Premessa
Numerosi e svariati – dal linguaggio articolato al «desiderio di assumere farmaci»
(come ebbe a scrivere con autoironia un grande medico, William Osler) – sono i caratteri
differenziali che la scienza ha individuato, di volta in volta, per distinguere l’uomo
dagli altri animali. Recentemente un grande biologo, Christian de Duve, premio Nobel
per la medicina nel 1974, nel libro Come evolve la vita1 dedicato ai propri colleghi dell’Università Cattolica di Lovanio, ha scritto: «L’antropologia
ci insegna che il fenomeno delle religioni è antico e universale. [...] Il sentimento
religioso è profondamente radicato nella nostra stessa natura, forse inciso in essa
dalla selezione naturale. [...] Credo che il sentimento religioso risponda a un bisogno
reale e possa addirittura corrispondere a una realtà vera e propria».
La religiosità antropologica sarebbe dunque un carattere primario e originario, un
vero e proprio distintivo connaturato all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo: lo proverebbe
la valorizzazione dell’homo religiosus oggi messa in atto da più parti. È una valorizzazione condivisibile se intesa come
rivalutazione piena di un alto e sublime sentire e non come riaffermazione egemonica
delle religioni rivelate o di questa o quest’altra fra esse.
Religio: «due sono le etimologie latine del termine», ci dice Régis Debray, filosofo e presidente
onorario del parigino Istituto europeo in scienze delle religioni2. L’una è «religàre, quindi ‘ciò che unisce insieme’»; l’altra è «relègere, quindi ‘ciò che raccoglie’». Unione o raccolta, «nelle nostre lingue sacre non ritroviamo
la parola». Aggiunge, al riguardo, Debray: «Il termine non compare nei Vangeli, non
esiste in greco (la lingua del Nuovo Testamento) [...]. Per una buona metà dell’umanità
attuale la religione – intesa come credenza in Dio, professione di fede, dogma, sacre
scritture – rappresenta una realtà completamente estranea».
Il filosofo conclude la propria riflessione etimologica affermando che tale riflessione
«dovrebbe permetterci di non cedere più alla tentazione di confondere la religione
con il clericalismo, con una confessione religiosa oppure con una credenza in Dio»;
e conclude il proprio saggio, che ha per titolo La religione: evanescenza o perennità?, asserendo che «abbiamo il dovere di ampliare la nostra visione e di cercare di individuare
quello che esiste di comune a tutte le visioni del mondo. Ebbene, questo denominatore
comune è l’esistenza di un punto sublime, di un riferimento ideale che sussiste sia
nel passato [...] sia nel futuro».
Ebbene sia consentito affermare che questo «punto sublime», che «unisce insieme» ed
«esiste in comune», è sì la religio, intesa però non come «religione» ma come «religiosità». La religiosità è altra cosa
dalla religione. Laddove essa esiste non c’è posto per guerre di religione. Se ne
ha la controprova nel fatto che i riemergenti dogmatismi e integralismi favoriscono
la ricomparsa, nel «civilizzato» mondo d’oggi, di anacronistici «scontri di civiltà»
che non hanno nulla di religioso.
Religio come «religione» o come «religiosità»? Un unico guscio lessicale ha due diversi contenuti.
Come «arte del legare insieme» – tale il significato che diamo alla parola –, la religione è fatta per legare fra loro la vita terrena e la vita ultraterrena garantendo all’uomo,
in cambio dell’impossibile immortalità materiale, l’immortalità spirituale o la sopravvivenza
metafisica; la religiosità, invece, è data per legare fra loro gli uomini in quanto carattere antropologico
trasmissibile nel susseguirsi e perpetuarsi delle generazioni. In tale seconda e diversa
accezione, accolta in questo libro, religio è un legame tra libertà personale e tolleranza interpersonale, generato da un’elevata
dignità dell’uomo e da un’estesa fraternità tra gli uomini.
Ciò premesso, nelle pagine che seguono si avanza la tesi che nello statuto della ippocratica
tèchne iatrikè o «arte della cura» la religiosità è carattere genetico, però non dominante, ma recessivo.
Come nel genotipo esistono caratteri recessivi che non appaiono nel fenotipo perché
obliterati dai caratteri dominanti allelomorfi a essi associati, così nel patrimonio
peculiare della medicina esiste il valore della religiosità che si fa manifesto solo
quando non sia obliterato da un disvalore che lo renda inapparente o, all’apparenza
o di fatto, inesistente.
Religio medici è il titolo di un opuscolo medico seicentesco di cui si dirà. Qui si prospetta la
tesi subordinata che il «saper essere medico» è un requisito professionale fondamentale,
acquisito attraverso una educazione (o un’autoeducazione vicariante) che sappia estrarlo
con maieutica socratica dal prerequisito della religiosità connaturata al mestiere.
Come un carattere recessivo compare nel fenotipo soltanto se è doppio, cioè privo
dell’allelomorfo dominante, così colui che professa l’arte della cura, per apparire
e per essere un vero curante, dev’essere religioso due volte: come uomo e come medico.
La cosa può sembrare paradossale quando si pensi che il mestiere di medico, nel corso
della sua evoluzione storica, pur serbando il proprio insostituibile rapporto interumano
tra «soggetti» – il soggetto curante e il soggetto curato – è tuttavia proceduto per
tappe successive attraverso una progressiva desacralizzazione dei propri «oggetti»: la malattia e la salute, il corpo umano, il sangue, il dolore...
Ma la religiosità attinente all’umano non è la sacralità posta sotto il sigillo del divino. In medicina
essa non concerne il sacro, né compete con la desacralizzazione. Essa appartiene da
sempre a ogni iatròs agathòs, a ogni «buon medico» – cattolico, ebraico, islamico, agnostico, ateo – e può ben
dirsi laica (derivando il termine da laòs, «popolo»), che è un attributo pertinente a tutti gli uomini di buona volontà e «di
nessuna chiesa», per usare il titolo dato dal filosofo Giulio Giorello a un suo libro3, considerato il manifesto della «nuova laicità». In tal senso si può concordare con
Roberto Benigni, il quale sostiene che Dante «ha scritto un poema cristiano, ma anche
laico, poiché aveva un senso civile della religiosità»4.
La perenne religiosità laica del medico, che non fa distinzioni di ceto e di censo, né tantomeno di confessione
e di fede, non è stata mai scalfita dalla desacralizzazione o secolarizzazione storica.
La stessa religiosità confessionale è stata da essa solo temporaneamente appannata,
talché il medico Umberto Veronesi, dialogando con Giorello nel libro sulla «libertà
della vita»5, ha rilevato come «la dimensione religiosa, che solo qualche decennio fa appariva
assai ridotta nella nostra società a causa del processo usualmente definito di secolarizzazione,
sia tornata prepotentemente sulla scena».
La religiosità laica è una «religiosità fuori del tempio». È, quindi, letteralmente
una religiosità profana, assimilabile a quella che Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica
di Bose (interprete della tendenza «conciliare» diffusa nella Chiesa cattolica e di
una «controchiesa» critica di «chi uccide l’anima con il denaro e il potere»), definisce
«laicità di rispetto», nella quale tutti possono essere considerati allo stesso modo,
sostitutiva della contrapposta «laicità di rifiuto» degenerante in laicismo.
La religiosità propria del mestiere di medico prescinde dalla religione da questi
eventualmente professata. Medici che appongano alla propria identità l’etichetta di
«cattolici», o «ebraici», o «islamici» non facilitano un affratellarsi che è invece
facilitato dalla religiosità del mestiere che li accomuna e non dalla religione professata
che li divide. Un medico che dovesse cercare ormeggio in una religione, lo troverebbe
o sceglierebbe nella «religione di quel che si deve», avente sede elettiva nella voce
udita da Immanuel Kant e da lui chiamata «coscienza morale», radice e motrice di «ciò
che si deve fare». Di tale «religione del dovere» ci parlano molte storie esemplari
di una religiosità tutta umana, che ammette altri apporti, aggiuntivi ma non sostitutivi,
e che non teme confronti.
Oggi, ancor più che in passato, il «curare» la malattia come «affezione» o guasto
dell’organismo (la lingua inglese usa al riguardo il verbo to cure e il sostantivo disease) non può prescindere in alcun modo, anche se spesso lo fa, dal «prendersi cura» del
malato in quanto portatore di una «afflizione» o sofferenza personale (la lingua inglese
usa al riguardo il verbo to care e il sostantivo illness). La medicina odierna esige più che mai la compresenza di una religiosità interumana
coessenziale e imprescindibile. Senza di essa, la medicina si dimezza: dimezzata,
perde la propria identità istituzionale di tèchne al servizio dell’uomo.
La religiosità è cosa diversa dalla sacralità: mentre questa attiene alla sfera (teologica) del divino, la prima appartiene alla
sfera (antropologica) dell’umano, pur senza preclusione di ogni possibile altra sfera.
Non è da escludere infatti che la sacralità depositata nella fede di un medico cattolico,
o islamico, o ebraico, possa giustapporsi – non superflua, forse accessoria, certo
non vicariante – alla religiosità peculiare del mestiere di medico. A tale religiosità
si richiede di non essere dissacrata, non di essere consacrata.
In questo mio libro ho cercato di rintracciare lo svolgimento storico di due filoni,
fra loro talvolta intrecciati ma sempre distinguibili, dipanatisi l’uno in modo unidirezionale
all’insegna della desacralizzazione, l’altro in modo tutt’affatto diverso alla ricerca di una religiosità «umanologica» inseguita con i passi scanditi dall’etica, con quelli dettati dalla
deontologia, con i comportamenti prescritti dai galatei e anche con gli inciampi condizionati
da quell’etica in miniatura che è l’etichetta. Tutte cose virtuose, più o meno, e
incontestabilmente umane.
Non so se lo scopo prefisso sia stato raggiunto. Quel che so con certezza è che –
come ebbi a scrivere sette anni or sono a chiusura di un mio articolo («Il Sole-24
Ore», 10 settembre 2000) – «sacro è una parola grossa. La storia – historia magistra – insegna a pronunciarla con prudenza e rispetto».
G.C.
Milano, luglio 2007
I. Dal mondo antico all’«ancien régime»
1. In principio era il sacro
«Non esiste nessuna razza umana che non creda negli dèi»: l’affermazione perentoria
è nell’opera De natura deorum (libro II, 5-6) di Marco Tullio Cicerone, scritta da questi nel 45 a.C., due anni
prima di morire. Nell’asserzione ciceroniana la disposizione al sacro sarebbe una
caratteristica antropologica universale che in un recente saggio sulle «orme biologiche
nell’esperienza religiosa» viene collegata alla invisibilità del divino, alla interazione
tra sovrannatura e natura, al valore supremo insito nei principi di necessità e priorità1.
In principio, dunque, era il sacro? E, per quanto qui è di nostro interesse, il carattere
necessitante e prioritario della medicina è la sacralità? Al dire di un grande biologo, «tutto ha avuto inizio con gli dèi», in medicina con
Apollo e Asclepio. «Non esiste praticamente popolo al mondo che non abbia avuto –
o che non possieda tuttora – il suo empireo di dèi»2.
La disposizione richiesta per accostarsi al sacro è, nella Torah o Bibbia ebraica, la tohorah o «purità» del corpo e dell’anima, precondizione indispensabile per mantenersi indenni
da tutti i mali, materiali e morali. Tra gli uni e gli altri c’è differenza, ma non
separazione. Il mondo ebraico è uno solo, è un tutt’uno come unico è il suo Dio trascendente
e al tempo stesso immanente. Ogni cosa che viene da lui è sacra: sacra la malattia,
sacra la guarigione.
Dal Dio biblico veniva tutto il bene, ma anche, a fin di bene o a scopo di giustizia,
tutto il male: tutta la medicina dunque, ma anche tutta la patologia. Dal Dio adirato
uomini e donne venivano colpiti con le malattie, così come i loro progenitori erano
stati puniti del loro peccato originale, l’uomo con il lavoro che affatica, la donna
con il parto che dà dolore.
Fatica e dolore costituivano la fisiopatologia del vivere quotidiano, massimizzata
su vasta scala nelle malattie incombenti sopra il popolo, cioè nelle epidemie come
la lebbra e la peste. La lebbra descritta nel Levitico (terzo dei «cinque libri» che compongono il Pentateuco) è un male onnipervasivo che riassume in sé ogni corruzione, sia fisica che morale.
La peste menzionata nell’Esodo (libro II dello stesso Pentateuco) è la quinta delle dieci «piaghe d’Egitto» con cui il Signore colpì i corpi e le
anime del Faraone e dei suoi sudditi.
La peste è anche uno dei tre flagelli nominati nel II libro di Samuele (24, 11-13 e 15-16): «Va a dire a Davide: così parla il Signore. Ti propongo tre
castighi a scelta: [...] verrà per tre anni la fame nel tuo paese, o per tre mesi
dovrai fuggire davanti ai tuoi nemici che t’inseguiranno, o vi dovranno essere tre
giorni di peste nel tuo regno».
La durata dei tre flagelli biblici – fame, guerra, peste –, perché questi siano oggetto
di un’equa proposta e quindi di una libera scelta da parte di Davide, è inversamente
proporzionale alla loro entità. Questa è massima nel caso della peste, la cui durata
è infatti minima: tre soli giorni. Confidando in tale brevità, «Davide scelse dunque
la peste. [...] Morirono fra il popolo settantamila persone [... finché] il Signore
si mosse a pietà per tanta sciagura e disse all’Angelo che percoteva il popolo: ‘Basta!
Ora ferma la tua mano’».
Dio stesso, come puniva, così guariva. Ancora recita l’Esodo (15, 26): «Se tu veramente ascolterai la voce del Signore Iddio tuo, farai quello
che è retto agli occhi suoi, porgerai orecchio ai suoi comandamenti e osserverai i
suoi statuti, io non ti colpirò con nessuno dei mali con cui ho afflitto gli Egiziani,
perché io sono il Signore, colui che ti guarisce».
Nell’Ecclesiastico, libro di Ben Sira, o Siracide, risalente al II secolo a.C., non incluso nella Bibbia
ebraica ma ripreso nel Talmud, «ammaestramento» giuridico ed etico dell’ebraismo, è scritto (38, 1-4 e 9, 12, 14):
Dall’Altissimo infatti viene la guarigione,
come si ricevono dei doni dal re.
E inoltre:
Figlio, non irritarti della malattia,
ma prega il Signore e ti guarirà.
[...]
Poi chiama pure il medico
perché il Signore l’ha creato;
non lo allontanare;
c’è bisogno anche di lui.
Tempo verrà in cui la salute
sarà nelle sue mani.
È qui prefigurata l’eredità del divino sapere-potere di guarire da parte del medico,
guaritore vicario. La parola «medico» – rofè – compare nel libro di Geremia (8, 22), profeta vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C. Di poco anteriore
è l’Iliade, scritta da Omero nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. (che però narra di fatti
accaduti e di uomini vissuti nella seconda metà del secolo XIII), in cui compare la
parola «medico» – ietèr – riferita a Macàone (libro IV, v. 194), «l’eroe figliuolo d’Asclepio, guaritore
eccellente», del quale si esplicita il rango eccelso (libro XI, v. 514) poiché «l’uomo
guaritore vale molti altri uomini».
Il medico guaritore è per i Greci isótheos, «simile a Dio». Non dissimile lo era anche nelle terre della «civiltà dei fiumi»,
bagnate, oltreché dal Giordano, dal Nilo, dal Tigri, dall’Eufrate.
Nell’Egitto dei faraoni il «medico» – sunu –, facendosi indovino delle malattie interne, perciò invisibili e divine, e agendo
da manipolatore dei mali esterni, mediante imposizione delle mani, si apparentava
o identificava nel sacerdote della dea Sekhmet, titolato a dire se una malattia criptogenetica
(da causa nascosta e quindi misteriosa) fosse cosa naturale, correlata all’essere
corruttibile proprio del corpo, oppure cosa sacra ed esecranda, dovuta a un démone
da esorcizzare.
Il carattere sacro della guarigione e dei suoi esercenti, come pure quello della malattia
e dei suoi agenti, era tale anche nella Mesopotamia dei tempi anteriori e posteriori
al diluvio universale, dove il «medico» – asu – derivava il proprio nome da «colui che conosce l’acqua», intesa come principio
di tutte le cose, come è per Talete, il «fisiologo» studioso della natura e «primo
filosofo» greco, vissuto tra il VII e il VI secolo, traghettatore del «principio acqueo»
dalle antiche culture fluviali, mesopotamica ed egizia, alla teoria umoralista della
medicina ippocratica.
Quanto alla sacralità al di là dell’Egeo, nella Grecia postomerica e preippocratica,
culti e miti della medicina si incarnavano in Asclepio, il semidio adulterino nato
da taglio cesareo praticato, a cadavere materno ancor caldo, dal padre Apollo. Recita
Pindaro nella terza Ode pitica:
Asclepio, l’artefice mite
che placa le pene e rinsalda le membra,
l’eroe che protegge da tutte le specie dei morbi,
[...] quanti vennero a lui
compagni di piaghe congenite
o feriti nelle membra
dal lucido bronzo o dal getto di pietre
o disfatti nel corpo
da febbri estive o dal gelo,
li congedava disciolti
dall’un dolore e dall’altro.
Apollo, padre del semidio istruito a guarire dal centauro Chirone, è il dio che scaglia
dardi mortali nel campo dei Greci, dei quali Agamennone, reo di colpa grave contro
la divinità, è il capo supremo. Sotto le mura di Troia, il dio irato
i muli colpiva in principio e i cani veloci,
ma poi mirando gli uomini la freccia acuta
lanciava, e di continuo le pire dei morti ardevano fitte.
Il quadro, dipinto da Omero all’inizio dell’Iliade (I, 50-52), è quello di una malattia mortale diffusa, sia degli animali (epizoozia)
che degli uomini (epidemia). Essa complica gli eventi bellici intorno alla città assediata,
poiché «guerra e peste insieme abbatton gli Achei» (I, 61).
Il dio che punisce è il genitore del semidio che guarisce. Il culto di costui, «eroe
protettore da tutte le specie dei morbi», si impose stabilmente a partire dal VI secolo
a.C. Negli «asclepiei», templi della salute sparsi in Grecia un po’ dovunque, chi
operava la guarigione era l’asclepiade, il sacerdote di Asclepio ispirato dalla visione della statua crisoelefantina del
semidio, rappresentato come un uomo maturo, barbuto o imberbe (variando l’effige da
luogo a luogo), con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata alla testa di
un serpente; accucciato ai suoi piedi un cane. Cani e serpenti avevano lingua per
leccare, lenire, guarire le piaghe; con le civette oracolari e le capre nutrici, erano
animali sacri. Emulo del semidio guaritore, l’asclepiade sottostava alla maggior sapienza-potenza
esistente nel tempio, quella dello ierofante, divino «interprete del sacro».
L’interpretazione rituale, per chi accedeva al tempio, consisteva nella «purificazione»
preliminare, seguita dal sacrificio di un animale – «un gallo ad Asclepio», dice Socrate
nel Fedone – accompagnato da invocazione propiziatoria. Dopo tale offerta, il malato si coricava
nell’àbaton (da alfa privativo e bàino, «cammino»), «luogo dove non si cammina», inaccessibile e sacro. Era un luogo di
degenza clinica (da klìno, «giaccio»), dove egli passava il giorno e la notte, immerso nel «sonno incubatorio»
propiziato da Hypnos, semidio dell’ipnosi, e consolato dalle visioni oniriche propiziate
da Oneiros, semidio dei sogni, anche di quelli a occhi aperti. Dai sonni e dai sogni,
il malato si ridestava talora miracolato, per suggestione, ma più spesso disponibile
a confidarsi con l’asclepiade; e questi era altrettanto disponibile a riceverne le
confidenze – confessione, fiducia, speranza – alle quali corrispondere con consigli
e conforti, con previsioni e prescrizioni (prognostiche e terapeutiche).
Nella Grecia classica «gli asclepiadi assunsero caratteristiche sacerdotali o sacrali
e come tali continuarono a disseminarsi. Fra di essi comparve Ippocrate»3. La sacralità gli fu trasmessa sotto forma di religiosità.
L’etica dei medici ippocratici fu formalmente religiosa. L’interpretazione positivista
della cultura greca si è compiaciuta nel presentare la medicina ippocratica come una
sorta di ‘laicizzazione scientifica’ [...]. L’impresa dei fondatori della tèchne iatriké
[o ‘arte praticata dallo iatròs’, dal ‘medico’] ebbe senza dubbio come ultimo fondamento
un cambiamento dell’atteggiamento religioso dell’uomo greco [...]. Accanto alla vecchia
religiosità culturale, olimpica, dionisiaca e orfica [leggi sacralità], apparve, in
determinati circoli, una religiosità colta [leggi religiosità ‘tout court’], la cui
maggior forza consistette nell’accentuare intellettualmente il carattere divino della
physis, [della] natura universale e materna4.
Questa diversa od opposta interpretazione storiografica si presta ad avallare la tesi
che la sacralità necessitante e prioritaria delle origini, ancorata al divino, abbia ceduto il passo
non a una anacronistica scientificità, bensì a una religiosità radicale, dapprima panteistica e poi sempre più connaturata all’essere medico e da
considerarsi, con pieno diritto, tra i caratteri originali della tèchne iatriké o come suo prerequisito antropologico, umano.
Sacralità e religiosità non sono sinonimi. La trasmissione o transizione dall’una
all’altra fu di lunga durata, con ambivalenze e interscambi. Ancora in età romano-imperiale,
quando la medicina ippocratica era ormai consolidata nella teoria e nella pratica
codificate da Claudio Galeno, lo scrittore greco Pausania, vissuto come Galeno nel
II secolo d.C., tracciando nella sua Periegesi della Grecia una mappa degli «asclepiei» operativi, vide questi ultimi sparsi un po’ dovunque.
Nello stesso periodo «un fatto storico di grande importanza fu la grave pestilenza
che nel 167 d.C. si diffuse da Oriente durante la guerra contro i Parti. Dimostratisi
incompetenti i medici», talché lo stesso Galeno fuggì da Roma cito, longe, tarde («al più presto, per andar lontano e tornare il più tardi possibile»), «le città
si rivolsero agli oracoli; e sussistono vari responsi oracolari di questo periodo,
che parlano dell’ira degli dèi e dei riti opportuni per porvi rimedio»5.
Fatti consimili si ripeteranno molte volte, anche ben oltre il periodo storico predetto.
Dal Medioevo all’età moderna, di fronte alla «incompetenza» o inadeguatezza della
medicina nel controllo di tanti mali individuali e collettivi, i singoli uomini o
le loro comunità cercheranno spesso le risorse mancanti nell’ambito della sacralità.
Un esempio fra i tanti: nel 1496, alla Dieta di Worms, l’imperatore Massimiliano I
affermerà che il «mal franzese» (sifilide), importato dalle Indie occidentali da poco
scoperte ed esploso in Europa in forma epidemica, era una punizione inflitta da Dio
a chi abusava turpemente del suo nome; in coerenza con tale affermazione emanerà un
editto contro la bestemmia. Gli farà eco il medico transalpino Joseph Grünpeck, il
quale scriverà che per tutti i malati «infranciosati» (sifilitici) c’era la risorsa
di affidarsi «all’astripotente Gesù Cristo, medico primario, e alla sua divina madre
Maria Vergine»6.
Dio era un medico, peraltro, che non faceva sconti: un cronista coevo, Francesco Muralto,
noterà che «il male serviva ottimamente per discriminare i buoni dai cattivi», in
tal modo «fornendo ai predicatori che tuonavano dai pulpiti un argomento fortissimo
costituito dalla implacabile conseguenza della vendetta divina»7.
In medicina, la religiosità è altra cosa dalla sacralità. Essa non è cosa succedanea
o vicariante, compensatoria ed estrinseca. È invece intrinseca alla struttura della
medicina, che il padre Ippocrate teneva nettamente distinta vuoi dalla sacralità degli
«asclepiadi», mediatori del divino, vuoi dalla pretesa dei «filosofi» di postulare
speculativamente le leggi di natura. La religiosità ippocratica era una «antropologia
della medicina che si poneva all’origine come un sapere critico delle due sapienze
fiancheggiatrici»8.
2. Religiosità ippocratica
«L’etica dei medici ippocratici fu fondamentalmente religiosa», s’è detto citando
una fonte autorevole; lo fu nella sostanza, conformemente a una natura umana gradualmente
emancipatasi dalla sudditanza al sacro e autoreferenziata in base a criteri suoi propri,
naturali e specifici.
La specificità della medicina ippocratica è la sua religiosità antropologica, intrinseca
al suo rapportarsi all’uomo senziente, dolente, paziente. Diversamente dalle sapienze
rivali – il perdurante culto del divino e la nascente cultura filosofica – «la nuova
medicina si presenta[va] come un sapere laico, razionale, efficace, relativo alla
conoscenza dei corpi e alla cura delle malattie», un sapere alto, necessitato a «conquistarsi
con le sue sole forze uno spazio professionale che le è [era] conteso dai guaritori
di origine sacerdotale» da un lato, e dall’altro dai filosofi pronti a «dettar legge
sulla base dei loro generalissimi postulati in un campo [...] che invece richiede[va]
complesse competenze e un’esperienza diretta e specifica»9.
È suffragato da una tradizione consolidata il fatto che la medicina ippocratica ha
esibito il proprio manifesto etico-pratico nello Iusiurandum, testo dei «doveri sui quali giurare». Il Giuramento d’Ippocrate è «un testo senza età, le cui origini si situano ben prima del grande Ippocrate e
si confondono con le origini stesse della stirpe degli Asclepiadi»10.
Si tratta di un testo composito, dalle molte stratificazioni e incrostazioni aggiuntive
e successive alla sua sacralità originaria: «Giuro su Apollo medico e su Asclepio
e Igea». L’incipit, testuale e storico, è l’invocazione propiziatoria delle divinità olimpiche del gruppo
apollineo, tra cui Igea, legittima figlia di Apollo, mitica incarnazione di quella
che sarà la medicina «igienica», e Asclepio, che sappiamo essere figlio adulterino
del dio e mitica incarnazione di quella che sarà la medicina «clinica».
Prosegue il testo: «Considererò come padre colui che mi iniziò e mi fu maestro in
quest’arte [...]; considererò come miei fratelli i suoi figli, e se essi vorranno
apprendere quest’arte, insegnerò loro senza compenso [...] e così ai discepoli che
abbiano giurato di volersi dedicare a questa professione»11.
Questo impegno giurato è stato visto, di volta in volta, come vincolo tra maestro
e allievo, o patto d’iniziazione, o contratto associativo, o dettato deontologico,
o carta giuridica, o somma di divieti:
Giammai, mosso dalle pressanti richieste di alcuni, propinerò medicinali letali [...].
Mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire [...].
Non opererò i malati di calcoli, lasciando tal compito agli esperti di quell’arte.
Più che di espliciti divieti verso forme di eutanasia attiva, di pratiche abortive,
di chirurgia «delle parti di sotto» comprendente, oltre al trattamento litotomico
del «mal della pietra», le tecniche di castrazione, si tratta di norme morali rivolte,
rispettivamente, contro la procedura giuridica del suicidio per avvelenamento assistito
dal medico quale mezzo di esecuzione capitale (si pensi alla cicuta data a Socrate),
contro una cultura che considerava lecito perfino l’infanticidio qualora il padre
del bambino lo ritenesse opportuno, contro un’attività culturalmente e socialmente
bassolocata come quella esercitata da manovali quali appunto i «chirurghi».
Si legge ancora: «In qualsiasi casa entrato, baderò soltanto alla salute degli infermi,
rifuggendo da ogni sospetto di ingiustizia e di corruzione, e soprattutto dal desiderio
di illecite relazioni con donne o con uomini sia liberi che schiavi». È una regola
di comportamento che esprime il rispetto per la proprietà altrui – la donna d’altri,
gli schiavi – e il rispetto per la propria arte, che è detta «casta e pura», virtuosa,
monda da licenziosità sessuali eterologhe e omologhe.
«Tutto quello che durante la cura e anche all’infuori di essa avrò visto e avrò ascoltato
sulla vita comune delle persone e che non dovrà essere divulgato, tacerò come cosa
sacra». La sacralità è quella del segreto professionale, ma anche quella di uno spirito
di casta che induce a non comunicare al profano, al paziente, ciò che è pienamente
comprensibile solo dal sapiente, dal medico: più che di rispetto per l’intimità del
malato (per la sua privacy, oggi diremmo), si tratta di difesa di quel tanto di sacro che si vuole serbare come
privilegio a una professione altrimenti avviata a essere progressivamente desacralizzata.
Il Giuramento, in definitiva, è un andirivieni tra sacralità originaria e desacralizzazione. Il
suo iter zigzagante, lungo più secoli, ha un punto fermo o un approdo in una nuova
religiosità: «Che io possa, se avrò con ogni scrupolo osservato questo mio giuramento
senza mai trasgredirlo, vivere a lungo e felicemente nella piena stima di tutti, e
raccogliere copiosi frutti dalla mia arte. Che se invece lo violerò e sarò quindi
spergiuro, possa capitarmi tutto il contrario». Mi punisca – questa la chiosa – la
mancanza del successo, la perdita del prestigio: non più l’ira degli dèi. Per il medico
spergiuro non c’è il castigo divino, ma una sanzione morale più dura e inesorabile
di ogni punizione sacra.
La nuova religiosità fu pienamente recepita dal pensiero platonico: «Platone era un
seguace di Ippocrate [...] e prese da lui le principali dottrine». È quanto assevera
Claudio Galeno nel trattato L’utilità delle parti (libro I, VIII) sostenendo un nesso di paternità-filiazione recentemente valorizzato
in sede storiografica: «Platone vedeva nella medicina un modello di sapere compiuto»
e «un potere motivato non dall’interesse, ma dal sapere, dalla dedizione terapeutica,
dalla persuasione finalizzata al servizio della salute». La medicina ippocratica veniva
ad assumere «un duplice rilievo esemplare: metodico da un lato, etico-politico dall’altro»12.
L’etica del rapporto con il malato era una religiosità nuova, assimilata dalla stessa
lingua greca che annoverava un caso nominale e una forma verbale – il «duale» – propri
di una relazione «a due» come quella d’amore e d’amicizia, in Grecia eminente, e come
appunto il rapporto antropologico-medico tra curanti e curati. Prerequisito dello
iatròs agathòs, del «buon medico», era non solo la philotechnìa, tecnofilo «amore per l’arte», ma anche la philanthropìa, filantropica «amicizia per l’uomo». Il rapporto del medico con il malato, in sé
squilibrato e asimmetrico poiché alla sapienza-potenza del primo corrispondeva la
dipendenza del secondo, era riequilibrato e riportato in simmetria dal dovere che il medico responsabilmente si dava per assicurare al paziente il diritto di essere adeguatamente assistito e curato13.
Da Platone ad Aristotele: «l’idea platonica dell’amicizia sopravvive in maniera latente
nelle pagine dell’Etica Nicomachea», dov’è la distinzione aristotelica, dall’amicizia iperbolica propria dell’éros e dall’amicizia «imperfetta» finalizzata alla propria utilità, dell’amicizia «perfetta
[che] invece si basa su quello che l’amico è, cioè sul suo carattere individuale o
éthos». L’etica medica, compiutamente realizzata attraverso la progressiva «iatrificazione
dell’asclepiade ippocratico», nasce da una religiosità naturale inerente al fatto
che «per il pensiero greco l’amicizia e la philanthropìa furono sempre physiophilìa, amore per la natura universale, in quanto specificata come ‘natura umana’»14.
La religiosità del medico ippocratico è una naturalizzazione del sacro, un’antropologia
della sacralità, svincolata da legami preternaturali al divino. Afferisce a valori,
più che supremi, profondi, radicati nella coscienza morale e pertanto non riconducibili
a una sorta di propria miniatura, a un’etica ridotta a etichetta e attinente, più
che alla sfera dei valori e dei doveri intimamente vissuti, alla sfera dei costumi
e dei comportamenti esteriori.
Sotto quest’ultimo aspetto, più epifenomenico che riguardante la fenomenologia evolutiva
del medico, la figura di questi s’è poi incarnata in quella, delineata da Galeno,
del medicus gratiosus. «Il medico, che è prima di tutto un intellettuale, non può vendere la sua scienza
come un qualsiasi kàpelos, un bottegaio di piazza». Questo medico galenico «cura i suoi pazienti per pura filantropia,
secondo un modello che Galeno legge in Ippocrate»; ma per marcare la sua distanza
elitaria da un mestiere volto alla cura di tutti, dagli aristocratici agli schiavi,
egli assume modi e fattezze da medico altolocato e dotto, dagli avversari definito
log-iatròs, «medico a parole», accusato di «vivere la propria filantropia come una chàris», come una «grazia», come un’attività di favore, esercitata «soprattutto nella cerchia
delle famiglie degli ottimati e dei principi, dove è fuori di luogo parlare di retribuzione»15.
Di questo medico «esibitore di gradevolezza» si è tratteggiato
il discorrere vario, come eloquenza e contenuto, adatto alla cultura e ai gusti dell’ammalato;
l’atteggiamento generalmente moderato, intermedio tra il dimesso e il presuntuoso,
ma modulabile verso l’uno o l’altro estremo secondo le preferenze e le opportunità;
così il vestire né lussuoso né trasandato, la giudiziosa scelta della qualità e dell’intensità
del profumo e la cura dei capelli secondo le esigenze dell’apparire elegante e pulito.
I doveri si compendiano in un dovere minore:
tutto deve concorrere alla conquista di ascendente e di potere, e il compiacere all’ammalato
è funzione di questa conquista. La comunicazione con l’ammalato è menzionata e raccomandata,
ma sempre nel quadro della fiducia obbligatoria verso chi ne sa più di lui. La dovuta
remunerazione fa parte di ogni buon rapporto16.
Nel lungo viaggio attraverso i secoli, all’etica ippocratica resterà adesa l’etichetta
galenica. Alla sostanziale religiosità del mestiere di medico potrà sostituirsi un
formale «galateo».
3. Desacralizzare la malattia
La sacralità asclepiadea dei culti, dei riti e dei miti, radicalmente trasformata
nella religiosità ippocratica di una «antropofilia» resa concreta nel rapporto duale
fra medico e malato, ammette anche una desacralizzazione non etica, ma tecnica, riguardante
non gli aspetti morali, ma quelli inerenti all’attività pratica propria dello iatròs agathòs, del «buon medico».
La tèchne di costui è irriducibile alla «tecnica» attuale, non già perché come questa non tiene
in gran conto gli dèi, ma perché diversamente da essa serba tutt’intera la propria
finalità verso l’uomo. Il suo nome, maturato tra VI e V secolo a.C. nell’area geografica
dello Ionio e dell’Egeo, tra Magna Grecia e madre Grecia e tra questa e l’Asia Minore,
ha un’accezione tutt’affatto diversa da quella odierna.
Fra le antiche tèchnai c’erano quella georgiké (georgica) del contadino che lavorava la terra e quella kibernetiké (cibernetica) del marinaio che pilotava la nave. Quella iatriké (medica), propria di colui che curava l’uomo, aveva qualcosa da spartire con l’una
e con l’altra. Infatti, come il contadino coltivava le piante di cui curava le malattie
(e di cui, se necessario, amputava le parti malate) e come il marinaio guidava l’imbarcazione
tra i flutti procellosi verso il porto sicuro, così il medico era il cultore e il
curante della salute altrui, la guida dell’altrui condotta per preservare o ricuperare
la salute medesima17.
Il nome tèchne era indicativo di un’arte o mestiere non meramente pratico e manuale, ma – come quelli
del contadino esperto di agricoltura e del marinaio esperto di navigazione – provvisto
di una propria procedura logica e di una propria teoria di riferimento. La procedura
era il metodo clinico e questo era produttivo di una «teoria della conoscenza» o epistéme. Metodo ed episteme erano ambedue fatti oggetto di menzione esplicita da parte di
Ippocrate nel trattato sull’Antica medicina, databile tra il 430 e il 415 a.C.: «La medicina da gran tempo ormai dispone di tutti
gli elementi, e il principio e la via sono stati scoperti»18.
«Via» e «principio» erano rispettivamente il metodo e la teoria con cui il medico
ippocratico era in grado di conoscere e utilizzare operativamente la struttura naturale e le cause razionali delle malattie. Lo esplicita sempre Ippocrate nel trattato sul Male sacro, cronologicamente collocabile nello stesso periodo del trattato precedente: «Per
nulla questo male» – l’epilessia – «è più divino delle altre malattie o più sacro,
ma ha struttura naturale e cause razionali; gli uomini tuttavia lo ritennero in qualche modo opera divina per inesperienza o
stupore»19.
La metodologia clinica era il procedere del medico tra sintomi e storie, con la rilevazione
sensoriale degli uni attraverso lo sguardo e il tocco (ispezione e palpazione) e con
la raccolta delle altre attraverso l’ascolto (anamnesi). L’epistemologia medica era
la teoria tetraumorale – sangue, flegma o muco, bile, atrabile – elaborata per inferenza
dai dati clinici emergenti dall’osservazione: dal sangue stillante dalle ferite, dal
flegma o muco secreto da naso e faringe, dalla bile gialla o nera colorante in modo
vario gli escreti.
Quel che fuoriusciva dal corpo umano doveva, per forza di ragionamento, esser prima stato dentro. Una sorta di endoscopia logica, argomentativa, vedeva all’interno del soma la presenza
e la cràsi (miscela) dei quattro umori naturali e una illazione analogica vedeva tale umoralità
rispecchiarsi nei quattro temperamenti psichici, sanguigno, flemmatico, biliare o
collerico, atrabilare o melanconico. Umori e temperamenti, se miscelati in modo armonico,
davano luogo all’eucrasìa (buona miscela) corrispondente alla salute; se miscelati in modo disarmonico, davano
luogo alla discrasìa (cattiva miscela) corrispondente alla malattia.
La desacralizzazione ippocratica della malattia investiva la malattia, oggetto principale
della medicina, da ribaltare in salute, oggetto non secondario della medicina medesima.
Ippocrate porta in profondità il proprio attacco rivolgendolo verso i sostenitori
e gli interpreti della sacralità: «In verità io ritengo che i primi a conferire un
carattere sacro a questa malattia sono stati uomini quali ancor oggi ve ne sono, [...]
ciarlatani e impostori, tutti che pretendono d’essere estremamente devoti e di veder
più lontano»20. La loro devozione al sacro è, per Ippocrate, pretestuosa; e la loro pretesa di veder
più lontano è un’impostura basata su ciarle, non su ragioni.
La malattia desacralizzata presa a modello di tutta quanta la patologia è l’epilessia.
Epilepsìa, nome naturale e razionale del «male sacro», deriva dal verbo greco epilambáno, che fa riferimento all’«essere sorpreso» e all’«essere sopraffatto» proprio di chi,
improvvisamente e in pieno benessere, è colto da perdita di coscienza con caduta a
terra e morte apparente. Una tale malattia, determinante un problematico andirivieni
dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, poteva essere ritenuta misteriosa,
apparentata al demoniaco o al divino, in una parola, «sacra».
Nell’antichità greco-romana la malattia era detta anche «morbo erculeo», con riferimento
alla mitica figura di Ercole, il semidio afferrato sovente dal raptus di violente
passioni, oppure «morbo comiziale», perché i comizi nei quali un astante fosse colto
da una crisi del male venivano tosto sospesi. L’evangelista Matteo chiama «lunatico»
l’epilettico miracolosamente liberato grazie all’intervento guaritore di Gesù e «morbo
lunatico» veniva etichettato il «male sacro» posto sotto la protezione di Selene,
la dea Luna identificata dai Greci in Artemide, Diana, saettatrice al pari del fratello
Febo Apollo, come questi divina dispensatrice di punizioni sotto forma di malattie.
La desacralizzazione si estende progressivamente a tutta quanta la patologia. Un’altra
malattia storica, la lebbra, appariva come misteriosa e sacra – elephas sacer – perché nella sua forma classica copriva il corpo di piaghe e attutiva la sensibilità
fino al punto che il lebbroso poteva bruciarsi un arto senza accorgersene. Una malattia
siffatta, che rendeva ributtanti e faceva cadere a pezzi le dita delle mani e dei
piedi, e in cui l’infissione nelle parti malate di un lungo spillone era del tutto
indolore costituendo la «prova dell’anestesia» utilizzata dai medici a scopo diagnostico,
non poteva non apparire carica di mistero, sacra ed esecranda, proprio come l’epilessia.
A proposito di quest’ultima, Ippocrate ribadisce: «A me dunque questa malattia non
pare affatto esser più divina delle altre, bensì ha una base naturale comune a tutte,
e una causa razionale dalla quale ciascuna dipende: ed è curabile, per nulla meno
delle altre»21.
L’epilessia è ricondotta con criteri razionali alla sua origine naturale, indenne
da ogni sovrannatura: «Di fatto responsabile di questo male è il cervello»22.
Le neuroscienze ottocentesche porteranno a riconoscere l’epilessia come malattia autonoma
del cervello (William Heberden); forniranno alla malattia il suo inquadramento nosografico
(Etienne Esquirol); consentiranno la sua differenziazione clinica dall’isterìa (Jean-Martin
Charcot); acquisiranno il moderno concetto che la convulsione epilettica «è un sintomo
dovuto a una scarica occasionale, eccessiva e disordinata, dal tessuto nervoso ai
muscoli» (John Hughlings Jackson) in rapporto a un focus irritativo cerebrale sperimentalmente
riproducibile mediante elettrostimolazione in questo o quel punto della corteccia
del cervello (Gustav Fritsch e Eduard Hitzig)23.
La fisiopatologia del cervello epilettico autorizza Ippocrate a trarne rilievi euristici
che addirittura gli consentono di distinguere e classificare due varietà della pazzia,
scomponendo – oggi diremmo – la sindrome maniaco-depressiva nelle sue due forme, depressiva
e maniacale: «La corruzione del cervello dipende dal flegma e dalla bile. Si potrà
comprendere l’azione dell’uno e dell’altra così: chi è impazzito a causa del flegma
resta tranquillo, non grida e non lancia clamori; chi invece [lo è] a causa della
bile, urla, agisce male, è inquieto, compie gesti inopportuni»24.
La conclusione è perentoria: «Questo male dunque, cosiddetto sacro, deriva dalle stesse
cause razionali degli altri, da fattori che s’aggiungono e si sottraggono»25.
Tra i fattori aggiuntivi la sacralità non ha cittadinanza.
4. Umanesimo orientale
Desacralizzazione non vuol dire irreligiosità. Desacralizzare il mestiere di medico
e naturalizzarne gli oggetti – salute e malattia – non significa privarlo della religiosità
intersoggettiva che gli appartiene per statuto. Mestiere viene da ministerium, e questo termine, pur dotato d’incrocio lessicale con misterium, tuttavia non significa un’attività «misteriosa» e sacra, ma un «servizio» reso ai
suoi simili da parte di un uomo diverso dagli altri solo in quanto privilegiato e
più esperto, interprete della salute e della malattia come fenomeni naturali, secondo
ragione, e non come entità preternaturali, secondo rivelazione.
La salute non è un dono degli dèi. La malattia affligge l’uomo, ma chi la infligge
non è la mano divina. La concezione ontologica, che considera salute e malattia come enti preternaturali dei quali l’uno scaccia
l’altro, è sostituita nel medico ippocratico dalla concezione fenomenologica, che le considera ambedue come manifestazioni della naturalità dell’uomo e in grado
di trapassare l’una nell’altra, e viceversa, talora perfino coesistendo26.
Ciò nulla toglie al fatto che il mestiere di medico resti provvisto della sua intrinseca
religiosità, come rivelano, con varie sfumature, codici di comportamento e giuramenti
prescrittivi fioriti anticamente in diverse realtà culturali. Appartiene alla realtà
estremo-orientale ispirata dal pensiero taoista un codice risalente alla dinastia
Hang, dominante in Cina nei quattro secoli (dal 200 a.C. al 200 d.C.) in cui, all’altra
estremità del mondo allora conosciuto, si succedevano in Roma figure di medici eminenti
che rispondevano ai nomi di Arcagato, Asclepiade di Bitinia, Aulo Cornelio Celso,
Claudio Galeno.
Il codice cinese recita che il medico «deve avere sentimenti di compassione per l’ammalato e impegnarsi
ad alleviare le sofferenze qualunque sia il ceto. [...] Egli deve guardare alla miseria
dell’infermo come se fosse la sua propria [...]. Chi segue questo principio è un grande
medico, se no è un grande ladro»27.
Appartiene alla realtà medio-orientale un giuramento che risale ad Asaf ha-Rofè, «Asaf
il medico» detto anche «Asaf l’Ebreo», vissuto in un’epoca non bene precisata, ma
sicuramente anteriore alla conquista del Medio Oriente da parte dell’Islam e collocabile
approssimativamente nel VI secolo d.C. Asaf è l’autore di un libro nel quale molte
frasi incominciano con le parole «io ti insegnerò» indicative che il testo corrisponde
verosimilmente alla scrittura di lezioni orali impartite da un maestro ai discepoli.
Il giuramento ebraico è un incalzare di divieti:
Non ucciderete nessun uomo col succo di una radice, né somministrerete alcuna pozione
a una donna in attesa di un figlio perché abortisca; non vi perderete dietro le belle
donne per commettere adulterio con loro; non rivelerete i segreti che vi sono stati
affidati [...]; non indurirete il vostro cuore verso il povero e il bisognoso, ma
li curerete; non chiamerete bene il male e male il bene; non vi comporterete come
i maghi per ammaliare e stregare.
E ancora: «Non abbassatevi alla cupidigia [...]; non preparate veleni [...]; non causate
danno a chicchessia e non provocate una lesione ad alcuno per la fretta di tagliare
le membra con uno strumento di ferro o mediante cauterizzazione»28.
Il testo ebraico riprende e rielabora alcuni temi importanti del giuramento di Ippocrate,
intimando agli adepti di evitare la iatrogenesi delle malattie, l’uso spregiudicato
dei ferri chirurgici, l’aborto in determinate situazioni e sempre il veneficio, massima
contraddizione del primum non nocere (ogni veleno a basse dosi è un farmaco, ogni farmaco ad alte dosi è un veleno). Il
giuramento di Asaf aggiunge però, di suo, un’esplicita presa di distanza da ogni «magìa»
o «stregoneria» e, soprattutto, una forte tensione affettiva, filantropica, verso
il «povero» e il «bisognoso». Rivolge inoltre un’attenzione tutta speciale alla distinzione
del «bene» dal «male» e alla necessità di comportarsi di conseguenza, in modo virtuoso.
Peraltro connette tale virtù al modellarsi del mestiere di medico a immagine e somiglianza
dell’opera di Dio, «Dio di Verità», «giacché Egli dà la morte e dà la vita, colpisce
e guarisce [...]. Sono nelle sue mani la vita e la morte di ogni creatura vivente
e nessuno può sfuggire alla sua mano [...]. Dio è con voi quando voi siete con lui».
L’autore del giuramento ebraico dà prova, nel proprio retaggio medico e rabbinico
(in un contesto socioculturale dove le due funzioni sono spesso associate nella medesima
persona), di una sapiente mediazione tra l’unica e suprema Verità rivelata da Dio
e le tante piccole verità acquisite dalla ragione umana nell’esercizio del mestiere29.
Dallo stesso Medio Oriente emergono, non solo dall’ebraismo ma anche dal cristianesimo
delle origini, valori di grande rilevanza per il mestiere di medico. Già l’evangelista
Luca, «diletto medico» al dire d
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