Sommario

Introduzione generale

Un atlante del Ventesimo secolo: oltre 200 documenti divisi in 4 volumi per orientarsi e riflettere sul percorso di un secolo di straordinaria complessità. Un secolo che ha visto i nazionalismi e gli imperialismi in lotta tra loro, due guerre mondiali, due grandi rivoluzioni comuniste – quella russa e quella cinese –, genocidi e stermini di massa, la nascita dei totalitarismi, la crisi e la rinascita della democrazia, l’affermarsi degli Stati Uniti come potenza mondiale, il confronto bipolare con l’Unione Sovietica, il crollo degli imperi coloniali e la decolonizzazione, guerre locali ad alta intensità come la guerra di Corea, la guerra d’Algeria, il Vietnam, i Balcani e innumerevoli guerre minori, il diffondersi e il crollo del comunismo, l’emergere di nuove grandi potenze politiche ed economiche, come la Cina e l’India. E ancora conflitti e problemi irrisolti come la questione arabo-israeliana e il nodo del Medio Oriente e, al finire del secolo, la sensazione di un futuro incerto legata alla nuova fase di più accentuata globalizzazione, dove il sistema delle interdipendenze sembra consolidato mentre rimane indeciso l’equilibrio delle forze politiche ed economiche e la conservazione delle tradizionali egemonie.

Tutto questo è il Ventesimo secolo e molte altre cose ancora. A differenza del Settecento e dell’Ottocento, per i quali, con procedura arbitraria ma largamente praticata, è stato estrapolato un solo aspetto caratterizzante, schiacciando tutti gli altri sul fondo, e dunque sono chiamati convenzionalmente il secolo dei Lumi e il secolo del progresso, il Novecento non ha ancora un nome suo proprio al di là di quello numerico che gli deriva dalla sua collocazione lungo la freccia del tempo dell’èra cristiana: il Ventesimo secolo, appunto, o il Novecento. Ma gli storici, in omaggio alla loro vocazione e all’insopprimibile ansia di dare un senso e un significato al passato, chiudendolo in una cornice denominativa, hanno provato e riprovato a nominarlo: rispondendo alle loro convinzioni e pensando – o illudendosi – di averne colto il significato ultimo.

E così abbiamo il secolo delle masse, il secolo delle ideologie, della scienza e della tecnologia. E ancora: il secolo delle guerre, il secolo americano, il secolo delle donne, l’età della violenza. Oppure: «il secolo breve», una definizione che ha avuto molta fortuna, ripresa dal titolo italiano del grande libro di Eric J. Hobsbawm, The Age of Extremes (l’età degli estremi).

Sono solo alcune delle tante definizioni del Novecento, ognuna basata su un elemento che si vorrebbe dominante e tale da caratterizzare l’intero secolo. Ma tante definizioni possibili ci dicono anche quanto esse siano inevitabilmente parziali e provvisorie. Del resto, a pochi anni dalla conclusione di un secolo in cui quasi tutti abbiamo vissuto un tempo più o meno lungo, sarebbe arbitrario e forse impossibile essere certi che uno dei molti caratteri distintivi proposti sia quello destinato a consolidarsi e affermarsi col passare degli anni. Anche se questi tentativi rispondono all’esigenza di conferire a un arco temporale una sua immediata riconoscibilità in grado di rispondere a un’esigenza di fondo della nostra cultura: quella di misurare, suddividere, segmentare il passato, utilizzando sempre di più l’unità di misura del secolo. Confidando nella saldezza del numero e nella sua forza periodizzante per un primo orientamento.

A questa ossessione periodizzante si è aggiunta l’influenza determinante dei mass media che ha imposto al Novecento anche la divisione per decenni: gli anni Venti, gli anni Trenta, gli anni Sessanta e così via, ognuno con una sua specifica connotazione dilatata fino a conferire un significato unitario a tutto il decennio. I «ruggenti» anni Venti connotati da un vitalismo sfrenato e dalla prima emancipazione femminile, gli anni Trenta della grande crisi e dei totalitarismi, gli anni Quaranta della guerra mondiale e della ricostruzione, gli anni Cinquanta della guerra fredda e della decolonizzazione, gli anni Sessanta del benessere e della rivoluzione studentesca, e così via. Un’operazione semplificatrice e arbitraria sia per i connotati scelti come prevalenti sia per la costrizione entro il decennio: eppure tutta la cultura diffusa, ma anche quella specialistica, non sembra poterne fare a meno. Tanto da rendere inevitabile anche una definizione per il primo decennio del nuovo secolo Ventunesimo: e così ecco gli «anni zero» o del «doppio zero», 2001-2009.

È il sistema delle comunicazioni di massa ad aver alimentato questa tendenza fino al paradosso. Proprio la dilatazione dei mass media da una dimensione nazionale a una globale porta a consumare freneticamente gli eventi, trascurando la loro rilevanza comparativa, rendendo sempre meno agevole la comprensione unitaria del nostro presente, ma anche dell’immediato passato.

Il fatto che nella cultura diffusa sia ancora così viva l’idea di un passato che può sempre ritornare – un’idea invano osteggiata dagli storici di professione che rivendicano l’individualità irripetibile degli eventi – testimonia della vitalità di un meccanismo mentale che sembra offrire un aggancio sicuro, e per certi versi profetico, alla comprensione del presente e delle prospettive future.

È stato il pensiero cristiano a rompere con l’idea di un ritorno ciclico proiettando le vicende umane in un destino finalistico individuato dalla rivelazione, ritmato dalla provvidenza e segnato dalla certezza della fine del mondo. In una concezione laica priva di un finalismo ultraterreno, alcune filosofie della storia hanno provato a individuare il motore dello sviluppo e del progresso, e anche delle inevitabili crisi, nella dialettica antagonista dei corpi sociali secondo una visione meccanica ma integralmente umana della storia.

Col venir meno di queste e di molte altre certezze, in seguito anche ai terrificanti orrori e disastri del Ventesimo secolo, è difficile sottrarsi all’angoscia che comporta la riflessione sul passato e il significato del tempo: «Il tempo è lo spazio trasparente in cui gli uomini nascono, si muovono e scompaiono senza lasciare traccia»¹. Di fronte a questa sensazione che è insieme destino e condanna, gli uomini del nostro mondo da sempre si arrovellano per dare un significato al tempo che scorre affidando agli storici in primo luogo il compito di misurarlo, di scandirlo, di legarlo a luoghi, a volti, a eventi: segnali e presenze per definire uno spazio che altrimenti apparirebbe vuoto e, appunto, privo di senso.

¹ V. Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, p. 45.

La storia non è memoria. Fornisce piuttosto le procedure e le regole per imporre razionalità alla memoria individuale e collettiva. Se infatti rimaniamo sul terreno della memoria, per quanti anni, decenni, secoli siamo in grado di collocare la nostra vicenda personale o di gruppo, attribuendole un senso nel lungo o anche solo nel breve periodo? In realtà siamo tutti prigionieri di una dimensione generazionale e privi della capacità di andare all’indietro tenendo saldo il filo di una conoscenza legata esclusivamente alla nostra condizione: e smarrito il capo di quel filo torna impellente il bisogno di affidarsi ad alcuni punti certi, ad alcuni volti, ad alcune vicende.

Di fronte a questa inevitabile miopia appare tanto più significativo l’ancoraggio ai documenti. I documenti ci raccontano soprattutto i fatti, definiscono un avvenimento e, attraverso un percorso di selezione, forniscono la dimensione certificabile del passato e fondano le basi della narrazione storica. E tuttavia la narrazione storica con il suo incedere prigioniera di un tema o di un percorso cronologico, e obbligata a rendere conto del complesso interagire dei singoli e delle forze economiche e sociali, non può avvalersi di quello sguardo circolare sul proprio tempo che solo ai grandi romanzi (Guerra e pace di Lev Tolstoj, Vita e destino di Vasilij Grossman, Pastorale americana di Philip Rothper citarne solo alcuni) è concesso. Il canone letterario gode di libertà non consentite a un libro di storia: per quanto molti storici cerchino sempre più di varcare i confini imposti dalla loro specificità disciplinare, di contaminarsi con la narrazione letteraria e di potenziare la leggibilità dei loro lavori, storia e letteratura rimangono due generi diversi con il privilegio per l’opera letteraria di restituire, quasi essa sola, l’afflato del tempo, il sapore di un’epoca. Tuttavia, in una piccola ma significativa misura, la vicinanza temporale di documenti anche molto diversi tra loro può riuscire a dar conto della complessità e della vitalità della ricostruzione storica senza le scorciatoie dell’immaginazione letteraria.

Salvo qualche esempio di documentazione affidata alle immagini, i documenti di questa raccolta sono testi scritti, con i loro caratteri specifici e i loro pregi, quelli dell’autenticità e della rilevanza innanzitutto ma, in una scelta in cui prevale la storia politica, anche con il limite di non poter cogliere, se non tangenzialmente o indirettamente, alcune grandi trasformazioni del secolo come quella delle mentalità e dei comportamenti, raramente condensati nella pagina scritta; e come quella relativa alla quantificazione dello sviluppo economico, alle dilatazioni o alle contrazioni demografiche e alla diffusione delle pratiche contraccettive, temi affidati in genere a grafici e/o a tabelle statistiche, nemiche dei lettori e osteggiate dagli editori.

Ma qual è la tipologia dei documenti che qui vengono proposti? Molti sono documenti diplomatici, o meglio, relativi alla politica internazionale – quella che si sarebbe definita la Grosse Politik –, dall’ultimatum alla Serbia del 1914 al patto Molotov-Ribbentrop del 1939, dal patto di Londra del 1915 agli accordi di Camp David del 1978; e molti altri ancora: trattati, accordi e convenzioni, compresi quelli che hanno dato origine e consolidamento all’Europa unita. Importanti discorsi di uomini politici: italiani, come Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Craxi, Berlusconi, e di altri paesi, come Th. Roosevelt, Clemenceau, Wilson, F.D. Roosevelt, Hitler, Stalin, Churchill, Kennedy, Martin Luther King. Pagine di libri esemplari da Sigmund Freud a José Ortega y Gasset, da Frantz Fanon a Hannah Arendt a Renzo De Felice. E ancora: alcune delle più importanti encicliche papali; testi di leggi, come quella francese sulla separazione tra Stato e Chiesa o quella sul divorzio in Italia, e costituzioni, da quella di Weimar a quella italiana che si dà qui per intero; manifesti di propaganda politica da Lenin a Mussolini a Hitler. Infine documenti, memorie e testimonianze sulla macchina dello sterminio ripetutamente all’opera nel corso del Ventesimo secolo, contro gli armeni in Turchia, contro gli ebrei ad opera del nazismo, contro ogni forma di dissidenza nell’Urss di Stalin e di nuovo in Ruanda negli anni Novanta.

Documenti che rendono conto dei nodi cruciali della guerra e della pace, dei tentativi di dare ordine al disordine, dell’intelligenza argomentativa dei maîtres à penser, della forza trascinante dei grandi leader, della fascinazione delle ideologie: tutti elementi che escono con prepotenza da pagine spesso dimenticate.

Il criterio ordinatore di questa raccolta, aperta sul mondo del Ventesimo secolo, ma con un’attenzione particolare all’Italia (che conta oltre cinquanta documenti), è quello cronologico: il più semplice e, se si vuole, il più scontato. Ma non l’unico possibile perché altri criteri, quello tematico o quello geografico, avrebbero potuto essere adottati. Ma quello cronologico è in ogni caso preferibile, perché consente una lettura sincronica degli accadimenti e una distribuzione dei testi nei quattro volumi secondo un ragionevole criterio temporale. Sono le due guerre mondiali a chiudere il primo e il secondo volume rispettivamente al 1918 e al 1945, mentre il terzo volume termina al 1968, spartiacque nella storia delle mentalità e dei comportamenti del Novecento. Forzando l’aritmetica che vorrebbe i cento anni dal 1900 chiudersi al 1999 (e il passaggio del secolo venne celebrato il 31 dicembre di quell’anno), il quarto volume si conclude al 2000, in un’epoca in cui circolavano, sostenute da una forte eco mediatica, le teorie di una «fine della storia» legate alla caduta del Muro di Berlino e al crollo del sistema comunista sovietico. L’apertura del Ventunesimo secolo avrebbe poi ridicolizzato queste tesi con la sorpresa periodizzante dell’11 settembre 2001, la distruzione delle Twin Towers nel centro del mondo capitalista occidentale.

Eugenio Montale coglieva quanto di imprevedibile e di irrazionale è nel dispiegarsi degli eventi quando scriveva in Satura: «La storia / [...] si sposta di binario / e la sua direzione / non è nell’orario» e ancora «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano / spesso in senso contrario e raramente / si intersecano»². Ma agli storici si impone di sottrarsi a queste suggestioni. E dunque, pur nella frammentata complessità del Novecento, alcuni punti fermi debbono essere sottolineati. Secolo contrassegnato dalla universale dilatazione dei poteri dello Stato, non solo nel campo dell’economia e del Welfare, ma anche nel controllo della vita dei singoli e dei gruppi sociali, fino a raggiungere le forme poliziesche e terroristiche dei regimi totalitari. Secolo della violenza politica, della violenza sui civili fino all’anticipazione apocalittica della bomba atomica, ma anche secolo dell’allargamento dei diritti: dei popoli, in primo luogo, con il grande fenomeno della decolonizzazione che ha posto fine al dominio dell’Europa sul mondo e ha accompagnato l’emergere delle nuove grandi potenze degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Ma anche allargamento dei diritti delle classi lavoratrici, tutelate dai risultati delle lotte sindacali, e dei diritti delle persone, delle donne innanzitutto. Se per alcuni l’Ottocento è il secolo della borghesia, il Novecento non ha una classe sociale di riferimento: è piuttosto il secolo delle masse e del controllo e della manipolazione delle masse ad opera di una «nuova politica», spesso demagogica e in grado di sollecitare le componenti irrazionali delle folle, scavalcando i confini culturali e di classe. Protagoniste le masse prevalentemente come soggetto passivo, ma disposte anche a forme di autonoma mobilitazione come nella fase iniziale dei movimenti rivoluzionari. Un protagonismo impensabile senza la forza aggregante di partiti e sindacati e alla dilatazione dei mass media, dalla radio al cinema, alla televisione, a internet: un sistema di comunicazione che ha premiato non solo i dittatori e i totalitarismi, ma anche i meccanismi democratici. Un sistema della comunicazione di cui si sono avvalsi anche i grandi capi religiosi, i pontefici innanzitutto, grandi comunicatori in una dimensione planetaria e sempre meno italocentrica anche con gli ultimi papi italiani.

² E. Montale, L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980: La storia, p. 315; Tempo e tempi, p. 342.

Ognuno pensa e si illude di poter controllare il passato, ma di fronte alla fallacia, alla fragilità e alle incertezze della memoria questa raccolta intende fornire le certezze documentate della storia, offrendo al lettore un percorso di verifica delle sue conoscenze, ma anche invitandolo a inoltrarsi in terreni poco noti.

Prefazione

Questo quarto volume dell’Atlante del Ventesimo secolo, dedicato agli anni dal 1969 al 2000, si apre con la conquista della Luna, un successo americano e una rivincita nei confronti dell’Unione Sovietica nella gara per la conquista dello spazio. Il confronto sulla supremazia scientifica e tecnologica avrebbe visto il progressivo arretramento sovietico nell’ambito dello sfruttamento dell’energia nucleare a fini pacifici, culminato nell’incidente alla centrale di ernobyl’ dell’aprile 1986. Ritornò allora in primo piano, nell’agenda politica internazionale degli anni Novanta, il problema della difesa dell’ambiente, già evidente nei primi anni Settanta con la proposta del Club di Roma di introdurre limiti allo sviluppo. Su questo tema si sarebbe aperta una partita molto tesa sui costi della riduzione delle emissioni nocive e inquinanti nei paesi a più alta densità industriale (non solo Cina e India, ma anche Stati Uniti), mentre la globalizzazione economica, oltre ad attivare la nuova opposizione dei movimenti no-global, avrebbe sollecitato una risposta organizzativa per introdurre un controllo dal basso della governance economica del capitalismo mondiale.

Da un punto di vista politico e geopolitico, la vicenda più significativa di questo trentennio è il crollo del sistema sovietico e, con esso, la fine dell’utopia comunista, trasformatasi ormai da decenni in regime di coercizione autoritaria nell’Urss e in Europa orientale. In questo senso, la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e la fine dell’Unione Sovietica due anni dopo rappresentano la svolta epocale della fine del Ventesimo secolo.

La crisi dell’Urss, nonostante i tentativi di rinnovamento della perestrojka promossa da Gorbaëv, determina la fine del bipolarismo e favorisce l’egemonia solitaria degli Usa, che negli anni Settanta avevano visto la loro forza e il loro prestigio duramente intaccati dalla sconfitta in Vietnam e dalle dimissioni del presidente Nixon, travolto dallo scandalo del Watergate. Divenuti arbitri della politica mondiale, gli Stati Uniti si impegnano, negli anni Novanta, in alcuni conflitti locali: prima in Kuwait sotto l’egida dell’Onu, e in seguito per la questione albanese nel Kosovo, nell’inedita versione di una «guerra umanitaria» condotta unilateralmente nel 1999 dalla Nato contro la Jugoslavia.

L’Europa occidentale rafforza in questo periodo il processo di unificazione, favorito dal ritorno alla democrazia della Spagna e del Portogallo. A Est la caduta dei comunismi e il nuovo quadro democratico lasciano emergere nuovi nazionalismi, che solo nel caso della Jugoslavia si traducono in drammatici conflitti etnici e religiosi.

In Cile, nel 1973, fallisce l’esperimento socialista di Salvador Allende e dopo il colpo di Stato militare inizia il regime autoritario di Augusto Pinochet. Dieci anni più tardi, la sconfitta argentina ad opera della Gran Bretagna nella guerra delle Falkland determina l’uscita di scena del governo militare, al potere dal 1976.

In Africa, la difficoltà di controllare forme di violenza e di contrapposizione radicale trova l’esempio più drammatico nel genocidio del Ruanda. La fine del regime razzista in Sudafrica segna invece l’avvio di uno straordinario esperimento di pacificazione politica e sociale grazie alla Commissione per la verità e la riconciliazione.

Il Medio Oriente continua a essere una delle aree del pianeta dove la conflittualità resta più alta. La questione israelo-palestinese alterna accordi provvisori di pace alla ripresa delle ostilità. Anche la nascita di uno Stato teocratico in Iran dopo la rivoluzione khomeinista e la fine della lunga dittatura dello scià Reza Pahlav non pongono le premesse per un allentamento delle tensioni in quella regione. Più a Est, il vistoso sviluppo economico della Cina rimane governato da un regime autoritario a partito unico, ostile a ogni forma di apertura democratica e pronto a reprimere con la violenza i movimenti di dissidenza, come dimostra il massacro di piazza Tienanmen del 1989.

L’Italia, dopo aver conosciuto iniziative legislative modernizzatrici quali l’introduzione del divorzio e dell’interruzione volontaria della gravidanza – che sanavano un grave ritardo rispetto all’evoluzione degli stili di vita e all’avanzata secolarizzazione della società – è come soffocata, nel corso degli anni Settanta, da un’endemica conflittualità e dal dilagare del terrorismo, di destra prima, di sinistra poi. Nessun paese dell’Occidente democratico, privo di conflitti etnici interni, conosce una così lunga stagione di violenza terrorista, e il tragico primato italiano si conferma nel 1978 con l’uccisione del più importante esponente della classe di governo, il democristiano Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.

Negli anni Ottanta, esauritasi la fase dei governi di unità nazionale, anche per l’abbandono dell’ipotesi del compromesso storico avanzata nel 1973 dal leader comunista Enrico Berlinguer, la gestione politica rimane affidata al binomio Dc-Psi: emerge allora con forza la personalità del socialista Bettino Craxi, incapace tuttavia di tradurre il suo ruolo in un’ascesa elettorale dei socialisti. Alla fine del decennio, la caduta del Muro di Berlino rompe equilibri consolidati e costringe il Pci a una tardiva rincorsa verso il rinnovamento.

Ma il sistema politico è minato all’interno dal sistematico finanziamento illecito dei partiti e da una diffusa corruzione: l’iniziativa della magistratura milanese con l’inchiesta di Tangentopoli contribuisce ad affossare i partiti di governo consentendo l’emergere – dalle macerie della prima repubblica – di Silvio Berlusconi, l’uomo nuovo della politica italiana e protagonista degli anni a venire.

Sulla scena degli anni finali del secolo si intrecciano, inevitabilmente, molte questioni e problemi irrisolti, alcuni nuovi, altri radicati nel tempo: l’intensificarsi dei fondamentalismi religiosi, i destini ancora non definiti delle nuove grandi potenze asiatiche, come Cina e India, le minacce incombenti sul Medio Oriente, da Israele, all’Iraq, fino all’Afghanistan.

Sul crinale del nuovo secolo, un grande protagonista dell’ultimo trentennio, papa Giovanni Paolo II, parlando in occasione della Giornata mondiale della gioventù durante il giubileo del 2000, auspicava che non ritornassero gli anni che, nel Novecento appena trascorso, avevano visto i giovani «convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare» e poi «mandati a combattere gli uni contro gli altri» dai «diversi messianismi secolarizzati rivelatisi dei veri e propri inferni». E lanciava una forte invocazione chiamando i giovani alla difesa della pace e incitandoli a non farsi strumento di violenza e di distruzione: vicino, in questo, ai suoi predecessori – da Benedetto XV, a Pio XII, a Giovanni XXIII, a Paolo VI – che, lungo tutto il Ventesimo secolo, si erano vanamente appellati ai potenti della Terra in difesa della pace e contro le guerre.

A poco più di un anno dal messaggio di pace di Giovanni Paolo II, l’11 settembre del 2001 l’attacco alle Twin Towers apriva dolorosamente il nuovo secolo. A conferma che il male del mondo è sempre in agguato e non cesserà di prendere alle spalle chi guarda fiducioso al futuro.

1.
l’uomo sulla Luna
(21 luglio 1969)

Il progetto di far arrivare l’uomo sulla Luna entro l’anno 1970 era stato annunciato dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy nel maggio del 1961: si trattava della risposta ai successi spaziali raggiunti dall’Unione Sovietica, che nel 1957 aveva lanciato il primo satellite artificiale, lo Sputnik, e nell’aprile dello stesso ’61 aveva inviato nello spazio il primo uomo, Jurij Gagarin. Dopo una serie di missioni preparatorie, il 16 luglio del 1969 iniziò quella che sarebbe passata alla storia: dalla base di Cape Canaveral, in Florida, fu lanciata nello spazio la navicella «Apollo 11» con a bordo gli astronauti Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins. Il 21 luglio la capsula spaziale Lem condusse i primi due sulla Luna: una telecamera riprese Armstrong mentre, sceso dalla capsula, posava i piedi sulla superficie lunare. Era il primo uomo a camminare sulla Luna. Le televisioni di tutto il mondo mandarono in onda le immagini dei due astronauti intenti a muoversi sul suolo lunare; accanto a loro la bandiera americana lanciava il messaggio di una recuperata egemonia statunitense ben oltre i confini della terra. L’impresa dell’«Apollo 11» avrebbe aperto la strada a una nuova stagione tecnologica, con implicazioni civili e militari di importanza strategica, grazie al perfezionamento di satelliti per le telecomunicazioni, per la meteorologia e, soprattutto, per scopi militari.

L’astronauta Neil Armstrong e la bandiera americana sulla Luna

L’astronauta Neil Armstrong e la bandiera americana sulla Luna.

2.
La rivoluzione in Libia
(1969)

Il 1° settembre 1969, in Libia un colpo di Stato incruento portò al potere un gruppo di ufficiali guidato dal ventisettenne capitano (poi colonnello) Mu‘ammar al-Gheddafi. La Libia era stata colonia italiana dal 1912 al 1943, quando gli inglesi avevano definitivamente sconfitto le truppe italo-tedesche sul fronte dell’Africa settentrionale. Nel 1951, dopo un periodo di amministrazione militare anglo-francese, le Nazioni Unite avevano favorito la formazione di una monarchia federale, il Regno Unito di Libia, affidato a re Mohammed Idris, nipote del Gran Senusso (i senussi erano una confraternita islamica fondata da Muh.ammad ibn ‘Al¯ al-Sanu¯s¯ – il Gran Senusso – stabilitasi in Cirenaica dal 1842). Dopo il colpo di Stato fu abolita la monarchia e la guida del paese fu assunta da Gheddafi (ancora oggi a capo della Repubblica araba di Libia). Il nuovo governo provvide subito a nazionalizzare le grandi imprese, in particolare quelle impegnate nell’estrazione del petrolio, a chiudere le basi militari inglesi e americane, e a confiscare tutti i beni dei cittadini italiani che ancora vivevano nella ex colonia e tutte le proprietà ebraiche. Intrecciando ideologia panaraba e socialismo, Gheddafi si schierò apertamente contro gli Stati Uniti e contro Israele, a sostegno delle rivendicazioni arabe.

Si pubblicano di seguito due documenti: il primo è il discorso radiofonico col quale, il 1° settembre del 1969, Gheddafi annunciava l’avvenuto colpo di Stato; il secondo è invece il testo di un intervento del 16 aprile del 1973 volto a lanciare la «rivoluzione culturale» libica, compimento della rivoluzione del ’69.

3.
Willy Brandt e la «Ostpolitik»
(1969)

Esponente del Partito socialdemocratico tedesco, già strenuo oppositore del nazismo, Willy Brandt (1913-1992) era stato borgomastro di Berlino Ovest dal 1957 al 1966 e ministro degli Esteri dal 1966 all’anno della sua elezione a cancelliere della Repubblica federale tedesca, a capo di una coalizione tra i socialdemocratici e i liberali. Cancelliere dall’autunno del 1969 alla primavera del 1974, Brandt diede avvio alla Ostpolitik («politica orientale»), caratterizzata dalla ricerca di una normalizzazione dei rapporti con l’Urss e gli altri paesi del blocco sovietico, compresa la Repubblica democratica tedesca; grazie a questa nuova politica, nel 1971 Brandt ottenne il premio Nobel per la pace.

In ordine di tempo venivano siglati, nel 1970, il trattato di Mosca, seguito da quello di Varsavia, che prevedevano il riconoscimento dei confini con la Polonia lungo la linea fluviale dell’Oder-Neiße, definiti dopo la seconda guerra mondiale. Entravano nella politica di distensione anche le relazioni tra le due Germanie con il reciproco riconoscimento e l’ammissione di entrambe all’Onu nel 1973. Tra il 1971 e il 1972 erano stati varati una serie di accordi volti a facilitare le comunicazioni tra la Germania occidentale e Berlino Ovest e ad autorizzare viaggi di tedeschi occidentali nella Germania orientale e a Berlino Est; inoltre la Repubblica democratica tedesca avrebbe concesso ai suoi cittadini di recarsi nella Repubblica federale, ma solo per gravi ragioni familiari. Infine il trattato con la Cecoslovacchia riconosceva la nullità degli accordi di Monaco che, nel 1938, avevano disposto la cessione alla Germania delle regioni dei Sudeti.

Seguono alcuni passi delle memorie di Brandt pubblicate nel 1989: l’ex cancelliere ricostruiva in quale contesto di relazioni internazionali era nata la decisione di avviare una politica di distensione con l’Europa dell’Est.

Nel settembre del 1969 formai il governo di coalizione social-liberale, reso possibile dal risultato delle elezioni. Durante la campagna elettorale il capo del partito liberale, Walter Scheel¹, ed io, avevamo dichiarato di ritenere auspicabile o addirittura necessario che, soprattutto per ragioni di politica estera, nascesse un governo «nuovo».

¹ Walter Scheel (n. 1919) divenne vice-cancelliere e ministro degli Esteri del governo Brandt. Dal 1974 al 1979 fu presidente della Repubblica.

[...]

Il partito socialdemocratico poteva esser soddisfatto del risultato [elettorale]. Nonostante le notevoli riserve che c’erano state nei confronti della grande coalizione, il numero dei nostri voti salì dal 39,3 al 42,7 per cento, equivalenti a 224 seggi contro i 202 precedenti. Il numero dei mandati diretti era, per la prima volta, superiore a quello della Cdu-Csu. Ma i liberali erano retrocessi al 5,8 per cento e disponevano di 30 seggi anziché dei precedenti 49. Una particolarità di quelle elezioni: i «nazionaldemocratici» di estrema destra, con il 4,3 per cento dei voti, non avevano superato lo scoglio della clausola del 5 per cento. I loro voti, nella suddivisione dei seggi, andarono a vantaggio degli altri partiti. Se la Npd avesse avuto più del 5 per cento dei voti, nel 1969 non sarei divenuto cancelliere.

La sera delle elezioni Walter Scheel era così deluso che non fu possibile avviare trattative concrete. Ma non mi contraddisse quando, al telefono, gli dissi che secondo me si doveva constatare che i nostri due partiti avevano raggiunto la maggioranza e che mi sarei impegnato per costituire su questa base un nuovo governo federale. Nella ristretta cerchia dei dirigenti della Spd questo mio progetto incontrò, nel migliore dei casi, una tiepida accoglienza: mi si permetteva di tentare. Io, del resto, non avevo alcuna intenzione di farmi ostacolare su questa strada.

Già durante la notte che seguì le elezioni esternai i miei sentimenti: Hitler – dissi – adesso ha perso la guerra definitivamente. E non mi trattenni dall’aggiungere che, se fossi stato eletto, non mi sarei considerato più come il cancelliere della Germania vinta, ma di una Germania liberata. Avevo l’intenzione di essere un partner affidabile, ma non quella di entrare nelle orme di coloro che si sentivano a proprio agio nel ruolo di fiancheggiatori, ed ai quali venivano tributati applausi tutt’altro che rispettosi. Dovevo partire dal presupposto che le potenze mondiali cercavano la composizione dei loro interessi ma non volevano né fare la nostra pace, né sostituire il nostro contributo per un ordinamento pacifico dell’Europa. La trasformazione avvenuta nell’opinione pubblica poteva facilitare il compito, mentre la confusione che era nata dalla ripetuta divisione avrebbe dovuto renderlo più difficile. [...]

Non solo da cancelliere, ma già anni prima, mi ero chiesto: che cosa può fare il tuo stato, che cosa può fare la Repubblica Federale, per rendere la pace più sicura? Che cosa può fare essa, e che cosa puoi fare tu, per superare le conseguenze della seconda guerra mondiale, per ridurre la competizione e – al di là dei contrasti la cui efficacia persiste nel tempo – per sostenere la costruzione di un sistema di sicurezza e collaborazione in Europa?

La politica di pace doveva e deve significare qualcosa di più che parlare di pace, che applaudire gli altri o criticarli. Proprio per la Repubblica Federale dovrebbe trattarsi di contributi concreti e non verbali. Non dovremmo ostinarci nelle generalizzazioni, ma applicarci per rispondere alle esigenze imposte dal ruolo specifico del nostro paese.

Con altre parole: non dovevamo aspettarci che altri dessero le risposte che spettava a noi dare. Non dovevamo partire da una situazione immaginaria, ma da quella reale, com’era andata formandosi in un quarto di secolo dopo la fine della guerra. Bisognava superare l’atteggiamento assai diffuso dell’autoinganno e non scambiare con la realtà formule pseudo giuridiche. Solo in questo modo potevamo essere internazionalmente abilitati ad agire.

La definizione «Ostpolitik», che mi è stata attribuita e con la quale mi si è identificato, non mi piaceva. Ma come si può fermare qualcosa che si è reso indipendente e che è stato subito ripreso in altre lingue? Perché quest’etichetta non mi andava a genio? Temevo che autorizzasse il sospetto che io considerassi la politica estera come un cassettone dal quale poter aprire ora un cassetto, ora l’altro. Con i miei colleghi, e non ultimo con il ministro degli esteri, che era anche il mio vice alla cancelleria, partii dal presupposto che dovevamo far corrispondere l’alleanza con l’occidente, basata sulla fiducia, e l’intesa con l’est, che si andava faticosamente delineando e che doveva essere sviluppata. Ero consapevole del fatto che il nostro interesse nazionale non consentiva assolutamente una politica che oscillasse fra l’est e l’ovest.

Per dirlo in maniera univoca: i nostri tentativi politici verso l’est dovevano essere ben concordati con gli alleati occidentali ed ancorati alla struttura politica dell’Alleanza atlantica. Ancor più semplice: la nostra Ostpolitik doveva cominciare in occidente! Ma lo sviluppo che si era prodotto a partire dai trattati del 1955² richiedeva l’esistenza di rapporti possibilmente normali e produttivi anche con l’Unione Sovietica e gli altri stati del Patto di Varsavia³. Questa normalizzazione era necessaria affinché la Repubblica Federale potesse tutelare, da una posizione vicina alla parità, i propri interessi nella collaborazione europea. Abbiamo dunque deciso di portare il nostro contributo affinché la pace si diffondesse sulla base della maggior sicurezza possibile, «nella consapevolezza della particolare responsabilità che portiamo in Europa, e secondo le nostre forze, che però non sopravvalutiamo».

² Con i trattati firmati a Bonn nel 1955 si poneva fine al regime di occupazione degli alleati nella Germania Ovest.

³ Il Patto di Varsavia, siglato il 14 maggio del 1955, fu un accordo di tipo militare stipulato dai paesi del blocco sovietico in contrapposizione all’Alleanza atlantica, nata nel 1949.

[...]

Qualche volta, e non di rado con cattive intenzioni, si è supposto che la mia politica fosse stata motivata da dubbi circa le intenzioni degli Stati Uniti. Non era così. È però vero che ho incluso nelle mie riflessioni quelli che potevano essere gli interessi e i problemi specifici degli Stati Uniti e ho tenuto conto anche del fatto che l’impegno americano in Europa, nel corso degli anni, si sarebbe ridotto piuttosto che rafforzato. Ma dissi in tutta chiarezza che i nostri stretti legami con gli Stati Uniti escludevano ogni dubbio del carattere vincolante degli impegni che essi si erano assunti per l’Europa, la Repubblica Federale e Berlino Ovest. I nostri interessi reciproci non avevano bisogno né di ulteriori assicurazioni, né di dichiarazioni ripetitive: una politica tedesca più indipendente favoriva una collaborazione più attiva.

E cosa ne era dell’obbligo di informare le potenze occidentali e di consultarle quando fossero in gioco i loro diritti ancora vigenti riguardo alla «Germania nel suo insieme»? È vero che, anche all’est, volevamo rappresentare direttamente i nostri interessi e, a questo riguardo, essere «alla pari» in misura maggiore che per il passato. Non abbiamo tuttavia mai mancato dall’informare correttamente e regolarmente i nostri partner. Ma Henry Kissinger⁴ ha giustamente constatato che Brandt non ha chiesto permessi, «ma la nostra collaborazione ad una politica le cui linee fondamentali erano già state concordate».

⁴ Henry Kissinger, nato nel 1923, fu segretario di Stato statunitense durante le presidenze di Richard M. Nixon e di Gerald R. Ford.

Non è necessario aver letto le memorie di Kissinger per sapere che nelle capitali occidentali era in agguato una sfiducia celata a fatica: secondo me a Londra meno che altrove, a Parigi con oscillazioni notevoli fra lieve comprensione e speculazione selvaggia, mentre a Washington le cose erano così semplici come Kissinger, consigliere per la sicurezza di Nixon, disse al mio collaboratore Paul Frank nel 1970: «Se ci dev’essere distensione con l’Unione Sovietica, allora la facciamo noi».

Prima del nostro incontro nell’aprile del 1970 Nixon mi aveva ospitato per alcuni giorni di riposo a Camp David: ero arrivato da El Paso, dove avevo visitato alcune unità della Bundeswehr e avevo dovuto assistere impotente al rapimento e all’uccisione in Guatemala del nostro ambasciatore conte Spreti. Henry comparve dunque nel rifugio del presidente e non nascose il suo scetticismo. In anni successivi si è più volte «congratulato» con me per gli effetti della Ostpolitik, e con questo ha corretto se stesso. Accettando la divisione del paese – ebbe a dire allora – non avremmo ottenuto altro che qualche miglioramento nel clima politico («improvements in the political atmosphere»). Kissinger, influente consigliere per i problemi della sicurezza, che sarebbe poi divenuto ministro degli esteri (segretario di stato) con i presidenti Nixon e Ford, pensava nelle categorie del concerto di potenze europee e della classica diplomazia segreta del XIX secolo. Vedeva negli europei le pedine di un grande gioco a scacchi fra le superpotenze.

Ci si è chiesti spesso, anche con serie considerazioni, se il governo di Washington avesse contribuito a portare avanti la nostra Ostpolitik, o se l’avesse soltanto subita contro voglia.

Nelle linee generali non poteva esserci dissenso poiché Nixon, consigliato da Kissinger, aveva avviato la sua politica con il motto «cooperazione anziché dissidio» (konfrontation) e in tal senso raccolto quello che già era stato avviato da Kennedy. Il governo americano sapeva che neanche in sogno avremmo pensato di ritirarci dalla collaborazione occidentale, e, del resto, neanche avremmo potuto farlo.

Inesatta è la versione secondo la quale noi avremmo soltanto portato a compimento, sillaba per sillaba, quello che gli Usa ci avevano consigliato di fare. La Ostpolitik tedesca aveva le proprie radici e la propria motivazione, ma – per quel che riguarda me e il mio governo – non è stata neanche per un istante guidata dall’illusione che potessimo andare avanti e indietro fra un campo e l’altro. Per quel che riguardava l’amicizia e la collaborazione basata sulla fiducia con gli Stati Uniti, non avevo alcuna necessità di recupero.

Come borgomastro di Berlino ero stato sempre ben accolto e appoggiato dagli Usa [...]. Conoscevo i presidenti e un buon numero di influenti senatori. Ero stato legato a John F. Kennedy⁵ da un rapporto particolare, e anche gli incontri che avevo avuto con Lyndon B. Johnson⁶ erano stati improntati alla fiducia. Solo quando l’ombra della guerra del Vietnam si stese sulla politica americana, anche Berlino fu messa in disparte.

⁵ John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) fu il 35° presidente americano, dal gennaio 1961 alla sua uccisione.

⁶ Lyndon B. Johnson (1908-1973) divenne presidente degli Usa dopo l’assassinio di Kennedy.

[...]

Durante il nostro colloquio del 10 aprile 1970 Richard Nixon dichiarò senza mezzi termini di aver fiducia nella nostra politica e di saper che non pensavamo di mettere in gioco amicizie ben collaudate. Dovevamo tuttavia contare sulla possibilità che in Francia e in Inghilterra, e qualche volta anche negli Usa, potesse nascere una certa insicurezza. Avrebbe avuto piena comprensione per noi se avessimo voluto riconoscere il confine dell’Oder-Neiße, che era ormai un fatto compiuto: era questa, forse, un’implicita richiesta? La cosa fondamentale, comunque, era il nostro accordo di restare in stretto contatto per tutte le questioni est-ovest.

Quando, al principio dell’estate del 1971, andai di nuovo a Washington, constatai con soddisfazione che i dubbi sulla Ostpolitik tedesca sollevati da diversi esperti – o che tali si consideravano – si erano dissipati. In ogni caso, né il presidente, né il suo ministro degli esteri, Bill Rogers, che fu poi sostituito da Kissinger, né i miei vecchi e buoni conoscenti del comitato esteri del senato, avevano mai nutrito dubbi del genere.

[...]

Non mi fu nascosto che al Pentagono e al dipartimento di stato, anche se i relativi portavoce ribadivano la loro fiducia nel governo Brandt, c’erano notevoli riserve, stimolate dalle lobbies e dall’opposizione di Bonn, di tutto preoccupata fuorché del consenso nazionale.

[...]

Mi sentii sollevato quando il presidente Nixon lasciò intravedere una crescente disponibilità per la nostra Ostpolitik. Al principio dell’estate del 1971, durante la mia visita, dimostrò un interesse particolare per l’accordo su Berlino, che era in preparazione. [...] Alla fine di quell’anno Richard Nixon, quando andai a trovarlo in Florida, ne trasse una momentanea conclusione: «Gli Usa – disse – non vogliono dire ai tedeschi quello che devono o non devono fare, ma lasciar loro piena libertà d’azione».

Che questa non potesse essere l’ultima parola era nella natura stessa degli interessi di una potenza mondiale ed aveva solo marginalmente a che fare con la specificità della Ostpolitik. Al principio di marzo del 1973, quando l’ombra del Watergate si era abbassata sulla Casa bianca, Nixon fece conoscere di nuovo qualche riserva: temeva che potesse svilupparsi una euforia della distensione, che, a sua volta, avrebbe potuto far rinascere negli Usa tendenze isolazionistiche o favorevoli ad un disarmo unilaterale. L’Unione Sovietica – si sosteneva – non voleva la guerra, ma avrebbe sempre tentato di separare l’America dall’Europa. In quale misura questa preoccupazione andasse al di là del progetto della Ostpolitik, e quanto poco in essa fosse basata la sfiducia nei miei confronti e nei confronti del mio governo, si rivelò ancora una volta in una lettera che Richard Nixon mi scrisse l’8 maggio del 1974: qualunque cosa portasse con sé il futuro, dovevo contare sulla sua profonda amicizia personale.

Dopo la mia elezione a cancelliere avevo detto a tutti coloro che mi volevano ascoltare che il popolo tedesco aveva bisogno della pace nel pieno senso della parola anche con i popoli dell’Unione Sovietica e con tutti i popoli dell’est europeo. Noi eravamo disposti ad intraprendere un tentativo onesto per la comprensione reciproca, affinché potessero esser superate le conseguenze della sventura che un gruppo criminale aveva portato all’Europa. Nel far questo – continuavo – non ci abbandonavamo ad alcuna ingannevole speranza, poiché gli interessi, i rapporti di forza e le differenze sociali, non potevano esser risolti per mezzo della dialettica né dovevano essere nascosti. I nostri partner dovevano sapere che il diritto all’autodeterminazione, com’è sancito dalla carta delle Nazioni unite, vale anche per il nostro popolo. Non ci lasceremo strappar via la volontà stessa di far valere questo diritto. Ma mi era chiaro che soltanto un riavvicinamento di tutta l’Europa avrebbe avuto come conseguenza che anche le due parti della Germania si potessero muovere l’una verso l’altra.

Sapevo di esser privo di illusioni e non pensavo che l’opera di conciliazione fosse da compiersi in maniera facile e rapida. Ma trovavo che fosse tempo di avviarne il cammino. Su certi punti potevamo riallacciarci ai tentativi fatti da precedenti governi, come quelli per giungere ad un accordo impegnativo sulla rinuncia all’uso, o alla minaccia dell’uso della forza. Una tale politica, che tenesse conto dell’integrità territoriale di ciascun partner, sarebbe stata, secondo la nostra convinzione, un contributo sostanziale alla Estensione in Europa, che avrebbe potuto svilupparsi ulteriormente grazie al commercio, alla cooperazione tecnica e agli scambi culturali.

Non è facile capire, a distanza di tempo, per quale ragione la discussione intorno alla Ostpolitik abbia assunto forme così aspre. Allora mi stupì il fatto che alcuni, che si consideravano conservatori, mostrassero poco interesse ad una maggiore indipendenza. All’inizio del mio cancellierato, definii di fronte al Bundestag, il 14 gennaio del 1970, pusillanimi e non sufficientemente patriottici coloro che si chiedevano cos’avessimo da guadagnarci. Rivolgendomi a loro dissi: «Non è niente rendere la pace più sicura, per tutto il nostro popolo? Non è niente aggiungere all’amicizia con i popoli dell’ovest, del nord e del sud anche la fiducia, l’accordo e poi anche l’amicizia con i popoli dell’est? E in seguito a ciò non avrà la Germania stessa acquistato più sicurezza e una pace migliore? Non ne avranno, i suoi cittadini, ciascuno di essi, dei vantaggi? Perché – per esprimersi in questo senso – ci sarà meno paura, perché i pesi saranno meno gravi, perché potranno rivedersi persone che non s’incontrano da anni, perché magari potranno sposarsi due giovani provenienti dai due stati della Germania, divisi oggi da una disumana coercizione». Questi sono i criteri che il mio governo si pose, in maniera obiettiva, nella piena consapevolezza delle difficoltà, di quanto fosse lungo il cammino, calcolando il rischio. Questo era il compito che potevamo imporci: «Perché consapevoli delle nostre possibilità e sostenuti da buoni amici».

[W. Brandt, Memorie, Garzanti, Milano 1991, pp. 196-207]

4.
Il manifesto di «Rivolta femminile»
(luglio 1970)

Il manifesto – qui riportato – rappresenta l’atto costitutivo del gruppo di Rivolta femminile, nato a Milano nel 1970. Il documento, scritto in collaborazione con Carla Accardi e Elvira Banotti dalla critica d’arte Carla Lonzi (1931-1982), una delle voci più rilevanti del femminismo italiano, denunciava la persistenza di strutture patriarcali tese a perpetuare la condizione di subalternità delle donne, e proponeva di andare oltre la richiesta della parità giuridica e dell’eguaglianza per affermare la differenza e la specificità del genere femminile.

Si apriva così anche in Italia una nuova stagione del movimento femminista che attaccava le basi del potere maschile e con esse i tradizionali ruoli familiari, le abitudini sessuali, la mentalità, i comportamenti, mentre si affermava la consapevolezza che un’astratta parità giuridica non avrebbe mai potuto coesistere con l’affermazione dell’autonomia della donna, della diversità del suo sistema di valori.

«Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?»

(Olympe de Gouges¹ 1791)

¹ Olympe de Gouges, nata nel 1748, autrice di teatro e giornalista, fu, durante la Rivoluzione francese, la prima sfortunata pioniera dei diritti delle donne, battendosi anche per l’emancipazione degli schiavi. Pubblicò la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791). Fu ghigliottinata nel 1793.

La donna non va definita in rapporto all’uomo. Su questa coscienza si fondano tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà.

L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna.

La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna. L’uguaglianza è un tentativo ideologico per asservire la donna a più alti livelli.

Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via di liberazione.

Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo perché è invivibile, ma esprimere il suo senso dell’esistenza.

La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario.

Finora il mito della complementarietà è stato usato dall’uomo per giustificare il proprio potere.

Le donne sono persuase fin dall’infanza a non prendere decisioni e a dipendere da persona «capace» e «responsabile»: il padre, il marito, il fratello...

L’immagine femminile con cui l’uomo ha interpretato la donna è stata una sua invenzione.

Verginità, castità, fedeltà, non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.

Nel matrimonio la donna, privata del suo nome, perde la sua identità significando il passaggio di proprietà che è avvenuto tra il padre di lei e il marito.

Chi genera non ha la facoltà di attribuire ai figli il proprio nome: il diritto della donna è stato ambito da altri di cui è diventato il privilegio.

Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale.

Riconosciamo nel matrimonio l’istituzione che ha subordinato la donna al destino maschile. Siamo contro il matrimonio.

Il divorzio è un innesto di matrimoni da cui l’istituzione esce rafforzata.

La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica.

Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut-aut.

Denunciamo lo snaturamento di una maternità pagata al prezzo dell’esclusione.

La negazione della libertà d’aborto rientra nel veto globale che viene fatto all’autonomia della donna.

Non vogliamo pensare alla maternità tutta la vita e continuare a essere inconsci strumenti del potere patriarcale.

La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante.

In una libertà che si sente di affrontare, la donna libera anche il figlio e il figlio è l’umanità.

In tutte le forme di convivenza, alimentare, pulire, accudire e ogni momento del vivere quotidiano devono essere gesti reciproci.

Per educazione e per mimesi l’uomo e la donna sono già nei ruoli nella primissima infanzia.

Riconosciamo il carattere mistificatorio di tutte le ideologie, perché attraverso le forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico), hanno costretto l’umanità a una condizione inautentica, oppressa e consenziente.

Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchia dei sessi.

Non vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo.

Il femminismo è stato il primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società.

Unifichiamo le situazioni e gli episodi dell’esperienza storica femminista: in essa la donna si è manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale.

Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di stato, di sussistere.

Permetteremo quello che di continuo si ripete al termine di ogni rivoluzione popolare quando la donna, che ha combattuto insieme con gli altri, si trova messa da parte con tutti i suoi problemi?

Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dalla egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata.

La guerra è stata da sempre l’attività specifica del maschio e il suo modello di comportamento virile.

La parità di retribuzione è un nostro diritto, ma la nostra oppressione è un’altra cosa. Ci basta la parità salariale quando abbiamo già sulle spalle ore di lavoro domestico?

Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria.

Dare alto valore ai momenti «improduttivi» è un’estensione di vita proposta dalla donna.

Chi ha il potere afferma: «Fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore». Mantenere lo status quo è dunque un suo atto di amore.

Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme, perché abbiamo smesso di considerare la frigidità un’alternativa onorevole.

Continuare a regolamentare la vita fra i sessi è una necessità del potere; l’unica scelta soddisfacente è un rapporto libero.

Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali.

Abbiamo guardato per 4.000 anni: adesso abbiamo visto!

Alle nostre spalle sta l’apoteosi della millenaria supremazia maschile. Le religioni istituzionalizzate ne sono state il più fermo piedistallo. E il concetto di «genio» ne ha costituito l’irraggiungibile gradino.

La donna ha avuto l’esperienza di vedere ogni giorno distrutto quello che faceva.

Consideriamo incompleta una storia che si è costituita sulle tracce non deperibili.

Nulla o male è stato tramandato della presenza della donna: sta a noi riscoprirla per sapere la verità.

La civiltà ci ha definite inferiori, la Chiesa ci ha chiamate sesso, la psicanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica.

Chiediamo referenze di millenni di pensiero filosofico che ha teorizzato l’inferiorità della donna.

Della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna.

Sputiamo su Hegel.

La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale.

La lotta di classe, come teoria rivoluzionaria sviluppata dalla dialettica servo-padrone, ugualmente esclude la donna. Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato.

Non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità.

L’uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo accusa ora di aver sublimato una mutilazione.

La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla.

Dopo questo atto di coscienza l’uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto quello che la concerne.

Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione.

Nella cocente realtà di un universo che non ha mai svelato i suoi segreti, noi togliamo molto del credito dato agli accanimenti della cultura. Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte.

Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non la sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo.

Comunichiamo solo con donne.

Roma, luglio 1970

Rivolta femminile

[C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Rivolta femminile, Milano 1974, pp. 11-18]

5.
Il divorzio in Italia
(1º dicembre 1970)

Il 1° dicembre del 1970, il Parlamento italiano approvò la legge 898 che disciplinava i «casi di scioglimento del matrimonio». La legge, votata da una maggioranza trasversale composta dalle sinistre e dai partiti laici contro un’opposizione formata da democristiani, monarchici e missini, era stata proposta da due deputati, il socialista Loris Fortuna (1924-1985) e il liberale Antonio Baslini (1926-1995). Prima della legge sul divorzio, che sanava una concezione antiquata dei rapporti matrimoniali (legata ai dettami della religione cattolica) e offriva soluzione agli oltre due milioni di separazioni legali e di fatto, era stato introdotto, nel maggio dello stesso anno, l’istituto del referendum abrogativo previsto dalla Costituzione all’art. 75. Era lo «scambio politico» che in Parlamento aveva consentito l’approvazione del divorzio. Infatti già dal dicembre 1970 si costituì, sotto la guida del cattolico Gabrio Lombardi (1913-1994), il Comitato per il referendum sul divorzio.

Dopo circa quattro anni gli italiani furono chiamati, nella prima applicazione del referendum abrogativo, a decidere se cancellare il divorzio. Lo scontro tra i difensori del divorzio e gli abrogazionisti fu accesissimo, raggiungendo da parte dei movimenti cattolici (sostenuti dalla segreteria della Dc guidata da Amintore Fanfani) toni da crociata anticomunista. Il 12 e il 13 maggio del 1974 il 59,30 per cento dei votanti si dichiarò contrario all’abrogazione, confermando la trasformazione dei costumi e la diffusa secolarizzazione del paese. Nel successo del fronte divorzista che vedeva convergere, in una larga mobilitazione, il fronte laico, tutte le sinistre parlamentari ed extraparlamentari e larghi settori della società civile (compreso il gruppo di intellettuali dei «cattolici del no»), un ruolo rilevante ebbero i radicali, guidati da Marco Pannella, impegnati da anni nella lotta per i diritti civili.

La legge sul divorzio era piuttosto restrittiva: prevedeva infatti (all’art. 3) cinque anni di separazione legale (ridotti a tre nel 1987) prima della pronuncia della sentenza di scioglimento del matrimonio.

Art. 1

Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del codice civile, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3.

Art. 2

Nei casi in cui il matrimonio sia stato celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto, il giudice, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo art. 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’art. 3, pronuncia la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio.

Art. 3

Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi:

1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l’altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza:

a) all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale;

b) a qualsiasi pena detentiva [...] per induzione o costrizione del coniuge o di un figlio anche adottivo alla prostituzione, nonché per sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione di un discendente o di un figlio adottivo;

c) a qualsiasi pena per omicidio volontario in danno di un discendente o figlio adottivo ovvero per tentato omicidio in danno del coniuge o di un discendente o figlio adottivo;

d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all’art. 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno del coniuge o di un figlio anche adottivo¹.

¹ Gli articoli del codice penale citati puniscono i reati di lesioni personali, di violazione degli obblighi di assistenza familiare, i maltrattamenti e la circonvenzione di incapace.

Nelle ipotesi previste alla lettera d) il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare.

Per tutte le ipotesi previste nel numero 1) del presente articolo la domanda non è proponibile dal coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato ovvero quando la convivenza coniugale è ripresa:

2) nei casi in cui:

a) l’altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c) del n. 1) del presente articolo, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l’inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare;

b) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata anteriormente all’entrata in vigore della presente legge da almeno due anni.

In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono protrarsi ininterrottamente da almeno cinque anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale; nella separazione di fatto iniziatasi ai sensi del comma precedente, i cinque anni decorrono dalla cessazione effettiva della convivenza.

Quando vi sia opposizione del coniuge convenuto il termine di cui sopra è elevato:

ad anni sette, nel caso di separazione pronunciata per colpa esclusiva dell’attore;

ad anni sei, nel caso di separazione consensuale omologata in data anteriore all’entrata in vigore della presente legge o di separazione di fatto;

c) il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del n. 1) del presente articolo si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi;

d) il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo;

e) l’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio;

f) il matrimonio non è stato consumato.

Art. 4

La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone con ricorso, contenente l’esposizione dei fatti sui quali la domanda è fondata, al tribunale del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza oppure, nel caso di irreperibilità o di residenza all’estero, al tribunale del luogo di residenza del ricorrente. Del ricorso il cancelliere dà comunicazione all’ufficiale dello stato civile del luogo dove il matrimonio fu trascritto, per l’annotazione in calce all’atto.

Nel ricorso è indicata l’esistenza dei figli legittimi, legittimati o adottati da entrambi i coniugi durante il matrimonio.

Il presidente del tribunale fissa con decreto il giorno della comparizione dei coniugi davanti a sé e il termine per la notificazione del ricorso e del decreto e nomina un curatore speciale quando il convenuto è malato di mente o legalmente incapace.

I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi. Il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente tentando di conciliarli. Se i coniugi si conciliano o, comunque, se il coniuge istante dichiara di non voler proseguire nella domanda, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione o della dichiarazione di rinuncia all’azione.

Se il coniuge convenuto non compare o se la conciliazione non riesce, il presidente, sentiti, se lo ritenga opportuno, i figli minori, anche d’ufficio dà con ordinanza i provvedimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione delle parti avanti a questo. [...]

Il presidente del tribunale, qualora ritenga motivatamente che sussistono concrete possibilità di riconciliazione tra i coniugi, specie in presenza di figli minori, fissa l’udienza di comparizione davanti al giudice istruttore entro un termine non superiore ad un anno.

[...]

Art. 5

Il tribunale adito, in contraddittorio delle parti e con l’intervento obbligatorio del pubblico ministero, accertata la sussistenza di uno dei casi di cui all’art. 3, pronuncia con sentenza lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ed ordina all’ufficiale dello stato civile del luogo ove venne trascritto il matrimonio di procedere all’annotazione della sentenza.

La moglie riacquista il cognome che essa aveva antecedentemente al matrimonio.

La sentenza è impugnabile da ciascuna delle parti. Il pubblico ministero può [...] proporre impugnazione limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.

Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in un’unica soluzione.

L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze.

Art. 6

L’obbligo, ai sensi degli articoli 147 e 148 del codice civile, di mantenere, educare ed istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio di cui sia stato pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili, permane anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori.

Il tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio dispone a quale dei coniugi i figli debbono essere affidati sotto la vigilanza del giudice tutelare ovvero come, per gravi motivi, si debba altrimenti provvedere sull’affidamento, ed assume ogni altro provvedimento relativo alla prole. In ogni caso il padre e la madre conservano il diritto e l’obbligo di vigilare sulla educazione della prole.

L’affidamento e i provvedimenti riguardanti i figli avranno come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale degli stessi.

In particolare il tribunale stabilisce la misura ed il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e alla educazione dei figli, e dà inoltre disposizioni circa l’amministrazione dei beni di questi.

Il tribunale, nel caso in cui i genitori trascurino i loro doveri nei confronti dei figli minori o legalmente incapaci o ne mettano in pericolo gli interessi, può nominare un tutore, indipendentemente dal verificarsi di fatti che costituiscano motivo di decadenza dalla patria potestà.

Art. 7

Il secondo comma dell’art. 252 del codice civile è così modificato:

«I figli adulterini possono essere riconosciuti anche dal genitore che, al tempo del concepimento, era unito in matrimonio, qualora il matrimonio sia sciolto per effetto della morte dell’altro coniuge ovvero per pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso».

Art. 8

[...]

Il tribunale può ordinare, anche con successivi provvedimenti in camera di consiglio, che una quota dei redditi o dei proventi di lavoro dell’obbligato venga versata direttamente agli aventi diritto alle prestazioni di cui alle norme predette.

Art. 9

Qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, su istanza di parte, può disporre la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondersi [...]. In caso di morte dell’obbligato, il tribunale può disporre che una quota della pensione o di altri assegni spettanti al coniuge superstite sia attribuita al coniuge o ai coniugi rispetto ai quali sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Art. 10

[...]

Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, pronunciati nei casi rispettivamente previsti dagli articoli 1 e 2 della presente legge, hanno efficacia, a tutti gli effetti civili, dal giorno dell’annotazione della sentenza.

Art. 11

Dopo lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, se il tribunale non ha disposto altrimenti, ciascun genitore esercita la patria potestà sui figli affidatigli. Il genitore al quale sono stati affidati i figli ne amministra i beni con l’obbligo di rendere conto annualmente al giudice tutelare e ne ha l’usufrutto fino a quando non passi a nuove nozze. L’altro genitore conserva il diritto di vigilare e il dovere di collaborare alla educazione e all’istruzione dei figli.

L’altro genitore, se ritiene pregiudizievoli per il figlio i provvedimenti presi dall’esercente la patria potestà, può ricorrere al giudice tutelare prospettando i provvedimenti che considera adeguati.

Il giudice, sentito il figlio che ha compiuto il 14° anno di età, dichiara quale dei provvedimenti è adeguato all’interesse del figlio.

[Lex. Legislazione italiana, Utet, Torino 1970, pp. 2365-2369]

6.
I limiti dello sviluppo
(1972)

All’inizio degli anni Settanta, il Club di Roma (un gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico ed economico nato nel 1968 con lo scopo di affrontare i grandi problemi del futuro dell’umanità) commissionò a una équipe di studiosi del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (Mit) sotto la direzione di Donella Meadows una ricerca volta a ricostruire – mediante l’impiego di elaboratori elettronici – un modello globale delle linee di tendenza dei principali fattori da cui dipendono le sorti del sistema-terra: la popolazione, la disponibilità di cibo, le riserve e i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale e l’inquinamento. Il rapporto finale del gruppo di ricerca – di cui riportiamo qui alcuni stralci fra i più significativi – insisteva soprattutto sui pericoli rappresentati per l’umanità dall’esaurimento delle riserve naturali e dal deterioramento dell’ambiente, conseguenze inevitabili di una crescita esponenziale della popolazione, della produzione e dei consumi. Queste conclusioni, pubblicate nel 1972, alla vigilia della prima grande crisi petrolifera, suscitarono un ampio dibattito in tutto il mondo industrializzato, costretto a interrogarsi sul significato e sulle conseguenze di una crescita economica che fino ad allora era stata concepita come potenzialmente illimitata.

Alimenti

[...] Per la produzione di alimenti, l’elemento che occorre prima di ogni altro è la terra. La superficie di terra coltivabile di tutto il globo ha un valore massimo di 3,2 miliardi di ettari [...], di cui viene sfruttata attualmente solo la metà: la metà rimanente, infatti, richiederebbe enormi investimenti di capitale in opere di preparazione, irrigazione, fertilizzazione, per essere resa produttiva. I dati più recenti sul dissodamento delle terre vergini indicano un costo minimo di 215 dollari e un massimo di 5275 dollari per ettaro; mediamente, facendo riferimento a regioni non popolate, si può ritenere tale costo pari a 1150 dollari per ettaro. È opinione degli esperti della Fao che l’impresa non sia economicamente conveniente, anche tenendo conto della grave carenza di alimenti che affligge buona parte dell’umanità. [...]

Gli elementi necessari a sostenere la crescita della popolazione e lo sviluppo economico del mondo possono essere, a un primo esame, divisi in due categorie principali. La prima comprende i fattori materiali, che costituiscono la base di ogni attività fisiologica o industriale – alimenti, materie prime, combustibili fossili e nucleari, quei sistemi di una valutazione quantitativa, di cui è opportuno fare una stima giacché in definitiva è proprio la disponibilità di terra coltivabile, di acqua, di metalli, di foreste, a condizionare ogni possibile tipo di sviluppo futuro sulla Terra.

La seconda categoria comprende quelli che possiamo definire fattori sociali: pace e stabilità, istruzione e occupazione, un progresso tecnologico costante non sono meno necessari, al nostro sviluppo, dei fattori naturali. Si tratta però di elementi che non si prestano a stime numeriche o a previsioni, per cui non entrano a fare parte del modello del mondo e non vengono considerati in questo rapporto, a parte l’accenno relativo alle conseguenze sociali che può comportare per il tempo futuro il problema della disponibilità e della distribuzione delle ricchezze del nostro pianeta.

Riconosciuto quindi che alimenti, risorse naturali e un ambiente non contaminato sono condizioni necessarie ma non sufficienti per lo sviluppo, e supponendo che le condizioni sociali siano le più favorevoli, occorre esaminare le possibilità di sviluppo alla luce della disponibilità dei vari fattori materiali.

Il risultato che scaturisce da tale esame può fornirci qualche indicazione per una valutazione dei limiti superiori della crescita della popolazione e dell’espansione del capitale, ma non è in grado di assicurarci che in realtà il processo di sviluppo perverrà al raggiungimento di essi.

Per quanto attualmente solo metà della terra venga coltivata, 10 o 20 milioni di morti all’anno possono essere attribuiti direttamente o indirettamente alla sottoalimentazione. Non v’è dubbio che molte di queste morti vanno attribuite a insufficienze sociali piuttosto che ai limiti materiali della terra; e tuttavia esiste chiaramente un legame tra questi due tipi di limitazioni, nel settore della produzione di alimenti. Se della buona terra fertile potesse ancora essere facilmente raggiunta e coltivata, nessuna barriera economica impedirebbe di fornire cibo a chi ne ha bisogno, e non vi sarebbe alcuna difficile scelta di carattere sociale da fare. Senonché la metà più fertile della superficie potenzialmente coltivabile è proprio quella che già adesso viene coltivata, e intraprendere lo sfruttamento di terra vergine è così costoso che la società lo ha giudicato antieconomico. [...].

Ma anche se la società decidesse di affrontare i costi occorrenti per iniziare la coltivazione di nuove terre o per aumentare la produttività delle terre già coltivate, l’aumento della popolazione porterebbe a un nuovo punto di crisi. Inoltre, ogni successivo punto di crisi richiederebbe costi sempre crescenti per essere superato. [...]

Non si può dire esattamente a quante persone la Terra possa dare nutrimento, giacché la risposta dipende dalle scelte che la società opera tra le molte alternative possibili. C’è un legame diretto tra lo scegliere di produrre più alimenti piuttosto che altri beni e servizi, necessari o voluttuari; e la domanda per questi altri beni e servizi cresce col crescere della popolazione, per cui l’esigenza di una scelta si fa sempre più manifesta e sempre più difficile da soddisfare. [...]

Risorse naturali non rinnovabili

[...] La crosta terrestre contiene abbondanti quantitativi di quelle materie prime che l’uomo ha imparato a estrarre e trasformare; ma per quanto abbondanti, le riserve non sono certamente inesauribili. Al ritmo di consumo attuale, prevedibilmente destinato a crescere, la grande maggioranza delle materie prime non rinnovabili di impiego più comune raggiungerà costi proibitivi nel giro di un centinaio di anni. Questa conclusione [...] vale anche nell’ipotesi di scoprire nuovi giacimenti o di compiere sostanziali progressi nella tecnica, di riutilizzare le materie già usate o di sostituirle in parte con altre aventi un costo inferiore, se la domanda continua a crescere esponenzialmente. I prezzi delle materie prime caratterizzate da valori particolarmente bassi dell’indice statico hanno già cominciato a salire: ad esempio, il prezzo del mercurio è cresciuto del 500% negli ultimi 20 anni e quello del piombo è cresciuto del 300% negli ultimi 30 anni.

Un’ulteriore complicazione è rappresentata dal fatto che né le riserve né il consumo di materie prime sono uniformemente distribuiti sulla Terra. [...] La stessa sopravvivenza della base industriale dei paesi più progrediti, che sono i principali consumatori di materie prime, dipende dal mantenimento di una fitta rete di accordi internazionali con i paesi produttori. Accanto al problema economico – il futuro dei vari settori industriali man mano che le varie materie prime raggiungono costi intollerabili – si presenta l’imponderabile problema politico delle relazioni tra paesi produttori e consumatori, allorché le riserve rimarranno concentrate in aree geografiche sempre più ristrette. È facile prevedere, come mostrano alcune recenti vicende (nazionalizzazione delle miniere sudamericane, spinta all’aumento del prezzo del petrolio da parte dei paesi mediorientali), che il problema politico è destinato a insorgere assai prima di quello economico.

Il comportamento delle nazioni consumatrici è destinato ad avere importanti ripercussioni sulla futura disponibilità di materie prime e quindi sulla possibilità di assicurare migliori condizioni economiche e un tenore di vita sufficientemente alto per ciascuno dei 7 miliardi di abitanti che la Terra avrà nel 2000. Queste nazioni possono continuare ad aumentare il consumo, possono imparare a ricuperare e reimpiegare i materiali già utilizzati, possono mettere a punto nuove tecniche che consentano di prolungare la durata dei prodotti, possono infine modificare i propri indirizzi in campo economico e sociale, scegliendo dei modelli di sviluppo che soddisfino le esigenze dei cittadini rendendo minima, anziché massima, la quantità di beni materiali che ognuno di essi consuma.

Ognuna di queste possibili alternative implica una scelta, particolarmente difficile in questo caso, in cui futuri benefici richiedono di sacrificare in qualche misura il presente. Infatti, per assicurare una adeguata disponibilità di risorse naturali in futuro, occorre adottare dei provvedimenti volti a ridurne il consumo attuale: la maggior parte di tali provvedimenti si traduce in un aumento dei costi delle materie prime. Ad esempio, è sicuramente costoso ricuperare e riutilizzare i vari materiali, o adottare migliori criteri di progettazione, e nella maggior parte dei paesi ciò è oggi ritenuto antieconomico.

Peraltro, l’adozione di tali provvedimenti non sarà di per sé sufficiente, giacché se la crescita della popolazione e del capitale industriale continueranno a produrre un sempre maggior numero di abitanti e una crescente domanda di risorse pro capite, il sistema verrà spinto verso i propri limiti naturali – in questo caso, il depauperamento delle risorse non rinnovabili della Terra.

Metalli e combustibili, dopo essere stati estratti dalla terra, vengono variamente utilizzati e successivamente scaricati; in un certo senso, si può dire che essi non vanno perduti, poiché gli atomi costituenti si ricombinano variamente e alla fine si disperdono, in forme non utilizzabili, nell’aria, nel suolo o nelle acque della Terra. Il sistema ecologico naturale è in grado di assorbire i prodotti di rifiuto dell’attività umana, che attraverso una serie di passaggi vengono convertiti in sostanze utili alle altre forme di vita, o comunque non nocive. Questo meccanismo naturale di assorbimento, peraltro, ha un certo livello di saturazione, superato il quale i rifiuti della civiltà industriale cominciano ad accumularsi in maniera visibile, fastidiosa, sovente nociva. Non c’è da meravigliarsi, allora, se si trova il mercurio nei pesci dell’oceano o il piombo nell’atmosfera delle città, se le periferie urbane sono circondate da montagne di rifiuti e le spiagge sono cosparse di chiazze di petrolio: l’inquinamento è un altro elemento del sistema mondiale che cresce con legge esponenziale.

Inquinamento

«Diventa sempre più evidente alla maggioranza delle persone che la sopravvivenza della biosfera, con la sua capacità di ospitare i vari organismi viventi, non va più misurata in termini di centinaia di milioni di anni, ma di decenni; la colpa di ciò ricade interamente sulla specie umana.»

È solo da poco tempo che l’uomo ha cominciato a occuparsi delle conseguenzeche le proprie attività possono avere sull’ambiente naturale; ancora più recenti, e quindi grossolanamente incompleti, sono tutti i tentativi di misurare in maniera scientifica questi effetti. Attualmente, non siamo assolutamente in grado di ricavare alcuna conclusione sicura sulla capacità di assorbimento dell’inquinamento da parte della terra [...]. In primo luogo (come mostreremo più avanti), in quei pochi casi in cui si sono eseguiti dei rilevamenti nel tempo, si è osservata una crescita esponenziale dell’inquinamento, per cui è lecito ipotizzare l’esistenza di uno stretto legame con l’andamento della popolazione e del capitale. Inoltre, va precisato che non si sa quasi nulla su quelli che possono essere i limiti a cui tendono le curve crescenti relative ai vari tipi di inquinamento. In terzo luogo, la presenza di ritardi naturali nei processi ecologici aumenta il pericolo di sottovalutare la necessità di misure di controllo, e quindi di raggiungere quei limiti che sicuramente esistono, anche se non sono ancora individuati. Infine, molti agenti inquinanti sono ormai distribuiti su tutto il pianeta, e i loro effetti nocivi si manifestano a grandi distanze dal punto in cui essi sono stati liberati. [...]

Non è facile valutare esattamente il tasso di crescita della curva esponenziale relativa all’emissione totale di sostanze inquinanti, giacché questa è una complessa funzione della popolazione, dell’industrializzazione, di particolari sviluppi della tecnologia. Possiamo stimare che, se ognuno dei 7 miliardi di abitanti della Terra nell’anno 2000 disponesse di un Pnl¹ pro capite pari a quello di cui godono oggi gli abitanti degli Usa, l’inquinamento assumerebbe un valore pari ad almeno 10 volte quello attuale. Non sappiamo però se la Terra sarebbe in grado di sopportare una perturbazione di questa portata: v’è anzi chi ritiene che la degradazione dell’ambiente sia già arrivata a un punto tale da provocare danni irreparabili a estesi sistemi naturali, e ciò è certamente vero per molte zone, a livello locale. In ogni caso, anche se non conosciamo il limite superiore che la natura impone all’inquinamento, specialmente se dovuto all’azione simultanea di agenti diversi, sappiamo che un limite esiste. Esso è stato già superato in molte zone; la maniera più sicura di raggiungerlo a livello globale consiste nel lasciare che tanto la popolazione quanto l’azione inquinante di ciascun individuo continuino ad aumentare esponenzialmente.

¹ La sigla indica il Prodotto nazionale lordo.

Nel campo della salvaguardia dell’ambiente, prendere delle decisioni è altrettanto difficile quanto nel settore agricolo o in quello riguardante le risorse naturali. Normalmente, i vantaggi derivanti dalle attività che provocano inquinamento si presentano molto distanziati, nel tempo e nello spazio, dai costi; prendere delle decisioni ragionevolmente fondate richiede quindi di considerare entrambi questi fattori, spazio e tempo. Se i rifiuti vengono scaricati a monte, chi ne subirà le conseguenze a valle? Se oggi si fa largo uso di anticrittogamici a base di mercurio, quando, dove e in quale misura il mercurio si manifesterà nei pesci? Se si stabilisce di insediare in aree isolate le industrie che hanno azione inquinante, dove saranno finiti i prodotti di rifiuto tra 10 o 20 anni?

Futuri progressi della tecnologia potranno forse consentire l’espansione industriale e insieme una diminuzione dell’inquinamento, ma solo a costi rilevanti. [...]

Un paese può decidere di posporre il pagamento di tali costi per incrementare al massimo il presente tasso di sviluppo del proprio sistema industriale, ma solo a spese di una futura degradazione dell’ambiente, a cui sarà estremamente costoso porre rimedio.

Un mondo finito

Come si è visto, il problema della produzione di alimenti, quello del consumo di materie prime, quello della crescita dell’inquinamento e della sua neutralizzazione, comportano una serie di scelte molto difficili e impegnative: dovrebbe però essere ormai chiaro che tutte queste difficoltà scaturiscono da una sola, semplice circostanza: la Terra ha dimensioni finite. Quanto più una qualsiasi attività umana si approssima ai limiti naturali, oltre i quali la Terra non è più in grado di sostenerla, tanto più manifeste e gravi si fanno tali difficoltà.

Se c’è abbondanza di terre vergini coltivabili, si può avere una popolazione più numerosa e insieme più alimenti per ogni abitante; ma quando tutta la Terra sia ormai sottoposta a sfruttamento, occorre scegliere tra le due alternative, delle quali l’una esclude l’altra.

In generale, si può dire che la società moderna non ha ancora imparato a riconoscere la necessità di simili scelte. A quanto sembra, il sistema mondiale attualmente tende a far crescere tanto il numero di abitanti quanto la disponibilità di cibo, di beni materiali, di aria e acqua pulita per ciascuno di essi; ma, per quanto abbiamo osservato, questa tendenza alla fine porterà a raggiungere uno dei molti limiti naturali della Terra.

Non è possibile anticipare esattamente quale limite verrà raggiunto per primo, e con quali conseguenze, giacché l’umanità potrebbe reagire in molte diverse maniere a una situazione del genere. È possibile, invece, studiare quali condizioni o quali modificazioni del sistema mondiale potrebbero portare la società a scontrarsi con i limiti che pongono un termine alle possibilità di sviluppo in un mondo finito, o a trovare un accomodamento all’interno di essi.

[D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, I limiti dello sviluppo: rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (Mit) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, prefazione di A. Peccei, Mondadori, Milano 1972, pp. 45-74]

7.
Il problema della droga
(1972)

Gli anni Settanta furono caratterizzati dall’esplosione mondiale delle tossicodipendenze, con un’alta mortalità dovuta soprattutto al consumo di eroina. L’incremento del fenomeno, già presente in numeri rilevanti tra i neri e i portoricani delle grandi città americane, era strettamente legato alla diffusione di comportamenti trasgressivi e alla nascita di una nuova economia, illegale ma capillare, poggiata sui traffici tra paesi consumatori e paesi produttori, in genere del Terzo Mondo, controllati dalla criminalità organizzata.

Un’inchiesta condotta in Francia dalla giornalista Catherine Lamour e dall’economista Michel R. Lamberti (il nome in realtà era uno pseudonimo) ricostruì la dimensione del fenomeno della diffusione degli oppiacei seguendo il traffico degli stupefacenti – da paesi come il Laos, la Tailandia, il Pakistan, l’Afghanistan, fino alla Turchia, verso gli Stati Uniti – con l’ausilio di carte di polizia, di documenti ufficiali o segreti, fonti giornalistiche, rapporti dell’Onu. L’inchiesta, pubblicata nel 1972 con il titolo Les grandes manœuvres de l’opium (Le grandi manovre dell’oppio), si soffermava in particolare sulla produzione, sull’uso e sugli effetti distruttivi dell’eroina tanto a livello individuale che a quello sociale, inserendosi in un dibattito, continuato a lungo anche in seguito, sulla distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere (come l’hashish e la marijuana), e sui criteri, di repressione o tolleranza di fatto, da adottare nei confronti di queste ultime.

«Droga» e «drogati»

Che cos’è la «droga» e che cos’è un «drogato»? Prima di usare questi termini, occorre spogliarli del carattere peggiorativo – o per lo meno della carica emotiva – attribuito loro da una opinione pubblica troppo condizionata. In realtà, una propaganda accuratamente concertata tende ad associare il consumatore di droga agli «hippies», «capelloni» e «provocatori di disordini» di ogni tipo, che disturbano l’ordine stabilito; nello stesso modo si accomunano con uguale riprovazione intossicati e trafficanti, consumatori e spacciatori di droga.

Non c’è motivo di applicare il termine di drogato a un individuo che consuma in modo saltuario una qualsiasi sostanza stupefacente, come di definire alcolizzato chi abusa occasionalmente di bevande alcooliche. Si può considerare realmente intossicato «chi dedica gran parte del proprio tempo e delle proprie energie a trovare la droga, a pensare ai mezzi per procurarsela, a usarla e a parlarne», o chi «tende a reagire ai problemi che gli si pongono prendendo la droga»¹. In questo caso, si può parlare di «dipendenza psichica». [...]

¹ Dottor Dale D. Cameron, in «Revue de l’Organisation mondiale de la Santé», aprile 1971.

L’esistenza di un termine con un significato così impreciso come la parola «droga» ha permesso di creare delle comode confusioni, evitando di operare la distinzione che invece si impone tra canapa indiana e i suoi derivati – hashish e marijuana –, la cocaina, l’oppio e i suoi derivati – morfina ed eroina –, le anfetamine, i barbiturici e gli allucinogeni. Nell’opinione pubblica si è così radicata l’idea che esista un legame automatico, ineluttabile e maledetto tra la prima sigaretta di hashish e l’iniezione di eroina. Tutti gli specialisti si sono invece accaniti a dimostrare che, nella maggior parte dei casi, non è la tossicomania che genera delle turbe psicologiche o psichiche; sono piuttosto gli individui che soffrono di questo genere di disturbi a cadere nella tossicomania. «Sicuramente molti individui attirati dalla droga hanno dei problemi personali», afferma in sintesi un rapporto dell’Istituto di sanità mentale americano.

[...]

Questo libro si occupa solo dell’eroina, escludendo qualsiasi altra droga. Non che l’uso ripetuto degli eccitanti e degli allucinogeni prodotti per sintesi sia innocuo; può indiscutibilmente provocare delle gravi turbe, persino delle distruzioni fisiologiche irreversibili. Ma di tutte le numerose droghe consumate nel mondo l’eroina è la più temibile, poiché è l’unica, con un altro derivato dell’oppio, la morfina, a ridurre chi le usa a vittime impotenti, creando uno stato di dipendenza fisica quasi irrimediabile al di là di un certo stadio. Finora, tutte le esperienze di disintossicazione hanno dato risultati deludenti. Chi si «aggancia» alla morfina o all’eroina non può più farne a meno, a rischio di patire delle sofferenze intollerabili nei periodi di mancanza. La trappola è scattata: l’eroinomane è diventato un essere sfruttato, a tutto vantaggio delle bande internazionali che vendono sul mercato di New York un chilogrammo di eroina a un milione di dollari, quando la materia prima – 10 chilogrammi di oppio – è costata loro, al massimo, 500 dollari.

Nella misura in cui i loro mezzi, qualunque ne sia l’entità, sono sempre insufficienti, anche i servizi internazionali e nazionali incaricati di reprimere il traffico degli stupefacenti sono giunti a considerare la lotta contro l’eroina come una priorità assoluta, rimandando implicitamente a più tardi la caccia alle altre droghe.

Verso la liberalizzazione della marijuana

La grande polemica sulla marijuana e l’hashish sispegnerà probabilmente da sola molto in fretta, e il consumo di questi due eccitanti entrerà poco per volta nell’uso corrente, come quello del tabacco o dell’alcool. Dal momento che 24 milioni di americani hanno provato almeno una volta la marijuana e che 8 milioni la fumano regolarmente, si può intravedere che l’opposizione al libero uso di questa droga costituisce in definitiva una battaglia persa, come quella per la proibizione dell’alcool negli anni ’30. [...]

Ritengo che la società deve accettare la funzione ricreativa delle droghe come un dato di fatto. Non credo, con ciò, che si debba autorizzare il consumo di qualsiasi droga senza operare una discriminante; molte devono essere proibite, in quanto provocano effetti disastrosi sia nell’individuo che nella società. Ma degli eccitanti come le sigarette, l’alcool o la marijuana sono diversi: il male che fanno è limitato e rientra nella categoria di ciò che la popolazione di questo paese considera apparentemente tollerabile. Si possono condurre delle campagne per stimolare il pubblico a ridurne il consumo, come si è fatto per il tabacco, e queste iniziative hanno la mia approvazione; ma chi potrebbe pensare seriamente di perseguire a termini di legge il fatto di fumare sigarette o di bere alcolici? E tuttavia questi due eccitanti si sono rivelati molto più tossici della marijuana.

[...]

La psicosi dell’eroinomania

L’eroinomania non è un fenomeno nuovo. La diacetilmorfina, un alcaloideottenuto riscaldando una miscela di morfina e di acido acetico, fu messa in commercio per la prima volta nel 1898 dalla ditta tedesca Bayer², ricevendo un’accoglienza degnadi una grande scoperta: si credeva che l’eroina, pur avendo delle proprietà analgesiche dieci volte superiori a quelle della morfina, non portasse allo stesso stato di dipendenza fisica e psichica. Il suo uso si diffuse rapidamente in Europa e soprattutto negli Stati Uniti dove, in pratica, la sua vendita fu libera fino al 1923.

² La Bayer AG è un’importante società chimica tedesca e una delle principali ditte farmaceutiche al mondo: fondata in Germania nel 1863 da Friedrich Bayer, si impose subito nel panorama delle industrie chimiche per coloranti e prodotti farmaceutici. Tra le scoperte che conferirono alla Bayer fama mondiale, vi fu il brevetto dell’acido acetilsalicilico con il nome di «Aspirina», il 6 marzo del 1899.

Dopo la prima guerra mondiale, negli Stati Uniti si contavano almeno 200.000 morfinomani ed eroinomani. A partire dagli anni ’40, gli intossicati americani diminuirono progressivamente, fino a scendere a 20.000 alla fine dell’ultimo conflitto. Una nuova «epidemia» scoppiò all’inizio degli anni ’60, quando il numero degli eroinomani risalì a 50.000; nel 1969, erano già 250.000. Secondo le statistiche del Bndd³, all’inizio del 1972 superavano il mezzo milione e se ne preventivavano 800.000 entro la fine dell’anno. La metà di essi vive a New York, dove sono oltre 300.000.

³ Il Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs, fondato nel 1968, nel 1973 sarebbe stato sciolto nel nuovo Drug Enforcement Administration.

In Europa, pur conoscendo il termine eroina, l’opinione pubblica non si sente ancora coinvolta in modo diretto. Negli Stati Uniti, invece, si è sviluppata una vera e propria psicosi, si è radicata la paura: paura di vedere l’eroina distruggere la propria famiglia, di essere assaliti per strada da un intossicato «in stato di privazione». Ma quando l’eroina era ancora appannaggio dei ghetti neri e portoricani, o l’hobby di qualche personaggio dello spettacolo e del jazz, nessuno se ne preoccupava.

[...]

Ancora all’inizio degli anni ’70, la maggioranza degli eroinomani erano neri, e costituivano il 47 per cento degli intossicati di New York; il 27 per cento erano portoricani e soltanto il 15 per cento bianchi, ma il più delle volte si trattava di ragazzi dai diciotto ai venticinque anni, o anche più giovani.

[...]

L’eroina è diventata un problema nazionale quando ha incominciato a mietere vittime nella classe media americana, tra i ragazzi delle tranquille famiglie che vivono nei quartieri residenziali dei grandi centri urbani. È un fenomeno relativamente recente: per rendersene conto basta consultare l’elenco (già interminabile) degli articoli pubblicati a questo riguardo dalla stampa americana dopo gli anni ’60. Si parla già molto di droga nel periodo 1960-65, e ciò dimostra che la guerra in Vietnam, pur accelerandone il processo, non è stata il solo fattore dell’espansione della tossicomania negli Stati Uniti. Il numero degli articoli aumenta considerevolmente nel periodo che va dal marzo 1965 al marzo 1966, dove si parla sempre più spesso di eroina. Ma è soprattutto dopo il febbraio 1970 che l’elenco si allunga. [...] Tra il marzo 1970 e il febbraio1971 si contano 56 articoli di fondo dedicati alla diffusione della tossicomania nei giovani.

Ventimila intossicati in Francia

[...] Gli Stati Uniti sono stati senz’altro i primi a essere colpiti da questa nuova ondata di tossicomania, dal momento che detengono il primato mondiale di eroinomani. Ma nel 1972 non erano più così isolati come tre anni prima: la domanda di stupefacenti aumenta con regolarità e nello stesso tempo il mercato aperto ai trafficanti internazionali non cessa di allargarsi. Tutti i paesi d’Europa vedono crescere a ritmo vertiginoso il numero dei loro eroinomani: in Francia, se ne contano già 20.000.

È solo dal 1966-68 che si riscontra una sensibile penetrazione della droga in questo paese [...].

Sono innanzitutto le grandi città del Sud – Nizza e Marsiglia – e la regione parigina a essere interessate, ma anche altre città di provincia, come Strasburgo, Besançon, Digione; la tossicomania colpisce principalmente i giovani, e dalla fine del 1970 si registra una proletarizzazione del fenomeno.

Le autorità inglesi, che fino a pochi anni or sono non denunciavano più di 2500 intossicati, adesso ne ammettono 5000; fino al 1971, la Germania federale è stata molto reticente a fornire dati in proposito, nonostante il problema vi abbia un carattere molto preoccupante. In certi paesi del terzo mondo, dove non si erano mai riscontrati problemi di eroinomania, la minaccia si sta delineando: è il caso della Tailandia, del Vietnam del Sud, dell’Iran e, molto più drammatico, di Hong-Kong, dove gli eroinomani sono oltre 12.000 su una popolazione complessiva di 4 milioni di abitanti.

Un modo di vita suicida

Per sopperire alle necessità di polverina bianca, un eroinomane americano deve in media procurarsi dai 30 ai 100 dollari al giorno, vale a dire dai 10.000 ai 36.000 all’anno. Un salario medio non supera i 20.000 dollari: nella migliore delle ipotesi, all’intossicato è appena sufficiente per soddisfare le proprie esigenze. In brevissimo tempo, l’eroinomane rimane vittima del fenomeno di assuefazione, e per raggiungere lo stato euforico che cerca è costretto adassorbire la droga in quantità sempre maggiori; ha sempre più bisogno di denaro e contemporaneamente sempre più difficoltà a lavorare: il suo unico desiderio è rimanersene tranquillo in un angolo e «volare». All’inizio, quando incomincia a «bucarsi», una dose da5 dollari gli basta per avere il flash,una specie di orgasmo che si verifica nel momento in cui l’eroina iniettata nel sangue arriva ad irrigare il cervello; poi, è pervaso da un benessere meraviglioso, un rilassamento intenso che può durare da quattro a cinque ore. «Ci si sente fluttuare, – spiegava Stan, che segueuna cura di disintossicazione in un centro di New York. – Non si vedono più gli sguardi ostili della folla, si dimenticano i propri problemi; è una pace straordinaria».

Ma il corpo si assuefa molto in fretta. Meno del 10 per cento degli intossicati riesce a controllare il proprio consumo di eroina; quello che era stato un piacere diventa, più o meno rapidamente, una necessità fisiologica: il cosiddetto «essere agganciato». La vita diventa un inferno, tutto è incentrato su una sola ossessione: l’«H» o, con un altro termine, il «cavallo» (horse),«la polverina della gioia» (joy powder),il junk...Trovare uno spacciatore, il denaro per pagarlo, riscaldare la miscela di polverina bianca e acqua in un cucchiaio, iniettarsela; poi il flash efinalmente qualche ora di pace. E ricominciare.

In privazione forzata, l’intossicato soffre terribilmente: nel giro di otto-dodici ore è preso dai sudori, gli occhi e il naso gli colano come in preda a un forte raffreddore, il corpo diventa dolorante in modo intollerabile, è scosso da contrazioni che non può controllare e le membra rimangono indolenzite dai crampi, il sonno scompare e si sente pervaso da ondate ora di caldo e ora di freddo. Questo stato fisico si accompagna a un’ansia indicibile. Nel giro di ventiquattr’ore, i disturbi peggiorano; il soggetto viene colto da febbre alta, vomito, diarrea: solo una buona dose di eroina o di morfina può calmarlo.

La tossicomania ha anche altre conseguenze, oltre la «sindrome da astinenza». L’intossicato non si prende più cura del proprio nutrimento: mangiando male e irregolarmente, diventa anemico, perde peso e la sua resistenza all’infezione si riduce. Le cattive condizioni in cui di solito vive fanno di lui un candidato alla tubercolosi. L’eroinomania è una forma di lento suicidio, molti intossicati sperano infatti che la fine dell’avventura sia la morte; quando uno di loro muore per una dose troppo forte, è difficile dire se si è trattato davvero di un incidente involontario. È solo la conclusione logica di un modo di vita suicida.

L’aumento della criminalità

Di natura tranquillo e pacifico, in privazione forzata l’eroinomane può diventare pericoloso; per procurarsi la dose, è pronto a tutto: rubare, aggredire i passanti, anche uccidere. Si calcola che almeno il 50 per cento della criminalità nelle grandi metropoli americane sia direttamente collegato all’abuso delle droghe forti. [...]. I furti commessi negli Stati Uniti dagli intossicati sono dell’ordine di almeno 2 miliardi di dollari l’anno (oltre 1100 miliardi di lire); se a questi si sommano gli stanziamenti del governo federale per la lotta contro i trafficanti e la disintossicazione dei drogati (più di 300 milioni di dollari), oltre ai milioni spesi dai tossicomani che si guadagnano ancora da vivere in modo più o meno normale, si arriva alla cifra astronomica di 4 miliardi di dollari consacrati all’eroina, secondo la valutazione di un sottocomitato del Congresso degli Stati Uniti. La somma non comprende neppure i costi sociali della tossicomania, le carriere spezzate, lo sviluppo vertiginoso delle malattie infettive e, soprattutto, i decessi: solo nel 1971, a New York sono morte 1259 persone per aver assorbito una dose troppo forte di eroina. Tra la popolazione di New York, la droga fa ogni anno più vittime tra i quindici e i trentacinque anni degli incidenti stradali o della guerra in Vietnam.

«New York è una città in stato di assedio. Nella misura in cui aumenta il numero degli intossicati che devono rubare ogni giorno di più, nessuna persona sana di mente accetterà ormai di viverci, se ha i mezzi per fare diversamente... Ne

Atlante del Ventesimo secolo

L'autore

Vittorio Vidotto

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

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