La tesi classica secondo cui essa consisterebbe, come scrissero Rousseau e Kant, nel
non obbedire ad altre leggi che a quelle che noi stessi ci siamo prescritte, o anche,
come scrisse Kelsen, nell’accordo più ampio possibile fra volontà individuale e volontà
collettiva è una tesi chiaramente ideologica, che allude a un’ipotesi che nel migliore
dei casi è inverosimile e nel peggiore è illiberale. Possiamo ben caratterizzare i
diritti politici come ‘diritti di autonomia politica’. Ma è chiaro che “autonomia” non designa affatto, in questa espressione, l’autogoverno
politico, ossia la soggezione alle leggi prodotte da se medesimi. Le leggi, tutte
le leggi, restano pur sempre eteronome, anche per la maggioranza che direttamente
o indirettamente le ha votate. Ne consegue che il solo significato che può essere
associato all’“autonomia” assicurata dai diritti politici è la libera autodeterminazione
di ciascuno che tramite il voto si manifesta, oltre che nella partecipazione alla
scelta dei rappresentanti, nel consenso e ancor più nel dissenso nei confronti delle
loro decisioni; nella libera adesione, ma anche, e più ancora, nella libera opposizione;
nella condivisione, ma anche nella critica e nel conflitto politico da essa legittimamente
generato.
Il solo fondamento assiologico della dimensione formale della democrazia è insomma
la rappresentanza di tutti i governati resa possibile dall’uguaglianza politica, tramite il suffragio universale, in quella specifica classe di diritti che è formata
dai diritti politici: che è un fondamento non diverso da quello dell’uguaglianza in
tutti gli altri diritti fondamentali nella quale risiede, come si vedrà nel prossimo
paragrafo, la dimensione sostanziale o costituzionale della democrazia. Non dimentichiamo
che fino ancora alla prima metà del secolo scorso, quando tale uguaglianza è stata
finalmente riconosciuta, la democrazia non è stata un valore condiviso. La stessa
idea di “autonomia”, quale fondamento del suffragio ristretto, è stata associata anche
dal pensiero liberale più illuminato, a causa del rifiuto da esso opposto al principio
di uguaglianza, unicamente ai cittadini istruiti e/o proprietari perché considerati
i soli capaci di autentica autodeterminazione. È stato quindi il valore connesso all’uguaglianza, a sua volta associato a quello
della dignità della persona in quanto tale, che ha determinato il mutamento, da negativo
in positivo, del giudizio sulla democrazia.
Suffragio universale e principio di maggioranza si sono così affermati come il metodo
più d’ogni altro democratico di selezione dei governanti, cioè di coloro che producono
le regole eteronome cui tutti sono ugualmente sottoposti: perché consentono che a tale selezione concorrano
in condizioni di uguaglianza tutti i governati in quanto tutti ad essa parimenti interessati;
perché favoriscono il pluralismo politico, nonché il conflitto tra opzioni e concezioni
diverse degli interessi generali; perché accordano rappresentanza al dissenso e lasciano
spazio all’organizzazione dell’opposizione politica e sociale; perché consentono una
qualche forma di controllo popolare e di responsabilità dei rappresentanti, sia pure
solo attraverso la loro non rielezione, e le possibili alternative di governo; perché
infine, congiuntamente ai diritti di libertà, valgono a promuovere la partecipazione
popolare e lo sviluppo del dibattito e dell’opinione pubblica da cui sono condizionate
sia la formazione delle maggioranze che le loro concrete decisioni. Naturalmente la
realizzazione più o meno soddisfacente di questi valori e di queste funzioni dipende
in gran parte dalle leggi elettorali, che sono le leggi di attuazione e garanzia dei
diritti politici. L’importante è che si rifugga dalle due fallacie ideologiche qui
rilevate e dal surplus di legittimazione impropria da esse prestato al potere politico: l’idea che la volontà
politica espressa con metodo democratico sia buona e giusta e quella, non meno insidiosa,
che essa consista nell’autogoverno del popolo.
1.5. Il secondo giuspositivismo e la dimensione costituzionale o sostanziale della democrazia.
L’isomorfismo tra diritto e sistema politicoDunque il metodo di formazione delle decisioni politiche basato sulla rappresentanza
popolare per il tramite del suffragio universale designa e garantisce solo la forma democratica della selezione dei governanti, ma non implica affatto che le decisioni prese dalla
maggioranza abbiano una sostanza democratica. La forma rappresentativa degli organi legislativi e di governo, pur essendo una
condizione necessaria della loro legittimazione politica e della dimensione formale
della democrazia,non è sufficiente a garantire né la bontà delle decisioni politiche, né la loro corrispondenza
alla (supposta) volontà popolare. Si aggiunga che la rappresentatività politica delle
istituzioni elettive soffre oggi della crisi profonda che sarà illustrata nel quarto
capitolo: per il venir meno del radicamento sociale dei partiti, per il loro discredito
nella pubblica opinione, per la crescente personalizzazione e verticalizzazione dei
sistemi politici, per la loro tendenziale subalternità ai poteri economici e finanziari,
per lo sviluppo e il successo elettorale, come è avvenuto in Italia, di movimenti
populisti, antiparlamentari e privi di democrazia interna.
Proprio per questo è essenziale la dimensione sostanziale innestata nella democrazia
politica dal paradigma costituzionale. Fu del resto sulla base della consapevolezza
dell’insufficienza della dimensione solo formale a preservare la stessa democrazia
politica che si affermò, nel secondo dopoguerra, il paradigma della democrazia costituzionale
quale sistema di limiti e vincoli sostanziali – il principio di uguaglianza, la dignità
della persona e i diritti fondamentali – alle decisioni di qualunque maggioranza.
Proprio perché il metodo democratico non garantisce affatto tali limiti e vincoli
di contenuto, si convenne la loro imposizione costituzionale al potere normativo delle
contingenti maggioranze. Indubbiamente, connotati sostanziali di questo tipo, necessari
per garantire lo stesso metodo democratico e i suoi svariati e complessi presupposti,
sono stati teorizzati dalla filosofia politica liberale anche con riguardo allo stato
legislativo di diritto. Ma, ripeto, lo sono stati come limiti politici o esterni, e non anche come limiti giuridici o interni. La democrazia costituzionale ha trasformato questi limiti politici in limiti e in
regole giuridiche. È stata questa la grande innovazione del costituzionalismo europeo
del secondo dopoguerra. Ne è risultato un paradigma complesso – la democrazia costituzionale
– che accanto alla dimensione politica o formale include anche una dimensione che ben possiamo chiamare sostanziale, dato che riguarda la sostanza delle decisioni: ciò che da un lato è vietato e dall’altro
è obbligatorio decidere, quali che siano le contingenti maggioranze.
Questo mutamento di paradigma della democrazia e dello stato di diritto è avvenuto,
come si è detto, con il cambiamento delle condizioni di validità – non più solo formali, ma anche sostanziali – della produzione legislativa. Esiste infatti un nesso biunivoco tra il mutamento strutturale di tali condizioni
e il mutamento strutturale della democrazia, generati entrambi dal paradigma del costituzionalismo
rigido. Esiste, più in generale, un nesso isomorfico tra le condizioni giuridiche
di validità – quali che siano, democratiche o non democratiche – e le condizioni politiche
dell’esercizio legittimo del potere normativo: in
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