Sommario

Avvertenze

Capitolo primo.
Il carattere e le opere

Il sentimento della vanità e dell’insensatezza della vita, la percezione di una estraneità o distonia rispetto al mondo, la sottolineatura del carattere illusorio e compensativo dei valori e degli ideali umani sono assai precoci in Pirandello e permarranno inalterati per tutta la sua esistenza. Lo stesso leopardismo giovanile si distanzia ben presto dal materialismo del poeta dei Canti perché ormai arreso di fronte alla possibilità di fornire quella “spiegazione” complessiva della realtà che invece Leopardi tenta e ritenta per tutta la vita. Da questo punto di vista il relativismo pirandelliano presenta caratteri indubbiamente “novecenteschi”, come si può vedere sin dalla lettera alla sorella Lina scritta il 31 ottobre 1886 (l’autore ha diciannove anni), che già delinea con chiarezza un carattere e una ideologia:

La meditazione è l’abisso nero, popolato di foschi fantasmi, custodito dallo sconforto disperato. Un raggio di luce non vi penetra mai, e il desiderio di averlo ti sprofonda sempre più nelle tenebre dense. [...] Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare. Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, una occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita. Quando tu riesci a non avere più un ideale, perché osservando la vita sembra un’enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò la abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così. [...] Io scrivo e studio per dimenticare me stesso – per distormi dalla disperazione...¹.

¹ La lettera è riportata da Giudice 1963, pp. 94-95.

Si tratta di concetti che Pirandello ripeterà vent’anni dopo, in una lettera a Filippo Surace: «Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi, non può prendere né gusto né piacere alla vita. Così è» [SPSV, p. 1286]. E, come è noto, due anni prima della morte, nel giorno della premiazione per il Premio Nobel, Pirandello scrisse a macchina ripetutamente «pagliacciate! pagliacciate!».

La situazione esistenziale di Pirandello appare chiaramente tratteggiata anche nell’unico momento in cui sembra rinnegarla, e cioè alla vigilia del matrimonio, quando gli parve di poter uscire dalla consueta condizione di estraneità e di disperazione. Quanto scrisse allora, riferito a un passato (il tempo impiegato è l’imperfetto) che egli sperava concluso per sempre, delinea in realtà, al di là di quella breve parentesi, una situazione psicologica, esistenziale e culturale destinata a permanere. In due successive lettere alla fidanzata del dicembre 1893 leggiamo:

Che cosa è il giusto? che cosa è l’ingiusto? – Io non trovavo in questo labirinto una via d’uscita. Né nulla veramente potevo trovarci, perché nulla vi mettevo, né un desiderio, né un affetto qualsiasi: tutto m’era indifferente, tutto mi pareva vano e inutile – ero come uno spettatore annojato e smanioso, a cui era di peso il rimanere, e pur non sapeva decidersi ad andarsene; ero come un espulso dal fiume, che consideri dalla riva la corrente senza più la voglia di lasciarsi oltre portare. Il mio intensissimo amore per l’Arte era l’unico scoglio a cui, in tanto naufragio, s’aggrappava disperatamente l’anima mia: ma la vita moderna così agitata da tempestose miserie ha poco men che sommerso quest’unico scoglio: sicché tenermi stretto a lui era quasi affogare e subir gl’insulti dell’avversa marea. [...]

M’ero sciolto completamente d’ogni legame; guardavo gli altri vivere, indagavo la vita come un complesso di vane assurdità e di contraddizioni; e dalla considerazione degli atti e delle parole altrui, su per giù sempre gli stessi, m’era venuto un tedio pesante e una noja smaniosa [LF, pp. 158 e 160].

Si tratta di una condizione – bene espressa dall’immagine dell’espulso dal fiume della vita e dalla sensazione di atonia (di guardar vivere, non di vivere)che ne deriva – che sarà presto sperimentata anche da altri autori più giovani, come Sbarbaro e Michelstaedter. Siamo davanti a quella sospensione del senso e a quella impossibilità di partecipare al ritmo dell’esistenza da cui nasce la grande letteratura allegorica della modernità. In essa tende già a vacillare, travolto dalla «vita moderna», il valore stesso dell’arte (che pure Pirandello scrive ancora con la a maiuscola).

La posizione di Pirandello nei confronti del mondo resta dunque costante, dall’età di diciannove anni alla morte. Da questo punto di vista non si notano cambiamenti di rilievo nel suo carattere e nella sua visione del mondo.

E tuttavia, sotto le cristallizzazioni e le abitudini che pretendono di dare senso e continuità all’esistenza umana, fermentano anche, secondo Pirandello, pulsioni disorganiche, spinte vitalistiche e anarchiche, nelle quali parla la natura, non la civiltà. Un filone sotterraneo di «gaia scienza» nietzscheana corre fra la novella giovanile Quand’ero matto (1901), la commedia Liolà (1916) e il romanzo Uno, nessuno e centomila (1925), entrambi della maturità, per uscire con forza alla superficie negli anni della vecchiaia, nella produzione dei «miti» teatrali e delle novelle surreali. L’influenza di Nietzsche² agisce non solo sul piano critico-negativo, ma anche su quello propositivo, rovesciandosi, a partire dalla conclusione di Uno, nessuno e centomila, e dunque nell’ultimo decennio della carriera artistica pirandelliana, nell’utopia dell’uomo che vive come una pianta o un animale o un sasso. D’altronde, questa rivalutazione delle forze oscure della natura e dell’inconscio accosta l’ultimo Pirandello all’esperienza del surrealismo che comincia ad affermarsi in Europa appunto nella seconda metà degli anni Venti.

² Sull’influenza di Nietzsche su Pirandello si vedano le considerazioni di Andreoli 1997, pp. 159-60.

È a partire da questo momento che può dirsi conclusa la poetica dell’umorismo elaborata nel primo decennio del secolo, che era volta alla decostruzione analitica e alla disarticolazione negativa più che all’edificazione di «miti» o all’esaltazione della natura.

Queste due grandi fasi della produzione pirandelliana – l’umoristica e la surrealistica – non ne esauriscono tuttavia l’interna articolazione. Possiamo infatti distinguere cinque diversi periodi nella vita e nella attività letteraria e teatrale di Pirandello:

1) il periodo della formazione. Giunge sino al 1892, quando Pirandello decide di dedicarsi alla letteratura. Sono gli anni dell’infanzia e della giovinezza, trascorsi ad Agrigento, Palermo, Roma, Bonn, dove il giovane si laurea in filologia romanza. Del 1889 è la raccolta di poesie Mal giocondo;

2) il periodo della coscienza della crisi e della scelta dell’impegno letterario (1892-1903). L’ideologia pirandelliana si assesta in questi anni in un radicale relativismo che accantona i valori della cultura ottocentesca e positivistica. Stabilitosi a Roma con la moglie (sposata nel 1894), Pirandello redige con un gruppo d’amici la rivista «Ariel», scrive alcuni saggi importanti (come Arte e coscienza d’oggi, una sorta di «esame di coscienza di un letterato» di fronte alla modernità), pubblica i primi libri di novelle e il romanzo L’esclusa;

3) il periodo della narrativa umoristica (1904-15). L’elaborazione della poetica dell’umorismo avviene fra il 1904, anno in cui esce Il fu Mattia Pascal, e il 1908, quando Pirandello pubblica il saggio L’umorismo. Sono di questi anni altri libri di poesie e di novelle e i romanzi Suo marito, I vecchi e i giovani e Si gira... (il titolo sarà cambiato poi in Quaderni di Serafino Gubbio operatore);

4) il periodo del teatro umoristico (1916-25). La poetica dell’umorismo viene applicata al teatro già a partire dall’atto unico All’uscita (1916). Dopo Liolà, Pirandello dà il proprio contributo al teatro del grottesco, soprattutto con Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà e Il giuoco delle parti. Nel 1921 esce Sei personaggi in cerca d’autore, nel 1922 Enrico IV. Nel 1922 comincia a riunire e a riorganizzare la produzione novellistica in Novelle per un anno. Nel 1924 Pirandello s’iscrive al Partito nazionale fascista. Fra il 1925 e il 1926 pubblica dapprima a puntate, poi in volume, il romanzo Uno, nessuno e centomila;

5) il periodo del surrealismo (1926-36). Pirandello dirige per tre anni il Teatro dell’Arte a Roma, ha una relazione con la prima attrice Marta Abba, e mette in scena altre due opere di «teatro nel teatro» (la prima era stata Sei personaggi in cerca d’autore): Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a soggetto. Di fatto abbandona la poetica dell’umorismo e si avvicina piuttosto al surrealismo. Compone tre «miti» teatrali (ma l’ultimo resta inconcluso), La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna. È questa, anche, la fase del “pirandellismo”, dei viaggi e dei lunghi soggiorni in Germania, a Parigi, negli Stati Uniti, e del Premio Nobel (1934). Risalgono a questi anni le novelle surreali, pubblicate con le altre in Novelle per un anno.

Capitolo secondo.
La formazione
e la prima produzione saggistica

Tre diversi ambienti culturali condizionano la formazione di Pirandello: quello siciliano dell’infanzia, dell’adolescenza e della primissima giovinezza; quello romano degli anni universitari e del periodo immediatamente successivo al ritorno dalla Germania; quello tedesco del soggiorno a Bonn per la laurea.

Nascere ad Agrigento nel 1867 e vivere sino a vent’anni fra questa città e Palermo non era molto diverso che nascere a Trieste sedici anni dopo, come sarà per Saba: significava affacciarsi alla vita culturale nazionale da un’angolatura assai defilata, portarsi dietro un retaggio letterario e linguistico assai tradizionale e per certi versi scolastico (i maestri di Pirandello poeta sono più o meno gli stessi di Saba agli esordi, e la sua lingua non è meno scontatamente letteraria). Significava però, anche – e qui il caso di Pirandello è ovviamente diverso –, assimilare un’ideologia, un costume etico e politico specifici di una classe ancora agiata ma ormai, nel processo economico dell’Italia unita, decisamente marginale – quella dei proprietari di terre e di miniere di zolfo in Sicilia – e di un ceto – quello intellettuale – nell’isola ancor più appartato ed estraneo ai meccanismi produttivi che non nell’Italia del Nord o del Centro-Nord. La borghesia proprietaria siciliana non conosceva la sicurezza e l’intraprendenza di quella legata alla moderna industria capitalistica: le ricorrenti crisi economiche e finanziarie del padre di Pirandello, pur all’interno di una condizione di qualche agiatezza, sono indizio di una precarietà sociale che non riguardava certo un’unica famiglia ma che aveva a che fare, in ultima analisi, con un quadro nazionale dominato da uno sviluppo economico squilibrato a tutto vantaggio del Nord industriale. Anzi, una di queste crisi – quella prodotta dall’allagamento di una miniera nel 1903 – costrinse Luigi ad abbandonare il precedente atteggiamento umanisticamente disinteressato nei confronti della letteratura e dell’arte, a esigere il pagamento delle proprie prestazioni intellettuali, e a cercare denaro e successo attraverso il romanzo (Il fu Mattia Pascal nacque anche così).

Tale precarietà non poteva non ripercuotersi sul ceto intellettuale proveniente dalle fila di questa borghesia, accentuandone le contraddittorie oscillazioni e l’instabilità ma anche una tendenza all’anarchismo o a forme di radicalismo che avevano in Sicilia una loro specifica tradizione letteraria facente capo a Rapisardi e che alimenteranno dapprima il movimento dei Fasci siciliani e poi, all’inizio del secolo, quello del sindacalismo rivoluzio- nario, incontrandosi allora col sovversivismo piccolo-borghese assai diffuso, anche a livello nazionale, fra gli intellettuali dell’età giolittiana. Pirandello insomma appartiene a un ceto diviso fra il richiamo all’ordine dei gruppi dominanti (di cui avverte ancora di fare parte) e istanze ribellistiche. Quando, all’Università di Palermo, nel 1886-87, egli comincia a frequentare i giovani che guideranno pochi anni dopo il movimento dei Fasci, continuando ad appoggiarli sino al 1892-93, e poi, invece, pochi mesi dopo, nel 1894, si direbbe improvvisamente, condivide l’indirizzo antisocialista della politica crispina, rivela oscillazioni assai meno imprevedibili o laceranti di quanto possano apparire oggi e che comunque caratterizzano in profondità la sua ideologia, anche al di là degli episodi ora ricordati. D’altra parte, lo stesso garibaldinismo assimilato dalla tradizione familiare (paterna ma soprattutto materna) lo induceva a un patriottismo risorgimentale cui resterà fedele tutta la vita¹. Rimarrà inoltre in lui un’esigenza di sana e assai tradizionale eticità e di una razionalità mai intellettuali- sticamente compiaciuta, una fiducia nell’eticità del discorso e della dimostrazione logica di un assunto, che costituiranno sempre un argine alla coscienza, pur acutissima, della crisi dei vecchi valori e delle vecchie ideologie. Il suo rifiuto delle correnti irrazionalistiche e spiritualistiche dominanti alla fine del secolo e all’inizio del nuovo nasce anche da questo fondo ottocentesco.

¹ Sulla formazione politica di Pirandello e sul suo giovanile sovversivismo cfr. Providenti 1997.

Non mancava certamente in lui la consapevolezza – tipica dell’artista moderno negli anni del cosiddetto “decadentismo” – di una profonda “diversità”, di uno sradicamento sociale, di una solitudine nutrita di angoscia nevrotica. Lo predisponevano a tale esperienza la rivelazione della propria alterità già nell’ambiente familiare, col senso di estraneità nei confronti di una figura paterna per certi versi prepotentemente invasiva e perturbante (basti ricordare l’episodio della scoperta dell’adulterio del padre e dello sputo alla sua amante) e, per altri, invece, evanescente o inaffidabile e con la netta percezione della propria “inettitudine”, particolarmente nella vita pratica e nel mondo degli affari (da tale punto di vista assume un valore esemplare il fallimento del tentativo, durato tre mesi, a Porto Empedocle, di lavorare nell’amministrazione delle miniere di zolfo appartenenti al padre). La precoce vocazione per la letteratura e la scelta, al ritorno da Bonn, di dedicarvisi completamente nascono anche da questa condizione esistenziale, in cui s’incontravano e si sovrapponevano il senso della propria “diversità” psicologica e quello della propria marginalità sociale. Da un lato, l’arte si presentò al giovane Pirandello come l’unico luogo in cui legittimamente potesse esprimersi il sentimento di un’esclusione dagli altri (e forse anche da se stesso: la percezione dello sdoppiamento e della compresenza nella propria anima di varie personalità è documentata assai precocemente nell’epistolario): anzi, la poesia indubbiamente dovette apparirgli come un’alternativa complessiva all’ambiente in cui era cresciuto e in cui si era formato. Dall’altro, la scrittura venne vissuta anche come macchina cognitiva, come osservatorio da cui studiare la presunta “normalità” altrui e pietosamente o velenosamente passarla a contrappelo. L’istanza critico-negativa è subito fortissima in Pirandello, e presente persino in alcune delle più ingenue poesie adolescenziali. La stessa tradizione del positivismo siciliano – quella che egli poteva mutuare da Verga e da Capuana o ritrovare in De Roberto – lo induceva a vedere nella scienza più la potenza demistificante, la capacità di corrodere miti e credenze, che una ragione di speranza, di miglioramento o di «progresso». La carica negativa del pessimismo siciliano poteva così in lui incontrarsi con l’influenza di Leopardi, forse più decisiva – almeno per quanto riguarda la “filosofia” di Pirandello e in particolare il suo relativismo – di quanto sinora si sia pensato.

Questi diversi fili culturali, esistenziali, sociali della formazione di Pirandello trovano un loro primo importante documento nella lettera alla sorella del 31 ottobre 1886 riportata nel precedente capitolo. In essa si rivelano già con chiarezza sia la coscienza della mancanza di senso dell’esistenza (vista come un’«enorme pupazzata») e del carattere compensatorio della scrittura e dello studio, sia la precoce vocazione pirandelliana a cogliere il conflitto fra le illusioni (gli ideali che ci aiutano a vivere e che in realtà non sono altro che autoinganni) e una chiaroveggenza spietata e disperata, consapevole della loro sostanziale vanità, ma anche della loro pratica necessità.

Il senso di una solitudine culturale non abbandonò Pirandello neppure a Roma. L’ambiente letterario, da lui frequentato in questa città per due anni (1887-89) prima di andare a Bonn e poi, a partire dal 1891, al suo ritorno, dopo la laurea tedesca, non era certo quello della «Cronaca Bizantina» o del «Convito», caro a D’Annunzio (che era stato, anche lui, studente di Lettere all’Università di Roma), ma l’altro, assai più appartato, e per certi aspetti più tradizionale, di Ugo Fleres e di Giuseppe Mantica. Indubbiamente facevano parte del gruppo anche intellettuali il cui valore era ampiamente riconosciuto a livello nazionale, come Ugo Ojetti, Giovanni Alfredo Cesareo e soprattutto Luigi Capuana; ma tutti mantenevano qualche legame con la loro formazione positivistica e spesso provinciale e vivevano una carriera letteraria (se si eccettua, in parte, Capuana) dignitosa, ma non di primissimo piano. Il gruppo (che dette vita, nel 1898, a una rivista, «Ariel») sembra nascere da un sodalizio di amici, riuniti, si direbbe, da un’esigenza di autodifesa (non per nulla era frequentato soprattutto da siciliani stabilitisi nella capitale: oltre a Pirandello e a Capuana, erano siciliani anche Fleres e Cesareo, mentre Mantica era calabrese), e comunque più per resistere in una situazione di accerchiamento che per diffondere idee nuove o, tanto meno, d’avanguardia. Di fatto, si trattò di un nucleo di resistenza che, mentre prendeva atto della crisi del positivismo e del naturalismo e gradualmente si allontanava da tali posizioni, non intendeva peraltro aderire alle nuove, fossero esse quelle del simbolismo e dell’irrazionalismo decadenti o, più tardi, dei gruppi giovanili fiorentini o del nascente neo-idealismo filosofico rappresentato da Benedetto Croce. La solitudine culturale di Pirandello, che a questi nuovi movimenti restò infatti sempre estraneo, trovava nell’ambiente romano una sostanziale conferma. Qui le componenti fondamentali della sua formazione siciliana poterono essere da lui sviluppate, elaborate e poi lentamente superate senza traumi e senza rotture violente: d’altronde, sia la lezione di Verga e Capuana, con la conseguente eredità positivistica, sia quella di Carducci, Graf, Stecchetti, sia il leopardismo (in ambito siciliano coltivato, negli anni Novanta, non solo da De Roberto, ma anche da Cesareo, che faceva parte del gruppo romano e che a Leopardi dedicò una importante monografia nel 1893) erano tratti comuni alla cultura di Pirandello e dei suoi amici di «Ariel».

Semmai l’ambiente romano si offrì a Pirandello come osservatorio privilegiato della crisi di un’intera generazione e di un preciso momento storico, nell’ultimo ventennio del secolo. Ne è testimonianza il lavoro più notevole di Pirandello saggista prima dei volumi L’umorismo e Arte e scienza (pubblicati però solo nel 1908), Arte e coscienza d’oggi, del 1893, eccezionale documento di un «malessere intellettuale», non solo individuale ma collettivo. Qui Pirandello misura per la prima volta la profondità della propria crisi confrontandola con quella del ceto intellettuale nel suo complesso, ne registra l’humus comune e le non casuali coincidenze. Il plurale che egli usa non è una convenzione accademica o un attestato di modestia, ma la constatazione di un dato di fatto che lo riguarda da vicino: «Non mai, credo, la vita nostra eticamente ed esteticamente fu più disgregata» [SPSV, p. 901; corsivo nostro]. E tuttavia la descrizione della crisi (Pirandello parla di un «crepuscolo dei popoli», di una «fin de siècle» che è anche, col linguaggio ancora positivistico, «fin de race») si accompagna anche a un momento di distacco, a una punta di risentita moralità nella rappresentazione polemica dell’«inanismo contemporaneo» e del «moderno dilettantismo», i quali hanno per segni caratteristici «egoismo, spossatezza morale, mancanza di coraggio di fronte alle avversità, pessimismo, nausea, disgusto di se stessi, neghittaggine, incapacità di volere, fantasticheria, straordinaria emotività, suggestibilità, bugiarderia incosciente, facile eccitabilità dell’immaginazione, mania d’imitare e sconfinata stima di se stessi» [SPSV, pp. 901-902]; né manca l’attesa di qualcosa o di qualcuno che possa risolvere tale situazione, magari di qualche positiva idealità che sia capace di sconfiggere il senso della «vanità della vita» e della «inutilità della lotta». Di nuovo, dal pensiero positivista del romanziere Max Nordau egli ritiene la carica negativa e pessimistica, l’insegnamento delle conquiste scientifiche che ridimensionano drasticamente il ruolo dell’uomo sulla terra e mostrano la impossibilità di qualsiasi conoscenza certa e definitiva – non la fiducia nel progresso. Il valore della scienza sta nel suo potere distruttivo dei falsi miti dello spiritualismo e dell’idealismo, delle vecchie e delle nuove credenze irrazionalistiche, e anche della religione («Fa bensì meraviglia che si chiami Dio quel che in fondo è buio pesto», scrive Pirandello contro quanti tornano a convertirsi alle certezze di una religione rivelata), e nell’avere così aperto l’epoca della coscienza moderna, contrassegnata dalla fine dell’antropocentrismo e dalla scoperta della «relatività di ogni cosa». È importante osservare, insomma, che la teorizzazione pirandelliana di una crisi ontologica dovuta a una condizione originaria – e cioè alla debolezza dell’uomo sulla terra e alla sua impossibilità di giungere a una qualsiasi verità oggettiva o metafisica – nasca in realtà in lui come percezione di una crisi storica, che riguarda specificamente la modernità:

Io non so se la coscienza moderna sia veramente così democratica e scientifica come oggi comunemente si dice. Non capisco certe affermazioni astratte. A me la coscienza moderna dà l’immagine di un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d’una battaglia notturna, d’una mischia disperata, in cui s’agitino per un momento e subito scompajano, per riapparirne delle altre, mille bandiere, in cui le parti avversarie si sian confuse e mischiate, e ognuno lotti per sé, per la sua difesa, contro all’amico e contro al nemico. È in lei un continuo cozzo di voci discordi, un’agitazione continua. Mi par che tutto in lei tremi e tentenni [SPSV, p. 906].

Non è solo una descrizione, questa: è già una poetica. Il moderno si presenta a Pirandello come una sorta di montaliano «ossimoro permanente», in cui i contrari convivono, si sovrappongono, s’intrecciano, non è più possibile distinguere nettamente vero da falso e in cui, quindi, lo scrittore può solo dare espressione a tale «continuo cozzo di voci discordi». In questa pagina si affaccia già una poetica della discordanza e della contraddizione, assai diversa da quella concezione organicistica dell’arte, classica ma per molti versi anche romantica, che da parti diverse, attraverso Carducci ma anche attraverso De Sanctis e Capuana, e infine a Bonn attraverso Goethe, aveva pure influenzato la sua formazione. Si tratta di due posizioni diverse sull’arte che a lungo, nell’ultimo decennio del secolo e nei primi anni del nuovo, Pirandello tenterà, con alterni risultati, di conciliare.

Dallo stesso ambiente tedesco Pirandello aveva desunto, a tale proposito, indicazioni anch’esse contrastanti. A Bonn non aveva praticato, infatti, soltanto le discipline filologiche e linguistiche in cui si era laureato e che lasceranno in lui qualche importante traccia anche in futuro (come mostra, per esempio, l’attenzione alla questione della lingua, contrassegnata da una strenua fedeltà alle posizioni di Graziadio Isaia Ascoli e dalla conseguente avversione per ogni soluzione manzoniana o “fiorentina”). Da un lato si era accostato a Goethe poeta (cominciando a tradurre le sue Elegie romane) e teorico dell’estetica, assimilandone la concezione dell’arte come armonia e composizione classica delle passioni; dall’altro, invece, l’influenza di autori come Heine, Tieck e Chamisso (che piuttosto puntavano sull’uso ironico del materiale romantico e a contraddire la liricità e il sentimento con una buona dose di smagato e umoristico razionalismo o con la intuizione dello sdoppiamento dell’io) e le lezioni universitarie di Theodor Lipps sull’estetica del comico e del tragico – di cui certamente egli si ricorderà al momento di leggerne il libro Komik und Humor, 1898, citato nell’Umorismo – andavano piuttosto verso un approfondimento di quel rapporto fra sentimento e riflessione che caratterizzerebbe, nella forma dell’umorismo, o comunque della dissonanza o dell’ironia, l’arte moderna. Le stesse letture di Nietzsche e Schopenhauer, che forse risalgono anch’esse al periodo tedesco, tendevano a indurlo a soluzioni non certo classiche e organicistiche ma decostruttive e critico-negative. In questa luce, non è certo un caso che un saggio come quello del 1896 su Cecco Angiolieri, nato da occasioni accademiche e filologiche, trovi poi il suo momento di maggiore interesse in un tentativo – il primo effettuato da Pirandello – di mettere a fuoco la differenza fra comicità e umorismo.

La oscillazione fra un ideale estetico di composizione e una poetica della scomposizione si presenta, nel pensiero pirandelliano di fine secolo, anche in altre forme, a causa della contrastante influenza della lettura di Essai sur le génie dans l’art di Gabriel Séailles (teorico del vitalismo irrazionalista che ebbe una certa influenza su Bergson) e di Les altérations de la personnalité di Alfred Binet (uno studioso di formazione positivistica che si era dedicato ad analizzare i vari casi di scissione del soggetto – dall’ipnotismo all’isterismo alla semplice distrazione – e dei diversi livelli della vita psichica, consci e inconsci, e dunque anche della pluralità dell’io e della compresenza in esso di varie personalità). Mentre Séailles sottolineava la capacità dell’artista-creatore di fornire una sintesi della propria “costruzione” del mondo, Binet mostrava infatti la conflittualità e le discordanze presenti nel soggetto stesso.

L’influenza di Binet (autore che condizionò anche la formazione di Proust e la concezione della «memoria involontaria») va inserita in un quadro più vasto di suggestioni culturali presenti nel dibattito intellettuale del tempo. In Italia agì su due studiosi che Pirandello ebbe allora in gran conto, Giovanni Marchesini, di cui egli lesse, e più volte citò nell’Umorismo e altrove, Le finzioni dell’anima (1905), e Gaetano Negri, egualmente da lui rammentato con consenso per il libro Segni dei tempi (1904), il quale tuttavia edulcorava assai la lezione del francese risolvendo le contraddizioni dell’io nel postulato idealistico di un’infinita coscienza universale capace di dare unità ai frammenti di quella individuale. Inoltre, dal seno del positivismo stava emergendo in quegli anni un acutissimo interesse per la psicologia, la parapsicologia, l’isterismo, l’ipnotismo e anche lo spiritismo. Capuana stesso, già a partire dal romanzo Profumo (1890), era attentissimo a questi fenomeni; e d’altronde il celebre Lombroso concluse la sua carriera di scienziato positivista dedicandosi agli studi di ipnotismo e di spiritismo (il suo Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici uscì nel 1909, l’anno stesso della morte, ma i suoi interessi in questo campo risalgono già al 1891). Come mostrerà nel Fu Mattia Pascal, Pirandello aveva una buona cultura in questo campo, e certamente aveva letto, fra gli altri, il libro di Charles Webster Leadbeater The Astral Plane (1897, ma Pirandello forse ne conosceva soltanto la traduzione francese, di due anni successiva), da cui probabilmente desunse l’idea che i personaggi dei romanzieri sarebbero espressione della «materia mentale» dell’autore giunta a un’autonoma realizzazione, quasi incarnazione indipendente di spiriti evocati dalla sua tensione mentale e dal suo sforzo di volontà. Questa ipotesi, d’altra parte, s’integrava agevolmente con quella, desunta invece da Binet, che i vari elementi dell’io non costituiscano sempre un livello organico di coscienza e anzi possano essere in uno stato di disgregazione che, a determinate condizioni (per esempio, quelle di un autore assorto nella costruzione della propria opera), sarebbero in grado di riorganizzarsi autonomamente dando luogo, nell’io, a personalità secondarie e, nel risultato artistico, ai diversi personaggi di un romanzo o di un dramma.

Il problema costituito dalle contrastanti influenze di Séailles e di Binet può essere affrontato da due angolature diverse, a seconda che si sottolinei, con Renato Barilli², il carattere di sistema e dunque l’organicità di una proposta culturale (vengono fatti i nomi di Bergson, Husserl, W. James, Dewey) che, da varie parti in Europa, in quel periodo, tendeva a elaborare una «terza via» al di là del positivismo (e dell’oggettivismo) e dello spiritualismo (e del soggettivismo) e in cui pienamente e coerentemente rientrerebbe l’orizzonte problematico di Pirandello, oppure si ponga piuttosto l’accento sulla interna evoluzione della cultura pirandelliana, come ha fatto Giuseppe Nava³. Questi, prendendo come punto di riferimento l’attenzione di Pirandello per la scienza, ha mostrato nell’autore siciliano un progressivo disinteresse nei suoi confronti, col conseguente passaggio dall’oggettivismo ancora presente nel saggio del 1897 Sincerità e arte (in cui possiamo leggere, per esempio: «Per me il mondo non è solo una idealità, non è cioè limitato all’idea che io posso farmene: fuori di me il mondo esiste di per sé e in sé») al soggettivismo del saggio del 1908 Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa, dove si parla ormai di «separazione impossibile di soggetto e oggetto» e l’oggettività è considerata solo «in relazione al nostro sentimento» e al «valore intenzionale che attribuiamo all’atto della rappresentazione».

² Cfr. Barilli 1986, pp. 271-90.

³ Cfr. Nava 1982, pp. 180-98.

Se è vero, come vuole Barilli, che Pirandello cerca effettivamente di superare soggettivismo e oggettivismo in una nuova concezione, in cui «l’immagine è la cosa e la cosa è l’immagine», e di risolvere in essa il soggettivismo seaillesiano, enfatizzante l’elemento costruttivo e sintetico dell’io creatore; e l’oggettivismo binetiano, rivelante la dissociazione del soggetto; è anche vero, però, che è indiscutibilmente percepibile, nella cultura di Pirandello, una precisa evoluzione, a mano a mano che si passa dagli ultimi anni del vecchio secolo a quelli dell’età giolittiana. Come già si è avuto modo di osservare, essa si sviluppa in modo del tutto naturale, senza lacerazioni o rotture vistose. Senza essere del tutto esclusi o cancellati, gli elementi della vecchia formazione (l’esigenza di razionalità e di eticità, il bisogno di un controllo oggettivo) vengono inseriti all’interno di una nuova consapevolezza della relatività e della inevitabile soggettività di ogni conoscenza. Anche se Pirandello restò sempre estraneo alla ricerca dei gruppi d’avanguardia e delle riviste fiorentine del primo decennio del Novecento, egli venne di fatto a condividere con essa un orizzonte culturale contrassegnato dalla crisi del paradigma di “verità” e dalla nuova coscienza del declino di un soggetto “forte”, capace di dare ordine al mondo (ma non vi reagì, tuttavia, con la stessa velleità di risarcimento sociale e di protagonismo).

In conclusione, della lezione di Séailles Pirandello riterrà la critica al determinismo e la fiducia nella spontaneità dell’atto creativo, contro ogni retorica della “bellezza” e ogni metodo a priori perseguito – e ciò lo sottrae decisamente sia al fascino delle «veneri dello stile» della tradizione classicistica e dello «scrivere bello» dannunziano, sia a un’arte programmatica quale quella propugnata dal naturalismo –, non l’ottimismo esaltante il momento costruttivo e sintetico. E ancora: se, per Séailles come per Pirandello, il mistero della vita può essere penetrato solo attraverso il sentimento e l’arte deve nascere appunto da tale esperienza, bisogna aggiungere però che per lo scrittore siciliano il sentimento è partecipazione sofferta a una visione del mondo relativizzata, disgregata, in cui non è la sintesi a imporsi ma la percezione di un «cozzo di voci discordi». La stessa idea pirandelliana di un’autonomia dei personaggi dal loro autore (presente già nel saggio del 1899 L’azione parlata) è ovviamente assai lontana da quella seaillesiana esaltante il ruolo organante del soggetto: infatti, l’autore deve rinunciare a sovrapporre a personaggi e vicende sia il suo stile e il suo linguaggio (come invece, osserva polemicamente Pirandello, fa D’Annunzio), sia i suoi eventuali programmi «scientifici» (come fanno invece i naturalisti, da cui egualmente egli prende le distanze perché incapaci di adeguarsi alla imprevedibilità della vita).

Nel passaggio dalle posizioni di fine secolo, in cui Pirandello fa ancora i conti, seppure criticamente, con la cultura positivistica, a quelle nuove del Novecento, in cui essa appare ormai superata, un momento importante è rappresentato dal confronto, prolungato e tenace, con l’estetica crociana, soprattutto in L’umorismo (1908) – particolarmente nella seconda redazione, uscita nel 1920 –, e in Arte e scienza, anch’esso del 1908. In questi scritti, Pirandello tende a considerare equivalenti i concetti di “conoscenza” e di “scienza”, individuando il momento scientifico in qualsiasi atto cognitivo e razionale e così dimostrando, con questa stessa sovrapposizione, la propria definitiva lontananza dalla tradizione positivistica. Proprio tale riduzione gli consente di sostenere la tesi anticrociana della necessità del «riferimento intellettuale» nell’arte. In altri termini, la scienza (così concepita) e la riflessione sono considerate inerenti al fatto estetico e anzi di esso costitutive, mentre il distinzionismo crociano «stacca con un taglio netto le varie attività e funzioni dello spirito» [SPSV, p. 167], separando l’intuizione lirica dal momento intellettuale. Una critica non diversa era mossa a Croce, in quegli stessi anni, anche dai moralisti vociani, come Slataper e (soprattutto) Boine. Tuttavia, invece di sviluppare questa interessante intuizione, Pirandello finiva poi per subire l’influenza crociana (ma probabilmente era anche la lezione di Séailles a spingerlo in questa direzione) ribadendo, per altri versi, la primazia del sentimento: l’idea, la riflessione, dovrebbe diventare sentimento per entrare a far parte dell’elaborazione estetica. L’arte – dice Pirandello – è il «subiettivarsi dell’oggettivazione», una «sentimentalizzazione», per dir così, dell’atto cognitivo. Netta, ma anche in questo caso poco sviluppata, è poi l’opposizione a Croce nella valutazione della tecnica artistica, che per Pirandello coincide con l’atto della creazione quale si rivela nella forma e non è dunque un’estrinseca materializzazione dell’intuizione, come riteneva il filosofo napoletano. Pirandello si arresta a una critica ben calibrata al rapporto meccanico che secondo Croce porterebbe l’intuizione a tradursi immediatamente in espressione, senza spingersi oltre e soprattutto senza interessarsi del concreto processo della formalizzazione, né preoccuparsi delle strutture formali preesistenti, delle tradizioni dei generi e dei canoni e del condizionamento che esse esercitano.

Il fatto è che, sul piano meramente estetico-filosofico, egli non riesce mai a sottrarsi del tutto né all’influenza di Séailles, né a quella del filone italiano dell’idealismo, da De Sanctis a Croce: la costante sottolineatura del momento del sentimento individuale, della sincerità e della spontaneità che si affermerebbero contro qualsivoglia canone, genere, tradizione, gli impedisce di valorizzare adeguatamente le sue intenzioni più originali, che così risultano pienamente espresse soltanto nel campo della poetica e della critica militante. Quando, per esempio, Pirandello critica Le vergini delle rocce di D’Annunzio o inventa la figura del critico armato di spillo, pronto a pungere le «vesciche gonfie» del neo-idealismo e del simbolismo [SPSV, p. 914], o quando torna a riproporre il tema a lui caro dell’umorismo, ad analizzarlo da un punto di vista storico (nella sua relazione con la scoperta moderna della relatività), ad approfondirlo nella sua dimensione psicologica e nelle sue conseguenze formali, egli fornisce il suo contributo più fecondo e più personale all’elaborazione di una concezione novecentesca dell’arte. Un maturo preavviso di tale capacità è dato dal saggio del 1905 Alberto Cantoni (poi intitolato Un critico fantastico), dove tornano a confluire – come sempre nei momenti migliori di Pirandello saggista, narratore o drammaturgo – motivi esistenziali, etici, estetici, “filosofici”: l’umorista – egli scrive – è chi ha fatto

un’esperienza amara della vita e degli uomini, un’esperienza che, se da un canto non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perché lanci un trillo nel sole, senza che essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo; dall’altro lo induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare [SPSV, p. 375].

Il «sentimento ingenuo» ormai non esiste più. Ciò che Pirandello confusamente intuisce nelle sue tribolate considerazioni estetiche sul rapporto fra sentimento e riflessione appare qui, come in altri suoi scritti di poetica (e principalmente, per esempio, nel capitolo finale dell’Umorismo), chiarissimo: l’«allodola» del sentimento non può più librarsi liberamente nell’arte perché la moderna coscienza dell’estraniazione e dello sdoppiamento non può che trattenerla per la coda nell’atto stesso in cui tenta di spiccare il volo. Già nel saggio su Cantoni Pirandello si rivela consapevole del fatto che l’arte non nasce dalla pienezza e dalla immediatezza della vita e del sentimento, ma dall’esperienza «amara» della riflessione e del «vedersi vivere». Ancora un passo e saremo alle pagine sullo sdoppiamento e sul sentimento contraddetto e strozzato che chiudono il saggio L’umorismo. Quell’ordine e quella coesione che Séailles invocava e che Pirandello stesso vede come qualità delle «comuni opere d’arte» non possono appartenere all’arte moderna, la quale tende a essere invece un’arte della scissione e della contraddizione, costretta a trattenere per la coda l’allodola del sentimento, e dunque a giocare le sue carte migliori sul terreno della autocoscienza critica e della scomposizione umoristica.

Capitolo terzo.
Le poesie

La prima raccolta di poesie, Mal giocondo, uscì nel 1889, l’ultima, Fuori di chiave, nel 1912. Pirandello scrisse dunque poesie, senza soluzione di continuità, per un trentennio, dall’età di sedici anni (Mal giocondo raccoglie testi composti fra il 1883 e il 1889) sino alla piena maturità, anche artistica (nel 1912, a quarantacinque anni, era già un autore affermato). Non si può dire dunque che l’esperienza poetica sia stata occasionale. Anzi, fu per lui della massima importanza non solo sino al 1893, quando cominciò a intrecciarsi con quella narrativa, ma sino all’inizio del nuovo secolo, quando l’attività di romanziere e di novelliere prese decisamente il primo posto.

La dedizione alla poesia è la conferma, in Pirandello, di una scelta esistenziale e di una vocazione all’arte che hanno l’urgenza e la sicurezza di un destino. Nello stesso tempo assume forme che rivelano nuovamente il carattere appartato e per qualche aspetto provinciale della sua formazione. Senza esitare, egli immediatamente assume e poi mantiene, nelle prime raccolte e nella traduzione in versi delle Elegie romane di Goethe, il canone scolastico e il linguaggio della tradizione ottocentesca, da Foscolo a Leopardi a Graf, Stecchetti e il loro maestro Carducci (quest’ultimo specialmente saccheggiato nel vocabolario poetico e nelle soluzioni metriche). Ma anche successivamente egli continua a rifiutare, nella sostanza, sia il linguaggio della poesia simbolista contemporanea, sia quello delle avanguardie espressioniste e futuriste. Ovviamente, in tali scelte, incidono le condizioni culturali e ambientali di cui si è parlato nel capitolo precedente. Ma forse vale la pena sottolineare anche un altro aspetto dell’isolamento di Pirandello dal panorama della poesia più significativa fra i due secoli. Sia il simbolismo di Pascoli e di D’Annunzio, sia l’avanguardismo appaiono poco interessati all’accettazione di patterns precostituiti e di un codice sociale di comunicazione, o perché puntano sull’intimità e sulla suggestione evocativa della parola o perché mirano all’effrazione dell’orizzonte d’attesa del pubblico. Viceversa sembrerebbe che, per Pirandello, essere poeta significhi anzitutto l’accettazione scontata di un codice e di un modello di letterarietà. Sin dagli esordi egli rivela una sostanziale fiducia nella cerimonialità della forma e della retorica e nel loro carattere sociale e istituzionale. Indubbiamente, a mano a mano che si completerà il suo processo di formazione artistica, egli tenderà ad aprire, al loro interno, una dialettica, introducendovi elementi di tensione e di contraddizione; ma lo scopo sarà pur sempre quello di farne un uso particolare assumendo un ruolo di parzialità e di provocazione nel loro ambito, non di rifiutarle o di collocarsi al loro esterno.

Giustamente è stato scritto¹ che Pirandello esprime la propria crisi storica col linguaggio di un’altra crisi, quella che segna il passaggio al romanticismo nei primi decenni dell’Ottocento, senza riuscire a inventare una lingua poetica adatta alla nuova situazione. Il più delle volte si direbbe che egli si limiti a una semplice versificazione dei contenuti, a un’ostinata operazione di messa in versi – e quasi di traduzione in versi – della prosa, con un’attenzione accanita all’aspetto più esteriore della metrica, ma con una totale disattenzione, invece, per il ritmo e per i valori del significante. Di qui il fallimento artistico della sua poesia, anche se gli ultimi due libri in versi, pur non approdando a risultati estetici di grande rilievo, appaiono più problematici e complessi di quelli giovanili. Benché permangano i limiti sopra indicati, va registrato insomma un salto di qualità tra Mal giocondo, Pasqua di Gea, Elegie renane da un lato e Zampogna e Fuori di chiave dall’altro. Tra le Renane e Zampogna il vecchio linguaggio entra in crisi e si apre una fase poetica nuova, sperimentale, che mostra una più matura consapevolezza di poetica e una notevole coerenza e sicurezza nella scelta dei temi e delle soluzioni formali.

¹ Cfr. Lugnani 1986a, pp. 26-27.

Mal giocondo è espressione della crisi di un giovanile programma neoclassico. L’aspirazione all’Armonia (con la a maiuscola), alla «bellezza eterna», a una serenità pagana può realizzarsi solo nel sogno; per il resto si riduce a rimpianto del passato. Il presente, infatti, è segnato dalla fine delle illusioni e delle fedi (anche di quella nell’armonia e nell’arte), dissipate dalla scienza «novissima / iddia da gli occhi di falco, / scrutatrice ostinata del vero». Il senso di una crisi storica è già vivissimo in Pirandello adolescente: «Mutaro i tempi», egli esclama nella poesia proemiale, da cui è tratta la precedente citazione. Se si è chiusa definitivamente «la serena dei padri età pagana», se non sono più possibili i grandi ideali di un tempo, non resta che cercare di «obliare il mal triste di vivere» e la vanità stessa dell’esistenza (tema leopardiano spesso ricorrente), abbandonandosi nel seno «de la serena / madre Natura», all’eros, alla lezione della Madre Terra, che così esorta gli uomini: «Amate, amate, amate, / né mai, tranne l’amore, altro tesoro / su me grama cercate» [Intermezzo lieto, II]. Voler vedere in questi versi schiettamente carducciani «il primum, la molla portante di tutta la cultura contemporanea, si tratti dell’eros freudiano, o dell’élan vital bergsoniano, o, perché no?, della Firstness, dell’unione immediata e indivisa tra soggetto e oggetto di cui ci parla Charles Sanders Peirce», come scrive Renato Barilli², è una forzatura che non tiene conto del loro concreto contenuto storico, vale a dire del loro significato nel momento in cui furono concepiti e nell’ambito della formazione culturale del loro autore.

² Cfr. Barilli 1986, p. 316.

I presagi del Pirandello maggiore, che non mancano neppure in questa prima raccolta, andranno cercati altrove. Essi vanno intanto individuati nel nesso che sin da ora stringe in unità temi diversi, ogni volta che entra in gioco il motivo della relatività della conoscenza, della fine dell’antropocentrismo, della polemica contro chi – a partire dai poeti lirici – non ne tira tutte le conseguenze, della provocazione nei confronti di un pubblico che preferisce adagiarsi ipocritamente nelle vecchie credenze. La «novissima / iddia da gli occhi di falco» ha rivelato la miseria del nostro pianeta («questa sciocca enorme trottola / che ci porta in su’l groppone») e di tutte le stelle del cosmo che invece i poeti continuano a cantare: «Ora, voi parete, o Stelle / splendienti costà sù, / ne la notte, tanto belle, / che non v’è cane qua giù, // che non v’abbia insieme a molti / grandi e piccoli poeti, / in latrati, o in versi sciolti, / inni sciolto or tristi or lieti...» [Allegre, IV]. Altrove, la polemica carducciana contro il poeta romantico acchiappanuvole assume un tono quasi precrepuscolare quando l’autore si autorappresenta ironicamente come un venditore di nuvole raccomandandone l’acquisto «ai sognatori, / ai mille illusi; // ed agli uomini onesti ed ai poeti, / specialmente: Potranno su le nuvole / vivere gli uni onestamente, e gli altri / di poesia» [Allegre, I]. E più avanti: «Ogni vaso mi pare un cervellino / di moderno botanico poeta, / che levi dal suo fango un inno fino / tra il cessin le pillaccole e la creta [...] Spesso, di notte, lumaconi ignudi / quei metallici fiori, che son rime, / infestano [...] Oh dei terrazzi sciocca primavera, / sciocca di nuove rime fioritura!» [Allegre, XIII]. Forse è un rovesciamento volutamente ironico anche questo calco leopardiano: «La notte è buja, e senza vento» [Intermezzo lieto, VI]. Insomma, già incontriamo qui un primo embrione di quella polemica contro l’illusione antropocentrica di una qualche correspondance fra uomo e natura e dunque contro la poesia romantica e simbolista che avrà lunga storia nell’arte futura di Pirandello, già a partire dal Fu Mattia Pascal. E altrettanto si deve dire del modo con cui l’autore si rivolge al proprio pubblico, rifiutando la consueta maschera offerta dal ruolo consolatorio e gratificante dell’arte e assumendo invece un piglio demistificante, che vuole insieme provocare e persuadere:

– Buona gente, fermatevi un istante

sotto la mia finestra, e udite, udite:

Ho perduto tra voi, come si perde

una berretta o una parrucca, il mio

cervello e de la vita il vero scopo.

Ora, a voi: Getto quanto mi rimane

in sen d’affetti: amore, odî, speranze,

desiderî, virtù, vizî, ogni cosa,

e il vile ossequio che prestai per tanto

tempo a le vostre leggi! A voi: Dal viso

la maschera, or compunta ora gioviale,

mi strappo – e ve l’avvento. [...]

Tutto, tutto vi getto, onesta gente;

ma i miei pensieri no – sarebber pioggia

di ciottoli roventi su di voi [Triste, VIII].

Il rapporto polemico io/voi e l’atto di strapparsi la maschera anticipano un costante atteggiamento di Pirandello novelliere e romanziere (dal Fu Mattia Pascal a Uno, nessuno e centomila). E la provocazione si accompagna talora a una smorfia sardonica, a una sorta di riso nero, come in Triste, III: «e ti darò alla terra, o carne mia, / perché rinasca in fungo velenoso». L’eco scapigliata è inconfondibile; ma l’attacco al «rispetto sociale», la tendenza a «stracciare» convenzioni e «leggi» (come si legge in Momentanee, IV), l’appello al lettore e l’esigenza di incalzarlo con ragionamenti continui vanno visti in una linea di continuità con la produzione pirandelliana dopo la svolta del nuovo secolo.

E ancora: in una poesia (Triste, II) già viene squadernata davanti agli occhi del lettore la varietà curiosa e paradossale dei casi della vita. È uno «strano spettacolo» in cui l’esistenza si presenta frantumata, suddivisibile in infiniti esempi particolari, tutti diversi e tutti nondimeno accomunati dalla pietà dello sguardo che li enumera e li schiera in umoristica rassegna e insieme dal ghigno impietoso e beffardo di chi riflette sul cattivo e insensato accozzamento che ne esce:

Ecco la folla. – Chierici e beoni,

giovani e vecchi, femine ed ostieri,

soldati, rivenduglioli, accattoni,

voi nati d’ozio e di lascivia, serî

uomini no, ma pance, lieti amanti,

bottegaj, vetturini, gazzettieri,

voi vagheggini, anzi stoffe ambulanti,

donne vendute da l’inceder franco,

goffe nutrici, e voi dame eleganti,

quale strano spettacolo a lo stanco

di rimirar, non sazio, occhio offerite

così male accozzate in largo branco.

Oh vïaggio curioso de le vite

sciocche d’innumerabili mortali!

Oh per le vie de la città spedite,

che retata di drammi originali!...

Anche qui, il verso conclusivo sembra anticipare i modi crepuscolari; ma gioverà ancor più osservare che il quadro della commedia umana così raffigurato prelude piuttosto a quello che emerge dalle pagine di Novelle per un anno. Fra l’altro, in questa rappresentazione della folla cittadina di Roma, anche il linguaggio si fa meno letterario e scolastico, più incisivo e realistico, più ricco di umori, d’intenzioni, di sprezzature, rispetto a quello delle altre poesie della stessa raccolta o della successiva Pasqua di Gea. Qui troviamo «beoni», «ostieri», «rivenduglioli», «pance», «vagheggini». Altrove, invece, le colombe sono «nunzie d’amore», gli uomini i «mortali», le spalle «omeri», l’aria primaverile è «aura molle», la primavera una «dea giovinetta», l’uccello «augello» (anzi, «augel»), il sole «algido» se invernale e «occiduo» se tramontante, Roma l’«Urbe divina», il grembo del-
l’Armonia «divo», mentre la coppia aggettivo + sostantivo o sostantivo + aggettivo presenta stereotipi come «silenzi arcani», «vergini achee», «alta quiete», «divino Eliso». Insomma, il programma di evitare «le vecchie / parole sconciate dall’uso», per quanto largamente inattuato, raggiunge qualche primo, incerto risultato anche in Mal giocondo.

Dei temi offerti dalla prima raccolta, Pasqua di Gea (1891) sviluppa quello pagano e vitalistico (l’assunto è dichiarato all’inizio: «di Gea, unica Dea, [...] la Primavera io canto»), in polemica contrapposizione con la fede cristiana, «cui fu virtù negare / quanto ha di ben la vita» e «per cui tutto è peccato» [V]. Contro Cristo che invoca «il regno de la morte», il poeta intende cantare «la viva voce de la risorta Terra / [...] la voce dell’amore, / la formidabil voce / de l’universa vita» (ivi). Il timbro è fortemente carducciano, anche se non si può escludere un’influenza di Nietzsche nella polemica anticristiana. D’altronde, questo poemetto in settenari fu concepito a Bonn ed è dedicato alla ragazza tedesca amata in questa città, Jenny Schulz-Lander, cui qui il poeta si rivolge per un’esortazione alla vita e all’amore: «Lascia il rosario e il velo / e il libro de la prece».

Nonostante il piglio entusiastico e l’impegno parenetico in favore di un eros pagano, non mancano tuttavia accenti tristi, sapore di morte, senso dell’inutilità della vita. L’autore stesso sembra sospettare che l’ideale così ore rotundo cantato è un’illusione come un’altra, e alla ragazza amata può dichiarare: «In questa pena lunga / di giungerti è la vita; / sarà tosto finita, / come, o ben mio, t’avrò. / Tu, che sì bella sei, / larva dei sogni miei, / tu sei, forse, la morte». Giustamente Willi Hirdt³ parla di «malinconico epicureismo» ispirato dalle canzoni di Lorenzo de’ Medici e definisce il libro «come appello ad un sensualismo legato indissolubilmente ad un relativismo agnostico, come proposta di compensare una ricerca senza frutto con la lieta morale del carpe diem».

³ Cfr. Hirdt 1981, p. 81.

I distici di Elegie renane (1895) e della traduzione delle Elegie romane di Goethe (1896) nascono dalla stessa radice. L’unità metrica vuole sottolineare un’unità tematica. Come Goethe, viaggiando da Nord a Sud, aveva incontrato la felicità e un momento di forte adesione alla vita e all’amore a Roma, così Pirandello, ripetendo il viaggio in senso opposto, avrebbe avuto un’analoga esperienza a Bonn. Tuttavia, con molta probabilità, il parallelismo vuole sottolineare anche le differenze, in effetti assai marcate: il giovane siciliano rimpiange in realtà le sue spiagge mediterranee e non sembra amare particolarmente la «boreal nebbia» che con la «sua grigia notte» coprì i «caldi amori» con Jenny (così nel sonetto a Ugo Fleres premesso alla traduzione); e questi ultimi, comunque, non sono privi d’angosciosi sensi di colpa, coi prevedibili esiti depressivi («Perenne la nebbia, perenne qui regna. / Pena lunga, sperare; meglio acchetarsi a lei, // a lei l’anima aprire, distender la grigia sua notte / sui vani affetti, e il sonno ch’ella dorme, dormire» [Elegie renane, VII]). La sanità classica di Goethe è, per Pirandello, un sogno ormai perduto.

Il doppio esercizio – in proprio e come traduttore – sembra aiutare l’autore ad acquisire una maggiore semplicità e una dimensione più narrativa e prosastica, pur nell’ambito di un linguaggio poetico ancora prevalentemente tradizionale, come in questa descrizione di pattinatori sul ghiaccio:

Io seguo sul terso, sfuggevole piano di ghiaccio

la fuga degli accolti pattinatori in festa.

[...]

Volan le coppie amanti, le braccia dinnanzi intrecciate,

e l’aere di risi brevi e di trilli freme.

Taglia la fredda brezza sui labbri il respiro e gli accenti,

ruba le promesse facili a gli amor nuovi.

Oh, ne l’ebbrezza pura de volo, con subiti giri,

tessuti su la neve, semplici idilli! Oh, vago,

ingenuo amor volante con palpito spesso dell’ali

su la squallida neve, contro il morente sole!

Per trovare tracce più profonde di una reale crisi espressiva bisogna attendere Zampogna (1901), un libro diviso fra un’ormai matura vena narrativa (non solo, come è stato ampiamente osservato dalla critica, nel poemetto Padron Dio, ma anche, come vedremo, in altri luoghi) e un’istanza di concentrazione, almeno apparentemente disposta più all’impegno paradigmatico della tradizione lirica che a quello sintagmatico del récit in versi. Su entrambi i versanti è evidente l’influenza di Pascoli, dei Poemetti sul primo, di Myricae sul secondo. Versi come «tutto di foglie tremule tessuto» in Alberi soli (detto di un «cielo» di castagni), titoli come Rondine, Temporale estivo, Luna sul borgo, Vigilia, Ritorno (una poesia non priva di echi di Romagna) e la conclusione stessa di quest’ultimo componimento («Leggevo. Ecco, sul masso il libro aperto. / Il vento passa: sfoglia via di furia / le pagine. L’ha letto... Vanità!») rinviano certamente a Pascoli. E tuttavia questa dipendenza e questa somiglianza non vanno troppo sottolineate (come d’altronde conferma una recensione pirandelliana, assai poco favorevole, a Myricae). Pirandello, anche in questo caso, resta assolutamente estraneo all’assolutizzazione lirica e alla ricerca di correspondances, assolutamente refrattario all’incanto dell’“aura”. Niente pathos della distanza, in lui (e si sa, invece, come Pascoli prediliga il cannocchiale rovesciato, la visione da lontano che distanzi gli oggetti). Si confronti il Temporale di Pirandello con quello di Pascoli. Alla concentrazione di quest’ultimo, che punta sull’evocazione di un’“aura” di mistero e quasi d’incantamento («Un bubbolio lontano...»), si contrappone, in Pirandello, l’assai più prosastico «Burbero un nuvolon brontola ancora», in cui l’aggettivo introduce un commento esplicito dell’autore che, con la sua intrusione, non lascia spazio ad alcuna suggestione di vaghezza o d’ignoto e spezza qualsiasi possibilità d’unione indistinta fra il soggetto e il cosmo.

Anche la comparsa degli animali assume in Pirandello una funzione diversa. Essi non alludono a una condizione creaturale che mantiene una sua fascinosa sacralità, non sono simboli di una modalità dell’essere, come in Pascoli, ma servono a dimostrare una comune situazione degradata accomunante uomini e bestie (cosicché l’uso che se ne fa è, semmai, allegorico), come in L’intrusa, oppure introducono una nota di umoristico relativismo, come in Visita, dove il punto di vista del grillo è colto nella sua differenza rispetto a quello degli uomini e semplicemente giustapposto a esso, senza una sintesi che faccia intravedere una prospettiva superiore capace di dare senso a entrambi:

Nascere grilli è pure qualche cosa...

– Compagni miei, sotto le stelle, qui

state a cantar d’un tono, senza posa;

io vo a veder che sia quel lume lì,

chi sa per caso vi facesse giorno.

In quattro salti vado e fo ritorno.

C’era... non so che vidi: uno scompiglio:

grida, fracasso, seggiole per terra.

– È là – gridavan; – Qua, fermi, lo piglio! –

S’infranse il lume e, nel bujo, una guerra...

– Zitti! Accendete! È svenuta la sposa! –

Nascere grilli è pure qualche cosa...

Questo componimento è interessante anche per l’uso del dialogato, che introduce una vicenda narrativa. Succede così, in proporzioni molto più vaste, nel già citato L’intrusa. Ovviamente, il dialogato è una caratteristica anche dei Poemetti pascoliani (che Pirandello conosceva nell’edizione del 1897), ma in questi non manca una sacralità arcaico-rurale (coerente con una mitizzazione della natura assente, invece, nello scrittore siciliano), cosicché non vi si dà una reale interdiscorsività e, pur aprendosi a importanti innovazioni dialettali, essi mantengono, nella sostanza, la lingua monologica e simbolica della tradizione poetica. In Pirandello, invece, l’abbassamento pietosamente umoristico introduce una pluralità di punti di vista (quello umano del villano che conduce la capra alla monta, quello della capra smarrita nel gregge estraneo, quello delle altre capre ostili all’intrusa), cosicché il dialogato fa parte integrante della struttura stessa del testo, intrinsecamente polifonica.

Va osservato, inoltre, che il dialogato esprime un procedimento mimetico proprio della narrativa piuttosto che della poesia. L’intrusa e, più ancora, Padron Dio sono già composizioni in versi di novelle. Non per nulla la seconda fu redatta e pubblicata, contemporaneamente, nel 1898, sia in versi che in prosa. E infatti siamo in anni in cui l’interesse per la narrativa stava cominciando a diventare predominante in Pirandello, che aveva già scritto i romanzi L’esclusa e Il turno e la prima raccolta di novelle Amori senza amore e stava per pubblicare la seconda (Beffe della morte e della vita, I), che uscirà l’anno successivo alla stampa di Zampogna. È abbastanza naturale, dunque, che questa vocazione prosastica e narrativa tendesse a travasarsi nella poesia attraverso la forma del poemetto, in cui Pirandello si era cimentato, d’altronde, già nelle sue prime esperienze poetiche, e non solo nei libri di poesie pubblicati (ne restano fuori, per esempio, Pier Gudrò, del 1894, e, parzialmente, Belfagor; seguiranno, diversi anni dopo, Laòmache e, nel 1909, dedicato già al teatro, Scamandro).

Padron Dio documenta il populismo pirandelliano, l’attenzione dell’autore alle differenze sociali e il suo atteggiamento di pietà e di commozione di fronte alla miseria. Letto, come è necessario, insieme a un altro componimento poetico, di analogo contenuto, non compreso in volume e ora raccolto in Poesie varie (sempre in SPSV), L’invito (che, d’altronde, gli è quasi contemporaneo: fu pubblicato sul «Marzocco» il 29 novembre 1896), esso rivela la predisposizione di Pirandello, del tutto coerente col suo astratto ribellismo, a riconoscere e a denunciare le ingiustizie sociali, ma anche la sua tendenza a risolverla, nella pratica, in un atteggiamento di rassegnazione o d’impotenza, giustificato in nome dell’insensatezza, per così dire ontologica, della condizione umana in quanto tale. Alla fine di Padron Dio, la sconfitta del vecchio Giudè, che ha tentato di seminare in proprio del grano e che si vede privato del frutto del proprio lavoro, è sottolineata dal doloroso «compatimento» delle spighe mosse dal vento; in L’invito, la contrapposizione fra il tenore di vita agiato dello scrittore e quello di un disoccupato è posto crudamente in rilievo (accompagnata com’è, anche qui, dalla concezione di una sorta di esproprio perpetuato dai ricchi nei confronti dei poveri e dall’idea di un parassitismo sociale degli abbienti e, fra questi, degli intellettuali in particolare: «Non vien da me, dal mio lavoro, questa / ricchezza che tu vedi. Il mio lavoro / senza compenso e quasi ignoto resta»), ma la conclusione indica una significativa suddivisione dei compiti e una differenza di coscienza: i «tormenti veri» [corsivo nostro] all’artista, la lotta – strumento praticamente necessario ma, ontologicamente, cieco – ai diseredati:

E a te riscalda l’anima una fede,

ch’io non discuterò. Vivo lontano

io d’ogni fede e d’ogni lotta. Vede

l’anima mia forse tropp’oltre? In vano

così l’una che l’altra alfin sarà...

Ma tu lotta, n’hai dritto; avrai dimane

meno squallida casa e miglior pane...

Sarai pago? Oh no, mai! Ma non avrà

pace né tregua l’anima dell’uomo.

La lotta è oblio de’ suoi tormenti veri.

Con Fuori di chiave (1912) siamo già oltre lo sperimentalismo di Zampogna. È il libro più notevole e maturo di Pirandello poeta; anzi, è proprio tale consapevolezza a indurre l’autore ad abbandonare la poesia. Il programma umoristico è qui applicato nei confronti del genere stesso della poesia. Ne conseguono il rovesciamento e lo stravolgimento dello statuto lirico, realizzati attraverso una sorta di autocontestazione interna della poesia stessa. Il linguaggio poetico, col suo peso di tradizione monologica e simbolica, si rivela così, nella pratica di Pirandello poeta, estraneo alla sua nuova poetica, e deve essere lasciato alle spalle. La prosasticità estrema, il tono ininterrottamente gnomico e riflessivo, il lessico uniformemente quotidiano esigono ormai la misura della narrativa o del teatro. La metrica è, in quest’ultima raccolta ancor più che nelle altre, una veste del tutto esteriore. Solo la rima e l’isometria sillabica e tonale distinguono versi come questi dalla prosa: «andar dove che sia, / nel dubbio della sorte, / andar verso la morte / per un’ignota via: / ecco il destino» [La meta]. D’altronde, la riflessione che vi è svolta è la stessa che compare nei racconti e nei romanzi di questo periodo, e soprattutto nel Fu Mattia Pascal: dalla richiesta di un tendone che impedisca di vedere il cielo (e che rinvia alle pagine del romanzo sullo strappo nel cielo di carta di un teatrino) e dal motivo della terra che non è più «l’ombelico del mondo» (si veda tutto Il pi

Pirandello

L'autore

Romano Luperini

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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Pirandello

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