Sommario

Avvertenza Ho consultato il maggior numero di studi possibile su Iacopo da Varazze e la Legenda aurea, ma il mio saggio è soprattutto basato su una lettura diretta del testo latino, per il quale ho seguito l’edizione di Giovanni Paolo Maggioni, 2 volumi, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 1998-1999; Biblioteca Ambrosiana, Milano 2007.

Per le traduzioni ho fatto riferimento all’eccellente traduzione francese di Alain Boureau et al., Jacques de Voragine, La Légende dorée, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 2004, con prefazione di Jacques Le Goff. Ho utilizzato anche due ottime recenti traduzioni italiane, quella di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone (Einaudi, Torino 1995) e quella diretta da Francesco Stella nell’edizione di Giovanni Paolo Maggioni sopra citati.

Introduzione

La Legenda aurea è un’opera straordinaria, sia in se stessa sia per il successo di cui ha goduto. Di questo testo scritto nella seconda metà del secolo XIII, i cui centosettantotto capitoli occupano oltre mille pagine nell’edizione della Pléiade, si sono conservati fino a oggi un migliaio di manoscritti medievali – un numero che pone l’opera di Iacopo da Varazze al secondo posto dopo la Bibbia.

Con la diffusione della stampa, dalla seconda metà del Quattrocento, la Legenda aurea rimane a lungo ai primi posti anche tra i libri stampati. A differenza della maggior parte dei testi medievali che, destinati a un pubblico di chierici e a pochi laici istruiti, continuano a circolare in latino, la Legenda aurea è stata subito tradotta nelle lingue volgari. Relativamente al Medioevo possediamo dieci edizioni in italiano, diciassette in francese, dieci in olandese, diciotto in alto tedesco, sette in basso tedesco, tre in ceco e quattro in inglese, per un totale di sessantanove. Le versioni a stampa sono pure numerose: quarantanove tra 1470 e 1500, ventotto tra 1500 e 1530, solo tredici tra 1531 e 1560. L’ultima traduzione importante è quella in italiano del 1613. Il successo dell’opera dipende anche dal fatto di essere stata scritta e messa in circolazione in questo momento cruciale della storia della scrittura, quando le lingue vernacolari cominciano a fare concorrenza al latino e un numero crescente di laici impara a leggere; nel medesimo periodo si diffonde la pratica della lettura silenziosa, che lentamente sostituisce l’enunciazione ad alta voce, la sola praticata nell’alto Medioevo, e favorisce l’affermazione della lettura individuale a partire dalla metà del secolo XIII. La Legenda aurea beneficia dunque di circostanze storiche eccezionalmente favorevoli, ma, come vedremo, possiede anche le qualità per approfittarne. Non abbandoniamo l’epoca medievale delle traduzioni della Legenda aurea senza segnalarne una delle più celebri, quella che Jean du Vignay, traduttore di fiducia del re di Francia Carlo V, realizzò per l’illustre committente nella seconda metà del Trecento.

Dal 1260, probabile data dell’inizio della redazione del testo, al 1297, anno della sua morte, l’autore, il domenicano Iacopo da Varazze, ha continuato a modificarlo e arricchirlo. A loro volta, i copisti dell’originale latino e i traduttori nelle varie lingue vernacolari sono variamente intervenuti sul testo. Per questo, malgrado le recenti ed eccellenti edizioni realizzate su manoscritti scelti secondo i più avanzati metodi scientifici, e sulle quali ci baseremo, il testo di tutti i manoscritti della Legenda aurea non è stato esplorato fino in fondo, e va pertanto considerato come una realtà ancora dinamica e in evoluzione.

Dopo il trionfale successo riportato per oltre tre secoli, la Legenda aurea è andata incontro a una sorta di eclissi, soprattutto tra la metà del XVII secolo e l’inizio del XX. Il fatto è che, quale che sia l’interpretazione che se ne voglia dare, la Legenda aurea è essenzialmente una raccolta di vite di santi e in quanto tale è stata a lungo – ed è ancora oggi – classificata dagli specialisti come letteratura agiografica. Ora, ad avere sospinto la Legenda aurea nel purgatorio dell’oblio sono proprio i grandi specialisti moderni dell’agiografia, vale a dire i Bollandisti. Questa istituzione di padri gesuiti del XVII secolo che si era data la missione di presentare i santi in chiave più scientifica liberandoli dai fantasmi e dalla credulità medievali rischiò di escludere dagli studi del Medioevo un’opera che, oggi lo sappiamo, rappresenta uno dei capolavori di questa epoca. Padre Baudoin de Gaiffier, basandosi sullo studio di J. Lestocquoy, ha efficacemente spiegato che il giudizio negativo sulla Legenda aurea espresso dai Bollandisti va ricondotto all’erudito spagnolo Juan Luis Vives (1492-1540), esponente dello spirito critico rinascimentale, che aveva definito la Legenda aurea una «leggenda di piombo»¹.

1 B. de Gaiffier, «Légende dorée ou légende de plomb?», in Analecta Bollandiana, LXXXIII (1965), pp. 350-354.

Per cogliere il senso e il valore dell’opera di Iacopo da Varazze occorre innanzitutto sbarazzarsi di un concetto che ha fatto torto non solo alla Legenda aurea, ma a una gran parte della cultura medievale. Perfino un eccellente conoscitore della Legenda aurea come il mio allievo, collega, amico e grande medievista Alain Boureau, considera questa opera una «compilazione»². È noto che tale termine assume dal secolo XVIII una sfumatura peggiorativa, appena un po’ meno del plagio. Nel Medioevo di Iacopo da Varazze, invece, l’idea di compilazione aveva un valore assolutamente positivo. Chi l’ha spiegata meglio di tutti gli altri è Isidoro di Siviglia, sommo intellettuale del secolo VII: «Il compilatore è colui che mescola cose dette da altri con le proprie, come i commercianti di colori che mescolano le diverse sostanze nei mortai. Un certo indovino di Mantova era stato criticato per aver inserito i versi di Omero all’interno dei propri; gli emuli degli antichi lo accusavano di essere un compilatore, ma lui rispose che era necessaria una grande forza per strappare la mazza dalle mani di Ercole»³. Lo stesso Boureau, riportato sulla retta via dalla sua profonda conoscenza della Legenda aurea, finisce per riconoscere che «il compilatore era anche un autore».

2 A. Boureau, La Légende dorée. Le système narratif de Jacques de Voragine (+1298), prefazione di Jacques Le Goff, Cerf, Paris 1984. Jacques de Voragine, La Légende dorée, traduzione, introduzione e note a cura di Alain Boureau et al., prefazione di Jacques Le Goff, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 2004 [d’ora in avanti indicata come Boureau et al., ed. cit.]. La versione italiana delle citazioni è tratta da Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di Alessandro e Lucetta Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995.

3 Citato da B. Ribémont, Le Livre des propriétés des choses, une encyclopédie au XIV^esiècle, Stock/Moyen Âge, Paris 1999, p. 10. Bernard Ribémont aggiunge, giustamente: «Per Isidoro, dunque, il compilatore non è un semplice lettore che copia estratti di sentenze autorizzate; egli è come un alchimista che combina le diverse sostanze, aggiunge i propri elementi catalizzatori al fine di produrre quella che alla fine risulta essere una materia nuova».

In secondo luogo, la Legenda aurea viene abitualmente classificata nella categoria dei leggendari agiografici latini⁴. Ma se la Legenda aurea è effettivamente una raccolta di vite di santi, organizzate all’interno di una trattazione sulla liturgia, le sue caratteristiche vanno ben al di là di quelle di un semplice “leggendario latino”. Senza dubbio l’opera si inscrive nel programma del nuovo, nel secolo XIII, ordine domenicano di inquadrare in modo diverso la presentazione e l’utilizzo delle vite dei santi. Iacopo da Varazze, del resto, non nasconde il suo debito verso due dei suoi predecessori domenicani, Giovanni di Mailly e Bartolomeo da Trento, loro sì autori di un vero leggendario nella prima metà del Duecento.

4 Si veda l’eccellente lavoro di Guy Philippart, Les Légendiers latins et autres manuscrits hagiographiques, Brepols, Turnhout 1977.

Alcuni specialisti hanno visto nella Legenda aurea una sorta di compendio del contributo intellettuale dei domenicani all’apostolato cristiano. Questa lettura, tuttavia, è da respingere perché Iacopo da Varazze, senza volgere le spalle all’attività scolastica del suo ordine, come è stato erroneamente sostenuto, ha voluto lasciare ad altri confratelli questo versante della loro missione intellettuale per consacrarsi a un diverso aspetto, quello dell’apostolato nella sua dimensione più pratica. Per altri studiosi la Legenda aurea va considerata un’autentica enciclopedia. Come ho cercato di dimostrare io stesso, il XIII secolo è davvero un secolo enciclopedico, e vere enciclopedie sono state composte da domenicani quali Tommaso di Cantimpré e Vincenzo di Beauvais, e da francescani come Bartolomeo Angelico; nondimeno Iacopo da Varazze – pur mostrando un certo interesse per il mondo animale e collegando il tempo della Legenda aurea al ritmo delle stagioni, fatto raro nel Medioevo – non include nella sua opera quella grande creazione divina che è necessariamente presente nelle vere enciclopedie, la natura⁵.

5 Si veda L’Enciclopedismo medievale, a cura di Michelangelo Picone, Longo, Ravenna 1994, e in particolare J. Le Goff, «Pourquoi le XIII^e siècle a-t-il été plus particulièrement un siècle d’encyclopédisme?», pp. 23-40.

Ai miei occhi l’opera di Iacopo da Varazze è certo, come ha voluto il suo autore, una summa, ma una summa sul tempo. Lui stesso lo dichiara nella prima riga: «Universum tempus presentis uite in quatuor distinguitur», «la storia di questo nostro mondo si divide in quattro periodi». La grande originalità di Iacopo da Varazze non è solo nel considerare e nell’abbracciare il tempo nella sua totalità, un tema centrale in tutte le civiltà e in tutte le religioni, ma nel giungere alla totalità del tempo combinandone tre dimensioni, che in questo saggio esaminerò in successione: temporale, vale a dire il tempo ciclico della liturgia cristiana; santorale, il tempo lineare scandito dalla successione delle vite dei santi; escatologica, ovvero il cammino dell’umanità cristiana nel tempo fino al giudizio finale. Originale è anche la combinazione di questi tre tempi, così come il ruolo essenziale di indicatori del tempo attribuito ai santi.

In generale, il nostro domenicano vuole mostrare come solo il cristianesimo abbia saputo strutturare e sacralizzare il tempo della vita umana e accompagnare l’umanità verso la salvezza; in effetti, il tempo della Legenda aurea non è un tempo astratto, bensì un tempo umano, voluto da Dio e sacralizzato o santificato, dal cristianesimo. Riprendendo un’espressione di Max Weber, Marcel Gauchet ha intitolato un suo importante libro Il disincanto del mondo. L’impresa di Iacopo da Varazze è l’esatto contrario: sacralizzare il mondo e l’umanità per mezzo del tempo – senza trascurare l’opposizione del Maligno.

Iacopo da Varazze e il suo tempo

Iacopo da Varazze prende il nome dall’omonima cittadina sulla riviera ligure; oggi si ritiene che la sua famiglia fosse originaria di Varazze, ma che egli sia nato a Genova⁶.

6 In queste mie note biografiche seguo soprattutto l’eccellente lavoro di Carla Casagrande nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2004, pp. 92-102. Carla Casagrande riconosce il debito che gli studi su Iacopo devono a Giovanni Monleone, Studio introduttivo all’edizione della Cronica della Città di Genova di Iacopo da Varazze, Istituto storico italiano, Roma 1941.

«Il venerdì 3 giugno di quell’anno, da poco passato il mezzogiorno, mentre il cielo era sereno e chiaro, il sole si oscurò e per un certo tempo calò la notte e nessuno ricordava di aver mai assistito a nulla di simile nel passato, né di una così grande oscurità che si fosse manifestata durante il giorno e che fosse durata tanto a lungo. Innumerevoli persone furono impressionate e terrorizzate dal fenomeno». L’eclissi di sole del 1239, descritta da un anonimo cronista laico di Genova, è il più antico evento autentico al quale fa cenno Iacopo da Varazze nei suoi scritti. È divertente constatare che il più antico riferimento cronologico del nostro domenicano riguarda una meraviglia della natura, quasi che egli fosse predestinato a essere affascinato dal meraviglioso e a non tenere mai a distanza il naturale e il soprannaturale⁷.

7 Nei suoi Otia imperialia, opera di grande successo del XIII secolo, Gervasio di Tilbury distingue con precisione il miracoloso, che non può essere compiuto che da Dio, dal meraviglioso, che, per quanto eccezionale e sorprendente, obbedisce alle leggi della natura; si veda Gervais de Tilbury, Le Livre des merveilles, a cura di Annie Duchesne, Paris 1992 (edizione italiana, Gervasio di Tilbury, Il libro delle meraviglie, a cura di Elisabetta Bartoli, Pacini, Pisa 2010). Iacopo da Varazze non riprende questa distinzione, un dettaglio di cui riparlerò a proposito del meraviglioso nella Legenda aurea.

La vita di Iacopo è ben conosciuta in quanto da un lato egli raggiunse un certo prestigio in un ordine che faceva spesso ricorso allo scritto oltre che alla parola, e dall’altro lui stesso, malgrado la sua umiltà, era assai sensibile alla cronologia, che è una delle espressioni del tempo. Notizie biografiche su di lui sono dunque contenute sia nelle sue opere sia in documenti dell’ordine domenicano sia in una serie di atti notarili risalenti al periodo in cui ricoprì la carica di arcivescovo di Genova (1292-1298). Questo grande specialista di santi non fu canonizzato, ma solo beatificato – una beatificazione tardiva pronunciata da papa Pio VII nel 1816 dietro l’insistenza dei genovesi, rimasti fortemente legati alla memoria di Iacopo da Varazze.

Come avviene di frequente nel Medioevo, dal momento che la tenuta di registri parrocchiali divenne la regola solo nel XVI secolo, ignoriamo la data di nascita di Iacopo da Varazze. È probabile che appartenesse a una famiglia della piccola nobiltà ligure e che sia nato nel 1228 o nel 1229. Il riassunto che fornisco della sua vita comprende soltanto le date sicure riscontrabili all’interno di documenti affidabili. Nel 1244 Iacopo, all’epoca adolescente, entrò come novizio nel convento domenicano fondato a Genova nel 1222. Nel 1267 il capitolo generale di Bologna lo nominò priore della provincia di Lombardia. Si trattava di una posizione di assoluto prestigio, considerata la ricchezza e l’importanza della provincia, che nell’organizzazione dell’ordine includeva l’intera Italia settentrionale, l’Emilia, e il Piceno, lungo la costa adriatica a sud di Ancona. Iacopo da Varazze occupò tale posizione per dieci anni, fino al 1277. Ignoriamo in quale convento domenicano abbia fissato la sua sede, se a Bologna o, più verosimilmente, a Milano. Dal 1281 al 1287 venne richiamato a svolgere il medesimo ruolo dal capitolo provinciale di Bologna. Dal 1283 al 1285 ricoprì la carica di sostituto temporaneo del maestro generale dell’ordine, una posizione per la quale il papa non riusciva a trovare un candidato accettabile dalla maggioranza dei frati. Nel 1288 venne candidato alla sede arcivescovile di Genova, che era vacante, ma si ritrovò al centro di una vivace polemica interna all’ordine. Egli aveva sostenuto la candidatura del nuovo maestro generale Muño de Zamora e, nel mezzo dei violenti contrasti che ne seguirono, addirittura con il ricorso alle armi, fu in due occasioni minacciato di morte, in particolare rischiò di essere gettato da alcuni confratelli nel pozzo del convento domenicano di Ferrara. Quando il vento cambiò, nel 1292, venne finalmente nominato arcivescovo di Genova da papa Niccolò IV. Il papa, però, morì poco dopo, così a consacrarlo a Roma, il 13 aprile 1292, fu un cardinale vicario.

Iacopo da Varazze partecipò attivamente alle lotte politiche di cui Genova fu teatro alla fine del Duecento. La sua azione si esplicò in ambito sia ecclesiastico, con la riorganizzazione legislativa del clero, che civico, dove si sforzò di mediare tra i partiti guelfo e ghibellino. Contribuì in modo decisivo al ristabilimento della pace civile nel 1295, che celebrò guidando un’imponente processione attraverso la città; il vescovo a cavallo avanzò seguito dalla popolazione e, come avveniva nella maggior parte delle città italiane del suo tempo, dai podestà stranieri che avevano sostituito i consoli ai vertici del governo cittadino. Il nuovo podestà di Genova, il milanese Iacopo da Carcano, ricevette dalle mani del vescovo una cintura da cavaliere. Nello stesso anno Iacopo da Varazze si recò a Roma, convocato dal nuovo papa Bonifacio VIII, per mettere le sue doti di mediatore al servizio del ristabilimento dei buoni rapporti tra Genova e Venezia. Il suo tentativo, purtroppo, fallì. Rientrato a Genova non riuscì a impedire la rottura della tregua tra le fazioni cittadine e la ripresa di violenti disordini. Prostrato, le sue inclinazioni poetiche lo portarono ad annotare: «la nostra cetra suona a lutto e il nostro organo piange con l’umana voce dei lamentatori e delle lamentatrici». Le violenze genovesi raggiunsero una tale intensità che venne addirittura incendiata la cattedrale di San Lorenzo. Nel giugno 1296 Iacopo ottenne dal papa fondi per la sua ricostruzione. Dopo aver profuso il massimo impegno nell’esercizio delle sue funzioni e sistemato alcuni problemi economici dell’arcivescovado, Iacopo morì nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1298, a circa settant’anni, un’età veneranda per l’epoca.

Tre aspetti della sua biografia possono contribuire a illuminare il personaggio e la sua opera. In primo luogo, egli è stato fondamentalmente, per non dire visceralmente, un genovese, votato alla causa della città che lo aveva probabilmente visto nascere e lo vedrà morire, il cui clero guidò con fermezza e della quale, alla fine della vita scrisse la storia (Cronica civitatis Ianuensis, ovvero Cronaca della città di Genova). Iacopo da Varazze entrò adolescente tra i domenicani, un ordine recente fondato da san Domenico nel 1216 – il suo proprio convento, lo ricordo, nacque appena sei anni più tardi – di cui egli divenne esponente di spicco a Genova e nell’Italia del nord. Egli non fu un predicatore itinerante, come molti francescani, ma compì comunque diversi viaggi nella cristianità mediterranea e dell’Europa centrale – visitò ad esempio Pecs nel 1273 e Bordeaux nel 1277. Non per questo a mio avviso, e contro l’opinione di altri storici, bisogna vedere in lui un frate attratto in modo esclusivo dallo spazio mediterraneo dei commerci genovesi. Iacopo da Varazze era essenzialmente un uomo di Chiesa, come lo erano soprattutto i domenicani, in particolare nelle città popolose e dinamiche come Genova⁸. Non a caso intorno alla metà del XIII secolo il grande teologo Alberto Magno, lui pure domenicano, tenne una serie di sermoni in latino e in tedesco in cui presentava una sorta di teologia e spiritualità della città secondo le quali le vie strette e oscure sono assimilate all’inferno, mentre le ampie piazze sono paragonate al paradiso. Iacopo da Varazze intendeva servirsi cristianamente dei santi per santificare il tempo e i luoghi, e non esitò a mettere in pratica le idee che andava elaborando in forma scritta nella Legenda aurea, in particolare per mezzo delle traslazioni di reliquie. Nel 1293 organizzò come arcivescovo un concilio provinciale nella cattedrale di San Lorenzo al quale parteciparono sia le autorità ecclesiastiche sia i reggitori e i notabili della città sia gruppi di cittadini in rappresentanza di tutta la popolazione; lo scopo era quello di riconoscere solennemente l’autenticità delle reliquie di san Siro, patrono di Genova. Tra le opere minori di Iacopo da Varazze va in effetti segnalata una Vita di san Siro redatta nel 1283. Tra il 1296 e il 1298 egli scrisse poi una storia della traslazione delle reliquie di san Giovanni Battista a Genova, che avrebbe avuto luogo nel 1099; tra il 1286 e il 1292 aveva già scritto, sempre in latino, una storia delle reliquie conservate nel monastero dei Santi Filippo e Giacomo di Genova, un convento di suore domenicane. Iacopo stesso fu sepolto nella chiesa di San Domenico, nel convento dei domenicani di Genova; alla fine del secolo XVIII la sua salma venne traslata in un’altra chiesa domenicana genovese, Santa Maria di Castello, dove si trova tuttora.

8 Nel suo stimolante studio, Jacopo da Varagine, tra santi e mercanti, Camunia, Milano 1988, Gabriella Airaldi scorge in Iacopo da Varazze i medesimi interessi geopolitici dei mercanti genovesi suoi contemporanei. Io ne sono meno persuaso, in quanto, se egli si è certamente interessato all’idea di una ripresa delle crociate (la Palestina è stata definitivamente persa dai cristiani nel 1293), ritengo che si sia rivolto soprattutto all’umanità nel suo complesso da una parte e ai fedeli della cristianità europea dall’altra.

Il secondo aspetto da sottolineare è il profondo attaccamento che Iacopo da Varazze manifestò sempre al suo ordine, al suo fondatore e ai suoi confratelli. Lo si constata nei suoi resoconti delle vite di san Domenico e del santo cronologicamente più vicino a lui, il frate san Pietro da Verona, predicatore e inquisitore assassinato da sicari inviati da notabili eretici il 12 aprile 1252 sulla strada da Milano a Como e canonizzato come martire nel 1263. Ricordiamo che nella seconda metà del XIII secolo quello domenicano è un ordine nuovo, giovane – come sottolinea la prima Vita ufficiale di san Domenico del XIII secolo – che occupò subito una posizione di primo piano nella vita urbana, sociale, culturale e, ovviamente, religiosa della società cristiana europea. Se, come dichiara la denominazione ufficiale di «ordine dei frati predicatori», la predicazione ha rappresentato il suo strumento principale di edificazione, per santificare la comunità cristiana l’ordine non si è servito solo della parola, ma anche della scrittura, come prova l’opera di Iacopo da Varazze in un secolo in cui l’abitudine alla lettura si diffonde nelle società europee. Mi sembra che Iacopo da Varazze abbia pienamente condiviso questa percezione di novità e non sia stato per nulla un nostalgico. Del passato lo coinvolge solo la dimensione cristiana, l’irruzione e la diffusione della fede in Cristo nella società antica. Questo passato è a sua volta una novità e, per Iacopo da Varazze, una novità salvifica⁹. Ci si immagina spesso i domenicani come degli intellettuali, ma si rischia di cadere in un errore di prospettiva: la maggioranza era costituita da semplici religiosi dediti alla predicazione la cui cultura era commisurata alle necessità della loro missione. Era già così nel XIII secolo. All’interno dell’ordine gli intellettuali, alla cui schiera Iacopo da Varazze senza dubbio appartiene per le sue opere, le sue idee, la sua influenza, rappresentavano una minoranza.

9 La bibliografia su san Domenico e i domenicani nel secolo XIII è assai vasta. Un ottimo punto di partenza è M.-H. Vicaire, o.p., Dominique et ses prêcheurs, Cerf, Paris 1977.

Il suo attaccamento all’ordine è evidenziato anche dalla speciale influenza esercitata dagli autori domenicani sulla sua attività letteraria, e in particolare sulla Legenda aurea. All’inizio del Duecento, un periodo segnato da un rilancio della predicazione soprattutto in contesto urbano, si afferma un nuovo tipo di leggendari, detti “leggendari nuovi” o “leggendari brevi” a causa della scelta di abbreviare le narrazioni delle vite dei santi per non annoiare gli ascoltatori. Prima di Iacopo da Varazze due nuovi leggendari, fonti essenziali della Legenda aurea, erano stati redatti da frati domenicani. Il primo è quello di Giovanni di Mailly, scritto e fatto circolare verso il 1243. Il suo autore era sacerdote nella diocesi di Auxerre e poi, tra il 1240 e il 1250, entrò nel convento domenicano di Metz¹⁰. Il secondo è quello di Bartolomeo da Trento, scritto nel 1245. Il carattere unico della Legenda aurea, che impedisce di assimilarla a un normale leggendario, ha certamente spinto l’ordine domenicano a continuare a mettere in circolazione, dopo la morte di Iacopo da Varazze, nuovi leggendari, il più noto dei quali è opera di Bernardo Gui, morto nel 1331 e più noto come autore di un celebre Manuale dell’inquisitore. Un dato comparativo evidenzia l’eccezionale successo del libro di Iacopo da Varazze: un solo manoscritto del leggendario di Bernardo Gui è giunto fino a noi, contro un migliaio della Legenda aurea.

10 La traduzione francese del leggendario di Giovanni di Mailly è stata pubblicata nel 1947 a cura di A. Dondaine, autore anche di «Le dominicain français Jean de Mailly et la Légende dorée», in Archives d’histoire dominicaine, t. 1, 1946, pp. 53-102.

In terzo luogo, è opportuno valutare ciò che l’opera e il suo autore devono al loro tempo. Per la cristianità europea, e per l’Italia in particolare, è un’epoca di svolta che conduce la società cristiana dal «bel XIII secolo» alle crisi della fine del Duecento e dell’inizio del Trecento. La prima metà del XIII secolo ha visto l’apogeo della cristianità medievale e il compimento degli effetti della cosiddetta riforma gregoriana: quasi indipendenza reciproca della Chiesa e delle istituzioni laiche, riforma della Chiesa, ascesa dei laici, sviluppo delle città, accelerazione degli scambi di beni e di idee, incremento della produzione agricola, dell’allevamento e dell’artigianato urbano, maggiore diffusione dell’educazione con un rafforzamento del ruolo del calcolo, della ragione, della discussione. Come ha dimostrato l’abate Chenu, è allora che la teologia diventa una scienza e, come ha illustrato Alexander Murray nel suo bel libro Ragione e società, in diversi ambiti si afferma la ratio, nella duplice accezione di calcolo e ragione. La società resta profondamente religiosa, ma torna a riconoscere che Dio ha creato l’uomo a sua immagine, e che l’uomo ha il dovere di utilizzare al meglio le qualità e le forze che Dio ha messo a sua disposizione. Si è parlato, con G. Morris e Aron J. Gurevic, di «nascita dell’individuo». Da parte mia, ho cercato di caratterizzare questo importante momento storico parlando di «cielo sulla terra: il cambiamento dei valori dal XII al XIII secolo nell’Occidente cristiano»¹¹. Iacopo da Varazze ha attinto alla ricchezza di questo periodo storico, e la Legenda aurea rappresenta, in un certo senso, un punto d’arrivo dell’evoluzione culturale del suo tempo.

11 J. Le Goff, Héros du Moyen Âge, le saint et le roi, Gallimard, Paris 2004, pp. 1263-1287.

La seconda metà del XIII secolo è anche uno snodo che, dopo una fase di prosperità, annuncia cambiamenti spesso spiacevoli e non di rado violenti – Iacopo da Varazze stesso li ha vissuti, in particolare a Genova. È un tempo di lotte intestine nelle città italiane; della comparsa, intorno al 1280, dei primi scioperi nel mondo dei lavoratori salariati urbani; delle crisi monetarie che trascinano i predecessori dei banchieri alle prime bancarotte; degli ultimi sussulti della lotta contro gli eretici, con episodi come l’omicidio del predicatore domenicano Pietro da Verona, il santo più recente incluso nella Legenda aurea; delle paure apocalittiche della fine del mondo; delle avvisaglie dei conflitti nella Chiesa che sfoceranno nel trasferimento della sede papale ad Avignone. Si può naturalmente sostenere che il lato luminoso della storia medievale offerto dalla Legenda aurea è anche la prefigurazione della grande festa cristiana che sarà il giubileo del 1300. Alain Boureau ha efficacemente ricostruito questo contesto a doppia faccia, in cui convivono festa e tumulto, ordine e disordine, in un ottimo articolo dedicato, propriamente, alla Cronaca della città di Genova di Iacopo da Varazze, ma l’atmosfera che vi evoca vale anche per la Legenda aurea¹².

12 A. Boureau, «Le Prêcheur et les marchands, ordre divin et désordres du siècle dans La Chroniques de Gênes de Jacques de Voragine (1297)», in Médiévales, 4 (1983), pp. 102-122.

I modelli di Iacopo da Varazze

Iacopo da Varazze ha consultato un numero impressionante di testi, tanto che una delle ragioni del suo successo è certamente da ricercare nella pluralità delle sue fonti, a partire dalle quali, tuttavia, egli ha realizzato un lavoro di creazione. La scelta degli autori ai quali si ispira e che a volte copia parola per parola è già un atto creativo, ma soprattutto, dal momento che è raro che il suo testo sia puramente e semplicemente il calco di un autore precedente, il modo con cui adatta le sue letture genera un nuovo testo che va considerato come originale.

Iacopo cita spesso la Bibbia, è ovvio, in particolare quando vi rintraccia racconti coerenti con l’approccio eminentemente narrativo della Legenda aurea. Colpisce, e può apparire sorprendente, che egli attinga a piene mani ai Vangeli apocrifi. Forse è perché contengono più racconti che nei Vangeli canonici? Bisognerebbe però anche spiegare perché il loro carattere apocrifo non gli abbia impedito di usarli nella redazione di un testo concepito come un’opera fondata sulla verità e sulla ricerca della verità. Nulla nella Legenda aurea e in altri suoi lavori, né nella sua attività pastorale, lascia intravedere forme di opposizione, e neppure di presa di distanza, nei confronti del papato custode della corretta dottrina basata sulle sacre scritture canoniche. Roma è, dopo Gerusalemme, la città più frequentemente citata nella Legenda aurea – e questa Roma non è solo la Roma antica e pagana, ma soprattutto la capitale della cristianità. Avanzo l’ipotesi che, in un testo che si prefigge di fondare un tempo cristiano, anche i Vangeli non approvati dalla Chiesa abbiano potuto rappresentare una fonte accettabile. Iacopo da Varazze, che come vedremo non difetta di spirito critico, è guidato soprattutto dalla sua volontà globalizzante. Nella sua ricerca di tutto ciò che può contribuire alla sacralizzazione del tempo, i Vangeli apocrifi gli sono forse sembrati ricchi di informazioni storiche e di racconti edificanti degni di essere inclusi nella sua raccolta.

Al pari della maggioranza degli autori medievali, Iacopo da Varazze esplicita di rado le sue fonti; talvolta, però, il fortissimo desiderio di provare la verità delle sue parole lo induce a citare nel suo santorale e anche nell’insieme della sua opera, i maestri nei quali riconosce degli autorevoli garanti di tale verità. Il cristianesimo è per lui una lunga e ricca stratificazione di valori che sacralizzano il mondo. L’apparente nostalgia del passato che gli è stata spesso rimproverata risponde alla volontà di celebrare le origini e di sottolineare l’azione preziosa dei grandi dottori della Chiesa che hanno ricacciato nelle tenebre antiche il tempo pagano e hanno fondato il nuovo tempo cristiano, di cui la Legenda aurea vuole essere la descrizione e il prolungamento.

Iacopo da Varazze si è dunque appoggiato a un piccolo numero di illustri predecessori. In conformità alla struttura della sua opera e all’orientamento della sua riflessione sul tempo cristiano, tali alti modelli vengono scelti a volte per il loro peso in ambito liturgico e pastorale, a volte come punti di riferimento dottrinale.

Il principale modello ispiratore della Legenda aurea è il maestro di tutta la filosofia cristiana medievale, vale a dire sant’Agostino, che la Chiesa festeggia il 28 agosto, giorno ufficiale della sua morte, data che però Iacopo non indica, poiché il suo libro segue sì un ordine calendariale, ma non è affatto un calendario. Iacopo da Varazze inserisce comunque la vita del santo all’interno del corretto periodo liturgico, l’ultima fase dell’anno cristiano, che lui definisce «tempo della peregrinazione». Alain Boureau ha osservato che egli «dedica ad Agostino un capitolo molto lungo ed accurato»¹³. Da esso riporto alcuni passaggi particolarmente rilevanti: «Agostino ebbe questo nome... per la sua posizione di particolare onore poiché, così come Augusto stava avanti a tutti i re, così Agostino stava avanti a tutti i dottori». Iacopo definisce il santo «sole», e rincara le lodi affermando: «Agostino, splendente faro di sapienza, bastione della verità, fortezza della fede, superò, senza possibilità di paragone, tutti gli altri dottori della Chiesa per scienza e per intelligenza, rigoglioso nell’esempio di virtù e nella profondità del suo insegnamento. Per questa ragione quando Remigio ricorda Gerolamo e alcuni altri dottori, così conclude: Agostino superò tutti questi in intelligenza e scienza»¹⁴. Oltre che dalla forza dottrinale di Agostino, Iacopo è certamente attratto dal valore e dalla qualità dei numerosi inserti narrativi inclusi nelle Confessioni¹⁵.

13 Boureau et al., ed. cit., p. 1357.

14 Si veda anche E. Colledge, «James of Voragine’s Legenda sancti Augustini and its Sources», in Augustiniana, XXXV (1985) pp. 281-314.

15 Gaston Duchet-Suchaux, Michel Pastoureau, La Bible et les saints, guide iconographique, Flammarion, Paris 1990, p. 51.

Il secondo grande modello ispiratore di Iacopo da Varazze è sant’Ambrogio. Curiosamente, il più sentito elogio di Ambrogio è la citazione di un passo di Agostino dove il vescovo di Ippona sostiene che sant’Ambrogio risplende come il fiore più bello tra gli scrittori latini nei cui libri rifulge la fede cristiana. In sant’Ambrogio il domenicano vide il pastore della Chiesa in grado di opporsi al potere laico, perfino se imperiale, pur riconoscendo la legittimità del potere temporale; il fatto che Iacopo sia intervenuto a modificare il racconto della vita di Ambrogio dopo essere stato nominato arcivescovo di Genova fa pensare che gli fosse particolarmente cara la figura esemplare di un vescovo che si confronta con il potere civile. Un altro aspetto al quale Iacopo era di certo sensibile è il lavoro di Ambrogio sul fronte della stabilizzazione della liturgia in una fase in cui la liturgia romana non si era ancora imposta in tutta la cristianità. Infine, egli sottolinea il talento di Ambrogio come autore di inni coinvolgenti, un’osservazione che conferma una forte consapevolezza del ruolo della musica sacra. Degno di nota è il fatto che nella Legenda aurea lo spazio dedicato alla vita di sant’Ambrogio è ben più lungo di quello consacratole dai leggendari di Giovanni di Mailly e Bartolomeo da Trento.

Il terzo personaggio fondamentale tra i fondatori della spiritualità e della cultura cristiane è inevitabilmente san Gerolamo, che agli occhi di Iacopo da Varazze assurge ad autentico creatore della liturgia ecclesiastica. Il capitolo a lui dedicato si sofferma sul mandato di organizzare le funzioni liturgiche conferitogli dall’imperatore Teodosio e da papa Damaso. Secondo il domenicano ligure sarebbe stato lui a posizionare nel calendario liturgico annuale i brani del salterio, delle lettere degli apostoli e del Vangelo. La storia dell’addomesticamento di un leone da parte di san Gerolamo, infine, è una delle antiche narrazioni cristiane che più hanno attratto un autore sempre affamato di aneddoti affascinanti.

Ai tre modelli maggiori si aggiungono altre tre figure alle cui opere Iacopo attinge spesso, pur senza menzionarli direttamente. Due di loro, molto vicini a lui nel tempo, il liturgista Giovanni Beleth e lo storico Pietro Comestore, vissuti nel secolo XII, non sono stati canonizzati, mentre il terzo, Isidoro di Siviglia, benché sia vissuto nel VII secolo e sia stato uno dei più influenti intellettuali del Medioevo, è stato proclamato santo solo nel 1598. Vediamo quali sono i loro meriti nella prospettiva dell’autore della Legenda aurea.

Come molti altri autori medievali, Iacopo da Varazze attribuiva una notevole importanza alle etimologie dei nomi dei santi dei quali narrava la vita, le virtù e i miracoli. L’origine del nome rivelava a suo avviso il senso profondo della personalità del santo; non a caso, ogni vita si apre con una lunga disamina etimologica che contribuì non poco al discredito di Iacopo da Varazze nei secoli XVII e XVIII a causa del suo carattere chiaramente fantasioso dal punto di vista degli studiosi moderni. In realtà, ci viene qui offerta una chiave della struttura della Legenda aurea e della visione del suo autore. La ricca compilazione che Isidoro di Siviglia ci ha lasciato con il titolo di Etimologie gli ha meritato la qualifica di grande precettore del Medioevo. La passione di Iacopo per le etimologie lo stimolò a utilizzare, pur se in misura minore, i lavori di specialisti più vicini a lui cronologicamente, come Uguccione da Pisa¹⁶.

16 Morto nel 1210, Uguccione ha lasciato tra le altre cose un dizionario etimologico intitolato Liber derivationum, o Glossarium, edito da G. Cremascoli, e pubblicato con la sua Agiographia, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto 1978.

Un modello più «moderno» di Iacopo è Pietro Comestore, un intellettuale allievo di Pietro Lombardo a Parigi, assai influente sia come docente sia come autore della Historia scholastica, una sorta di manuale di storia biblica molto apprezzato a partire dalla fine del XII secolo. La forte presenza di questo autore e di questa opera nella Legenda aurea dimostra che Iacopo da Varazze, rimproverato di trascurare, o addirittura disprezzare la storia mondana, era in realtà attento a tale disciplina, a condizione che il suo contenuto contribuisse al progetto di santificazione del tempo umano. Da ciò deriva il suo interesse per questo erudito che doveva il nome Comestore, ovvero il mangiatore, alla reputazione di divoratore di libri.

Può stupire che tra le influenze di Iacopo da Varazze ci sia anche san Bernardo, il santo cistercense per eccellenza del secolo XII. Gli storici hanno l’abitudine di contrapporre gli ordini monastici anteriori al Duecento, che privilegiavano la scelta dell’isolamento, a quelli apparsi nel XIII secolo, come domenicani e francescani, che invece preferivano risiedere in città e definirsi frati in luogo di monaci. Iacopo da Varazze era un eminente domenicano, ma dedica un capitolo all’abate di Clairvaux lodandone i miracoli, la fondazione di centosessanta monasteri e la scrittura di libri e trattati, ovvero nulla di così straordinario da distinguere san Bernardo da tanti altri santi della Legenda aurea e da giustificare una tale devozione da parte del suo autore. Di fatto, nonostante il declino dei cistercensi nel XIII secolo, Bernardo restò una figura celeberrima e Iacopo da Varazze, che era membro di un ordine di predicatori e scriveva con in mente il pubblico formato dai confratelli, considerava probabilmente una sorta di precursore colui che fu in effetti un famoso predicatore.

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