Sommario

Introduzione

In questo saggio¹ mi sono proposto di ragionare sul rapporto che corre tra la democrazia come ideale e le sue forme di attuazione, di illustrare le ragioni per cui l’ideale è entrato in rotta di collisione con la realtà. La democrazia, sorta come mezzo per porre fine al potere totale o prevalente di monarchi e di gruppi oligarchici, è venuta infatti ad assumere il carattere di un sistema che ha riconsegnato per aspetti cruciali il potere a nuove oligarchie, le quali tengono le leve di decisioni che, mentre influiscono in maniera determinante sulla vita collettiva, sono sottratte a qualsiasi efficace controllo da parte delle istituzioni democratiche. Si tratta sia di quelle oligarchie che, titolari di grandi poteri privi di legittimazione democratica, dominano l’economia globalizzata, hanno nelle loro mani molta parte delle reti di informazione e le pongono al servizio degli interessi propri e dei loro amici politici; sia delle oligarchie di partito che in nome del popolo operano incessantemente per mobilitare e manovrare quest’ultimo secondo i loro intenti; sia dei governi che tendono programmaticamente a indebolire il peso dei parlamenti e l’efficacia dell’azione degli organi giudiziari e soggiacciono all’influenza delle élites del potere finanziario e industriale, diventandone in molti casi i diretti portavoce e gli strumenti. Sono, insomma, quelle forze che, esercitando una prevalente influenza politica, rendono decisamente inadeguati e bisognosi di essere rivisitati la tabella dei poteri indicata nel XVIII secolo da Montesquieu e i meccanismi da lui auspicati per impedire la prevaricazione reciproca e far sì che «il potere freni il potere». La democrazia, nata per consentire a tutti i cittadini di essere partecipi delle decisioni di chi esercita il potere, o quanto meno di influire su di esse in maniera non soltanto esteriore, ha prodotto un sistema in cui in effetti la cosiddetta sovranità popolare – intesa, al di fuori di ogni concezione radicale, quale possibilità dei cittadini di esprimere la propria «voce» mediante una opinione pubblica criticamente e autonomamente informata, un voto conseguentemente consapevole e scelte dei candidati alle cariche pubbliche non imposte dall’alto dai professionisti della politica e dalle lobby a questi legate – si trova ad essere profondamente mortificata e largamente svuotata. E il tutto nel contesto di una incessante, assordante «ritualità democratica» e santificazione ideologica della democrazia, alimentata dal fatto che mai come nell’era presente si sono dati nel mondo tanti Stati retti da regimi che si proclamano liberaldemocratici.

1 L’impianto analitico e concettuale del presente scritto ha le sue radici in un discorso tenuto il 6 dicembre 2004 per l’inaugurazione dell’anno accademico 2004-2005 dell’Accademia delle Scienze di Torino dal titolo Riflessioni sulla crisi dei sistemi democratici.

Quando oggi parliamo di democrazia, usiamo un termine che è sinonimo di liberaldemocrazia o democrazia liberale. Infatti la democrazia diretta dell’Atene del V secolo a.C. e quella a cui in tempi moderni si è tentato di dar vita prima nell’effimera Comune di Parigi del 1871 e poi nella Russia bolscevica tra il 1918 e l’inizio degli anni ’20 non sono modelli ed esperienze attivi nella nostra società: l’una perché espressione di una realtà troppo arcaica, l’altra non foss’altro perché soffocata dalle sue contraddizioni interne e da quelle stesse forze che, dopo averla proposta e agitata come modello universale, hanno rapidamente costruito una dittatura di partito sfociata nel totalitarismo. La democrazia di cui parliamo e a cui facciamo riferimento è dunque il sistema politico e istituzionale che si è formato dal connubio con il liberalismo: un connubio non facile e segnato da molte tensioni, su cui mi sono soffermato analizzando tre tipi di regimi. Il primo è il sistema liberale a suffragio ristretto e basato sui partiti, sui parlamenti e sul governo dei notabili di matrice aristocratica e borghese. Il secondo – il primo regime liberaldemocratico – è caratterizzato dal suffragio allargato o universale, dall’avvento sulla scena pubblica dei partiti organizzati di massa, dal dispiegarsi di acuti conflitti sociali e ideologici tra le classi e le loro rappresentanze politiche e parlamentari. Il terzo – il secondo regime liberaldemocratico – è segnato, nel quadro dell’indebolimento e per aspetti importanti dalla scomparsa della sovranità degli Stati, dallo strapotere di oligarchie dominanti della finanza e dell’industria a livello internazionale, dal venir meno delle precedenti antitesi di classe e ideologiche, dalla trasformazione dei grandi partiti di massa organizzati sul territorio in «partiti leggeri» che si mobilitano essenzialmente in vista delle tornate elettorali e non poggiano più su quadri intermedi e gruppi di militanti sempre attivi e distribuiti capillarmente nel territorio, dalla formazione di una opinione pubblica inerte, forgiata prioritariamente dai mezzi di informazione di massa. Si tratta non già di un sistema in cui i cittadini costituiscono le primarie cellule viventi di regimi dotati di una sostanziale natura democratica, bensì di un sistema in cui i governi ricevono una sorta di passiva incoronazione dal basso, sono «governi a legittimazione popolare passiva».

Constatata la crisi strutturale della democrazia, chi scrive si è posto in conclusione l’interrogativo se sia dato o meno credere nella possibilità di un suo rilancio, diciamo pure di una sua rinascita all’altezza dei problemi di un mondo in continua trasformazione con ritmi che non hanno precedenti nella storia. L’autore lo spera, ma non si azzarda a dare una risposta. Occorre nondimeno cercare di stabilire qualche punto fermo, qualche parametro. Tre paiono i presupposti principali di questa rinascita: 1) la capacità delle autorità politiche dei singoli Stati e degli organismi internazionali di porre sotto controllo le oligarchie economiche, in modo da togliere loro il potere di agire pressoché indisturbate nel perseguire i propri interessi particolari e da impedire il ripetersi di crisi catastrofiche come quella scoppiata nell’autunno del 2008; 2) la sottrazione ai potentati della finanza e dell’industria di un dominio sui mass media che vanifica la possibilità stessa di una opinione pubblica informata in maniera veritiera e realmente pluralistica, e il conferimento del dovuto spazio anzitutto alle minoranze quotidianamente minacciate di essere ridotte al silenzio o all’irrilevanza; 3) un’energica azione volta a combattere l’eccesso di disuguaglianze economiche che rendono una parola vuota la solidarietà, minano la coesione sociale e pongono i non tutelati, i poveri, gli emarginati in una posizione che non è di cittadini ma, agli estremi, di veri e propri paria di nuova generazione. Il che vuol dire il ritorno alle politiche di protezione e potenziamento dei «diritti sociali» e delle istituzioni del welfare che nell’ultimo trentennio il neoconservatorismo liberistico ha frontalmente combattuto e il cui ambito e la cui incidenza sono stati fortemente ridotti. Insomma, una robusta combinazione di elementi tale da dare alla democrazia un volto insieme liberale e sociale.

Le ultime considerazioni di questo saggio sono dedicate all’elezione a presidente degli Stati Uniti di Barack Hussein Obama, la cui importanza storica è subito risultata grandissima. Non solo perché egli ha posto fine ad un’amministrazione, come quella di Bush Jr., che in America ha innalzato al trono la plutocrazia; perché ha denunciato vigorosamente le responsabilità dei signori della finanza e dell’industria nella peggiore crisi economica e sociale che ha colpito il pianeta dopo quella scoppiata nel 1929 e ne ha bollato l’insaziabile avidità; perché ha promesso incisive riforme a protezione degli strati più deboli ad opera di un governo federale deciso a regolare i rapporti tra le parti sociali del paese. Ma anche perché ha messo all’ordine del giorno nazionale e internazionale problemi che investono direttamente le procedure istituzionali e politiche dei sistemi liberaldemocratici. Obama ha lanciato nel primo paese che si è dato istituzioni liberaldemocratiche una sfida che attiene direttamente ai modi di essere e di funzionare della vacillante democrazia contemporanea. Per indicare quale e quanta sia la strada che il presidente deve percorrere e i problemi tanto importanti quanto difficili che egli si trova ad affrontare, non trovo nulla di meglio che ricorrere a quanto scritto da John Rawls, il grande studioso scomparso nel 2002: «Tutte le presunte democrazie liberali esistenti sono altamente imperfette e sono ben lontane da ciò che sembrerebbe richiedere la giustizia democratica. Per esempio, indico qui cinque riforme di cui c’è bisogno negli Stati Uniti: la riforma del finanziamento delle campagne elettorali al fine di superare il sistema presente, nel quale il denaro compra l’accesso al potere; l’equa eguaglianza delle opportunità d’accesso all’istruzione; qualche forma di assistenza sanitaria gratuita per tutti; alcune forme di lavoro garantito e socialmente utile; e giustizia eguale ed eguaglianza per le donne. Queste riforme mitigherebbero, o addirittura eliminerebbero gli aspetti peggiori della discriminazione e del razzismo». Ciò detto, Rawls aggiunge che si potrebbe allungare la «lista delle riforme essenziali, la cui importanza è parimenti innegabile»². Non sarà certo sfuggita nel passo sopra citato l’importanza cruciale dell’affermazione che, tra le grandi riforme di cui necessitano gli Stati Uniti, vi è quella rivolta a cambiare un meccanismo elettorale che consente al denaro di comprare il potere. Che in America la democrazia sia un sistema in cui ciò può avvenire e avviene dice davvero molto sulle minacce che gravano su di essa e che la inquinano.

2 J. Rawls, Lezioni di filosofia della storia, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 14-15.

Le riforme indicate da Rawls riguardano, in una forma o nell’altra, con un peso minore o maggiore a seconda delle specificità storiche, istituzionali, sociali e culturali, tutti i paesi che ergono la democrazia a loro supremo valore politico: un valore che richiede di essere coltivato e difeso con misure concrete al fine di impedire che esso abbia a deteriorarsi irrimediabilmente e che abbia a diventare incolmabile il divario tra la democrazia ideale e quella reale. Certo, come ha notato Giovanni Sartori, «chi oggi governa senza democrazia gioca senza legittimità»; sennonché «anche il gioco democratico può essere giocato male», per cui si impone la domanda: «saprà la democrazia resistere alla democrazia?». La sua risposta è: «a patto di giocare con più intelligenza e soprattutto con più responsabilità di quanta io oggi ne veda in giro»³. Sono passati da quando egli scriveva queste parole quasi vent’anni, durante i quali i sistemi liberaldemocratici hanno subìto un deterioramento tanto profondo da indurre a ritenere che abbiano bisogno di essere letteralmente rigenerati e in primo luogo sottratti ai gruppi ristretti che sono in grado con il denaro di comprare l’accesso al potere, e che con il possesso manipolatore dell’organizzazione e dell’informazione riducono i cittadini a pedine da plasmare e da manovrare.

3 G. Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 1993, p. 328.

Dedico questo libro a Giovanni Sartori, maestro e amico maggiore (pur domandandomi quanto egli possa condividere delle analisi e degli spunti interpretativi in esso contenuti)

Torino, aprile 2009

Capitolo primo. La sacralizzazione della democrazia trionfante

La democrazia è oggi più che mai avvolta in un alone di sacralità. È sacra come un tempo in Europa lo sono state la respublica christiana, la monarchia di diritto divino, la patria o la nazione per i nazionalisti. È assurta, nei paesi i cui regimi ad essa si richiamano, a valore che si impone su tutti gli altri valori politici e sociali. Proclama orgogliosamente la sua incontrastabile superiorità su ogni altro tipo di potere, su ogni forma di dispotismo e autoritarismo, dei quali costituisce l’antitesi positiva. È considerata la sorella della libertà, l’inveramento dell’eguaglianza e il fondamento della dignità dell’uomo e dei suoi inalienabili diritti. Nel connubio con il liberalismo, che è andato gradualmente realizzandosi nel corso del XIX e del XX secolo così da dare luogo alla democrazia liberale o liberaldemocrazia, ha assunto le vesti del sistema che ha finalmente trovato la formula in grado di offrire, mediante le istituzioni rappresentative parlamentari e l’universalizzazione dei diritti politici e civili, la più felice soluzione al problema dei rapporti tra classi dirigenti e popolo, tra individui e collettività. Come, appunto, la respublica christiana e le monarchie di diritto divino asserivano di costituire le formule atte ad assicurare all’intera società un ordine stabile e durevole in cui ad ogni componente erano assegnati un posto e un ruolo a beneficio di tutti e nella pace comune, così oggi la democrazia liberale si presenta animata dalla convinzione di poter costituire essa soltanto lo strumento idoneo a dare autentica attuazione alle stesse grandi finalità, al punto di rappresentare lo stadio conclusivo dell’evoluzione ideologica e politica dell’umanità. Si tratta di quella convinzione a cui, con toni trionfalistici, ha dato espressione nel 1989, l’anno del collasso storico del comunismo, Francis Fukuyama, scrivendo: «Ciò a cui stiamo assistendo non è soltanto la fine della guerra fredda o il tramonto di un particolare periodo della storia, ma la fine della storia in quanto tale: che è dire il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma ultima del governo umano»⁴.

4 F. Fukuyama, The End of History?, in P. O’Meara, H.D. Mehlinger, M. Krain (a cura di), Globalization and the Challenges of a New Century, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2000, p. 162.

Chi all’inizio del XXI secolo volga lo sguardo alle vicende in particolare del XX le vede chiaramente e clamorosamente caratterizzate proprio dal trionfo conseguito dalla liberaldemocrazia nei confronti dei suoi nemici. Mai prima d’ora era avvenuto infatti – è una osservazione corrente – che tanti Stati del mondo fossero retti da regimi i quali si definiscono democratici e che i valori democratici fossero in essi così poco contestati: non sembra un’esagerazione dire che stiamo vivendo in una sorta di vero e proprio conformismo democratico (prodotto o variante della sacralizzazione della democrazia). La democrazia viene dunque senza mezzi termini assimilata al «bene».

Appare in proposito quanto mai significativo che tutte le grandi guerre condotte a partire dalla seconda metà dell’Ottocento dai governi dei paesi di più antica tradizione liberale e democratica, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, siano state combattute in nome della democrazia e della libertà. Così la prima di esse, la guerra del Nord democratico contro il Sud oligarchico e schiavistico negli Stati Uniti tra il 1861 e il 1865; così la guerra di Gran Bretagna, Francia (pur a fianco della Russia zarista) e Stati Uniti contro gli imperi autoritari burocratici e militari di Germania e Austria-Ungheria, alleati con l’impero ottomano, tra il 1914 e il 1918; così la seconda guerra di Gran Bretagna e Stati Uniti (pur alleati con la Russia totalitaria di Stalin) contro la Germania nazista, l’Italia fascista e il Giappone imperiale tra il 1939 e il 1945; così la «guerra fredda» che oppose l’Occidente agli Stati comunisti dal 1947 (intercalata da guerre caldissime come la guerra di Corea e quelle del Vietnam); così le più recenti guerre mosse dagli Stati Uniti e i loro alleati contro l’Iraq di Saddam Hussein, l’Afghanistan dei talebani e i movimenti integralistici e terroristici islamici. Nel Novecento le potenze che hanno inalberato il vessillo della democrazia e della libertà hanno sconfitto in successione, con le armi del confronto direttamente militare o con quelle del confronto-scontro tra sistemi politici e sociali in opposizione, gli imperi centrali, le potenze fasciste, il Giappone militarista, l’impero sovietico, e ora sono impegnate nel cercare di debellare le minacce costituite dall’integralismo islamico, da «Stati canaglia» e da altri nemici reali o potenziali. Robert A. Dahl ha in proposito così ben sintetizzato: «Nella seconda metà del XX secolo il mondo ha sperimentato un mutamento politico straordinario e senza precedenti. Tutte le principali alternative alla democrazia sono scomparse, si sono trasformate in forme eccentriche e residuali o si sono asserragliate nelle loro ultime roccaforti»⁵. Dal canto suo Samuel P. Huntington ha sottolineato l’enorme importanza e significato della grande «ondata di democratizzazione» (la terza, secondo il suo schema, dopo quelle del 1828-1926 e del 1943-1962) che ha avuto inizio nel 1974 con la caduta del regime autoritario in Portogallo e ha conosciuto il suo clamoroso epilogo con il crollo dei regimi comunisti nell’Est europeo e nell’Unione Sovietica; ondata che ha rappresentato plausibilmente il «più importante sviluppo politico globale della fine del ventesimo secolo»⁶.

5 R.A. Dahl, Sulla democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 3.

6 S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, il Mulino, Bologna 1995, p. 21.

Proprio mentre conosce i suoi maggiori trionfi, la democrazia, sotto la cappa della sua glorificata ideologia, appare però tutt’altro che in buona salute, poiché nella realtà dei fatti e dei suoi concreti meccanismi di funzionamento, troppi dei suoi presupposti essenziali appaiono profondamente scossi da processi di natura insieme politica, sociale ed economica, sia all’interno dei singoli Stati sia a livello internazionale. Sicché il problema di una democrazia trionfante che al tempo stesso appare ed è profondamente usurata, diciamo pure degradata, è un tema che soltanto chi si appaga del discorso retorico può ancora eludere.

La democrazia è insieme un ideale e una realtà, e capita ad essa in quanto ideale – come a tutti gli ideali – di subire nel suo tradursi in realtà molteplici condizionamenti e adattamenti, pagando il prezzo di tutta una serie di inevitabili limitazioni e deformazioni. Non si può certo pensare che, se non mantiene tutte le sue promesse, allora la democrazia diventi altro da sé. D’altra parte, occorre riconoscere che, se e quando viene meno ai suoi principali fondamenti e non persegue più i fini che le danno significato, subisce allora un mutamento qualitativo che la porta a sopravvivere come mera ideologia, ingannevole coscienza, discorso pubblico retorico privo di sostanza ma strumento efficace nelle mani di chi è in grado di manipolare quelle masse popolari pur sempre titolari, secondo la dottrina che la legittima, della sovranità. La questione su cui occorre incentrare la riflessione è in quale misura le società occidentali che della democrazia si fanno paladine continuino a potersi definire propriamente democratiche, partendo dall’assunto secondo il quale, se a queste società non si può chiedere di essere tutto ciò che l’ideale che le sorregge comporta, si può e si deve chiedere loro di rimanere fedeli almeno al nucleo qualificante di tale ideale.

Capitolo secondo. Democrazia diretta e democrazia rappresentativa: presupposti comuni

Nella sua storia la democrazia ha assunto due diversi volti: quello della democrazia diretta e quello della democrazia indiretta, ovvero rappresentativa. La prima può essere vista come forma radicale, la seconda come forma moderata o attenuata, ma in effetti si tratta, come ben noto, di tipi contrapposti per aspetti sostanziali. La prima è la forma originaria, che ha trovato la sua classica espressione nell’Atene di Pericle del V secolo a.C. ed è altresì detta, sulla scorta del famoso saggio di Benjamin Constant del 1819, «democrazia degli antichi», ancorché sia stata fatta rivivere nel Settecento a livello ideale dal pensiero di Rousseau e a livello sia teorico sia pratico dalla Comune di Parigi del 1871 e dai soviet o «consigli» di matrice comunista, dopo un primo esperimento durante la rivoluzione russa del 1905, tra il 1917 e i primi anni ’20. La seconda è la forma che si è affermata in America e in Europa e poi si è diffusa anche negli altri continenti nei secoli XIX e XX sulla base della commistione con il liberalismo ed è definita «democrazia dei moderni».

Tra la democrazia diretta, che ha una impronta decisamente antiliberale, e la democrazia rappresentativa, che invece ha con il liberalismo un legame organico e vitale, vi sono stati e vi sono, più che tensioni, rapporti di incompatibilità. Ciò nondimeno, entrambe poggiano su un comune denominatore e su una condivisa finalità. Si può convenire che – come hanno insegnato tutti i maestri del pensiero democratico – la democrazia in generale è un sistema politico nel quale: 1) non si dà nel corpo politico e sociale la divisione tra soggetti legittimati a partecipare alle decisioni da cui derivano le leggi che regolano la vita associata e soggetti esclusi; 2) la partecipazione politica si estende a tutti i componenti della cittadinanza; 3) questi devono essere debitamente informati circa la natura delle decisioni all’ordine del giorno, poter esprimere con efficacia il proprio consenso o dissenso ed esercitare il potere ultimo in relazione alla nascita, alla vita e alla caduta dei governi. Occorre insomma in primo luogo che i governati abbiano la possibilità di conoscere i meccanismi, gli orientamenti, i processi che presiedono alle decisioni dei governanti; in secondo luogo che il corpo dei cittadini abbia gli strumenti per influire efficacemente sull’esercizio del potere, controllarlo e cambiarlo; in terzo luogo che la formazione delle élites preposte a esercitare temporaneamente il governo non assuma un carattere chiuso, tale da contraddire il principio che essa debba essere il risultato di una selezione aperta all’insieme dei cittadini. Non a caso si afferma che la sostanza della democrazia è il potere dei cittadini di decidere del proprio destino in modo consapevole e pacifico nel quadro di una «società aperta», nella quale non si dia una distribuzione delle risorse materiali e culturali tale da impedire a qualsiasi cittadino di partecipare alla formazione delle decisioni politiche, come anche di accedere ai massimi livelli del potere. Karl Popper ha scritto che per democrazia non è da intendersi «qualcosa di vago come “il governo del popolo” o “il governo della maggioranza”, ma un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettano il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governanti»⁷.

7 K.R. Popp

Democrazie senza democrazia

L'autore

Massimo L. Salvadori

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

Catalogo

Scuola

Rete commerciale

Info

Democrazie senza democrazia

L'autore

Massimo L. Salvadori

Altre opere

Il Novecento

L'Italia e i suoi tre Stati

Libertà, giustizia, laicità

L'Europa degli americani

Norberto Bobbio tra diritto e politica

Le inquietudini dell'uomo onnipotente

L'occasione socialista nell'era della globalizzazione

La Sinistra nella storia italiana

Potere e libertà nel mondo moderno

La parabola del comunismo

L'utopia caduta

La Newsletter di Laterza

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.