Prefazione
La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il
mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione
in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una
vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta; anziché mitigarsi, la nostra insicurezza
aumenta di giorno in giorno, e così continuiamo a sognare, a tentare e a fallire.
L’insicurezza attanaglia tutti noi, immersi come siamo in un impalpabile e imprevedibile mondo fatto di liberalizzazione,
flessibilità, competitività ed endemica incertezza, ma ciascuno di noi consuma la
propria ansia da solo, vivendola come un problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una
sfida alle doti e capacità individuali. Siamo indotti a cercare, come Ulrich Beck
ha causticamente osservato, soluzioni personali a contraddizioni sistemiche; cerchiamo la salvezza individuale da problemi comuni. Tale strategia ha ben poche speranze di sortire gli effetti desiderati, dal momento
che non intacca le radici stesse dell’insicurezza; inoltre, è precisamente questo
ripiegare sulle nostre risorse e capacità individuali che alimenta nel mondo quell’insicurezza
che tentiamo di rifuggire.
Capita sovente che, seduti in un treno fermo alla stazione e vedendo il convoglio
del binario accanto iniziare a muoversi, ci sembra che sia il nostro treno a partire.
In un altro caso di illusione ottica, il nostro io ci appare l’unico elemento stabile
nel bel mezzo di un mondo estremamente volatile in cui tutti gli oggetti apparentemente
solidi continuano ad apparire e sparire, a cambiare forma e colore ogni volta che
vi poggiamo lo sguardo. Il nostro corpo e la nostra anima hanno una speranza di vita
maggiore di qualunque altra cosa al mondo; ogni qual volta ricerchiamo la certezza,
la cosa più saggia da fare ci sembra investire nell’autopreservazione. E così cerchiamo
di trovare rimedio ai disagi dell’incertezza nella ricerca di sicurezza, vale a dire
nell’integrità del nostro corpo e di tutte le sue estensioni e baluardi: la nostra
casa, i nostri beni, il quartiere in cui viviamo. E nel fare ciò, cresce in noi la
diffidenza nei confronti di quanti ci circondano, e in particolare degli estranei.
Gli estranei sono l’incarnazione stessa dell’insicurezza e di conseguenza impersonificano
l’incertezza che tormenta la nostra vita. Da un certo punto di vista, bizzarro quanto
perverso, la loro presenza è rinfrancante, perfino rassicurante: le nostre paure soffuse
e frammentate, difficili da inquadrare e definire, hanno ora un bersaglio concreto
su cui focalizzarsi; ora sappiamo dove cova il pericolo e non è più necessario attendere
a capo chino i colpi che il destino ci riserva. Finalmente possiamo fare qualcosa.
È difficile (e alla fin fine avvilente) doversi preoccupare di minacce che non possiamo
chiamare per nome, e tanto meno rintuzzare. Le fonti dell’incertezza sono ben nascoste
e non compaiono sulle cartine geografiche in vendita dai giornalai, cosicché non possiamo
né individuarle con precisione né tentare di porvi fine. Le sue cause, tuttavia, quelle
misteriose sostanze che mettiamo in bocca o quegli strani individui che percorrono,
non invitati, le nostre strade usuali, sono tutte fin troppo visibili. Sono lì a portata
di mano, per così dire, inducendoci così a credere che abbiamo facoltà di respingerle,
di «disintossicarci».
Non sorprende, dunque, che eccezion fatta per gli autori di libri accademici e per
qualche politico (di norma quelli non al potere), si senta parlare ben poco di «incertezza
esistenziale» o di «incertezza ontologica», e moltissimo invece – da ogni dove – delle
minacce alla sicurezza delle strade, delle case e delle persone, e quanto si sente
sembra corrispondere appieno a quella che è la nostra esperienza quotidiana, a quanto
vediamo con i nostri occhi. Allorché si parla dei possibili modi per migliorare la
nostra vita, le richieste di eliminare dal cibo che mangiamo sostanze pericolose e
potenzialmente letali e di ripulire le strade da estranei imperscrutabili e potenzialmente
pericolosi sono quelle sollevate più spesso, nonché quelle che appaiono più credibili,
più evidenti, di tutte le altre. Agire in un modo che contraddica tali richieste è
ciò che con maggiore facilità siamo portati a classificare come comportamento criminale
e che desideriamo venga punito con la massima severità.
Antoine Garapon, studioso del diritto francese, ha rilevato che se tutte le azioni
malvagie perpetrate «in alto», nelle stanze dei bottoni delle grandi compagnie multinazionali,
restano di regola ben nascoste, e qualora vengono fugacemente esposte al pubblico
sono di norma scarsamente comprese e oggetto di un’attenzione men che effimera, la
rabbia dell’opinione pubblica raggiunge il parossismo quando si tratta di danni causati
al corpo umano. Tabagismo, molestie sessuali ed eccesso di velocità alla guida, i
tre crimini che l’opinione pubblica condanna con maggiore fermezza e per i quali chiede
le pene più severe, non hanno nulla in comune se non la paura per una minaccia all’integrità
fisica. Nel suo acclamato libro di sfida alle élites politiche – e appropriatamente
intitolato Protect or Go Away («Proteggeteci o smammate») – Philippe Cohen cita la «violenza urbana» fra le tre
maggiori cause di ansia e infelicità (insieme alla disoccupazione e alla vecchiaia
priva di sicurezza).
Per quanto concerne la percezione dell’opinione pubblica, la convinzione che la vita
urbana sia intrisa di pericoli e che l’eliminazione dalle strade di estranei invadenti
e forieri di pericoli sia la più urgente delle misure da prendere per riconquistare
la sicurezza perduta sono assiomi che non richiedono dimostrazione e non ammettono
repliche.
Nella sua approfondita indagine sul significato del termine «vivere insieme» nelle
città di oggi, Henning Bech sostiene che, poiché le città in cui la maggior parte
di noi oggi vive sono «grandi, densi e permanenti gruppi di eterogenei esseri umani
in circolazione», luoghi nei quali siamo destinati a muoverci come forsennati in una
«ampia e sempre mutevole folla di estranei di tutte le razze che si incrociano costantemente»,
tendiamo a «diventare agli occhi di tutti una mera facciata, per il semplice motivo che questa è l’unica cosa che si può notare in uno spazio
urbano affollato da un mucchio di estranei». Ciò che vediamo «in superficie» è la
sola unità di misura di cui disponiamo per valutare l’estraneo. E quanto scorgiamo
può farci presumere qualcosa di buono, ma può anche farci presagire un pericolo; se
tutto ciò che vediamo di un individuo è la facciata (e per di più sempre «di volata»),
ci sono ben poche possibilità di dialogare e capire cosa c’è dietro. E l’arte di vivere
in mezzo a una folla di estranei le azzera del tutto: troncare la conoscenza prima
che questa vada al di sotto della superficie è il suo più comune stratagemma.
Nella nostra epoca civilizzata abbiamo rinunciato alle etichette, ai marchi di infamia
o ai berretti a corno, tutti elementi che ci avvisavano quando e da chi tenerci a
distanza, ma abbiamo escogitato tutta una serie di surrogati che servono esattamente
lo stesso scopo. Le «facciate» o superfici ne sono piene; ce ne sono troppi perché
possiamo riconoscerli tutti. Via via che la massa urbana diventa sempre più variegata,
aumentano di pari passo le possibilità di incappare negli equivalenti moderni delle
anime dannate, così come cresce il sospetto che potremmo essere troppo lenti o del
tutto incapaci di leggere il messaggio contenuto in una visione non familiare. Abbiamo
dunque motivo di preoccuparci, e a quel punto ci vuole poco a proiettare le nostre
paure sugli estranei che le hanno scatenate e accusare la vita urbana di essere pericolosa:
pericolosa a causa della sua eterogeneità.
Se solo la città potesse essere ripulita di quella eccessiva eterogeneità, ma preservare
al contempo un livello di varietà tale da continuare a garantire una vita divertente
e piena di piacevoli avventure com’è sempre stata, salvare in parte il sale della
vita di cui noi, i moderni, non potremmo fare a meno... Al pari del sogno di bere
e avere sempre la bottiglia piena, questi due desideri sono incompatibili e, tuttavia,
i modelli più popolari (e seducenti) di progetti comunitari promettono di esaudirli
entrambi. E proprio questo li rende irrealizzabili.
L’attrazione che il sogno comunitario esercita sulla comunità poggia sulla promessa
della semplificazione; portata al suo limite logico, semplificazione significa un
livello minimo di varietà in un mare di identicità. Questo obiettivo può essere raggiunto
soltanto attraverso l’espunzione delle differenze: riducendo la probabilità di incontrarne
e restringendo il flusso di comunicazione. Tale sorta di unità comunitaria è fondata
sulla divisione, sulla segregazione, sul mantenere le distanze. Sono queste le virtù
che spiccano con maggior enfasi nei manifesti pubblicitari dei rifugi comunitari.
Tale incertezza, mediata dall’espediente di riversare tutta la propria ansia nelle
questioni di sicurezza, era la causa principale della malattia cui il comunitarismo
avrebbe dovuto porre rimedio: la comunità del progetto comunitario non può che esacerbare
la condizione che aveva promesso di curare. E lo farà rendendo ancor più potenti le
pressioni atomizzatrici le quali erano, e continuano a essere, le maggiori fonti di
insicurezza. Questo genere di idea comunitaria è anche reo di aver appoggiato e sanzionato,
in nome della sicurezza, la scelta del luogo in cui dislocare il grosso delle truppe
del dissenso e in cui combattere la battaglia decisiva contro l’incertezza, contribuendo
in tal modo a sviare l’attenzione pubblica dalle principali fonti di ansia dell’epoca
contemporanea.
Nel corso di tale articolazione di intenti e funzioni della comunità, gli altri aspetti
della comunità assenti nella vita contemporanea (quelli direttamente correlati alle
fonti dei problemi odierni) tendono a restare ignorati. I due compiti che la comunità
dovrebbe farsi carico di assolvere per affrontare di petto le patologie dell’odierna
società atomizzata su un campo di battaglia realmente significativo sono la parità
di risorse necessarie a trasformare la condizione di individui de iure nelle prerogative godute dagli individui de facto, e l’assicurazione collettiva contro le sventure e disgrazie individuali. Questi
due propositi sostanziavano le virtù dell’originaria comunità, per quanti altri demeriti
essa potesse avere. La pensée unique della nostra società di mercato deregolamentato se ne infischia di tali propositi
e proclama apertamente che sono controproducenti, ma i fautori della comunità, teoricamente
i nemici giurati di questo genere di società, sono riluttanti a radunare le proprie
forze a difesa di tali compiti abbandonati.
Nel nostro mondo sempre più globalizzato viviamo tutti in una condizione di interdipendenza
e, di conseguenza, nessuno di noi può essere padrone del proprio destino. Ci sono
compiti con cui ogni singolo individuo si confronta, ma che non possono essere affrontati
e superati individualmente. Tutto ciò che ci separa e ci istiga a mantenere le distanze
dagli altri, a tracciare confini ed erigere barricate, rende sempre più ardua la gestione
di tali compiti. Tutti noi abbiamo la necessità di acquisire il controllo sulle condizioni
nelle quali affrontiamo le sfide della vita, ma per la gran parte di noi tale controllo
può essere ottenuto solo collettivamente.
Proprio qui, nell’espletamento di tali compiti, l’assenza di comunità è maggiormente
avvertita e sofferta, ma sempre qui, una volta tanto, la comunità ha l’occasione di
smettere di essere assente. Se mai può esistere una comunità nel mondo degli individui,
può essere (ed è necessario che sia) soltanto una comunità intessuta di comune e reciproco
interesse; una comunità responsabile, volta a garantire il pari diritto di essere
considerati esseri umani e la pari capacità di agire in base a tale diritto.
Introduzione
Le parole hanno dei significati; alcune di esse, tuttavia, destano anche particolari
«sensazioni». La parola «comunità» è una di queste. Emana una sensazione piacevole,
qualunque cosa tale termine possa significare. «Vivere in una comunità», «far parte
di una comunità» è qualcosa di buono. Quando qualcuno esce dalla retta via, spieghiamo
spesso la sua condotta insana dicendo che «frequenta cattive compagnie». Se qualcuno conduce una vita miserabile, piena di sofferenze e priva di dignità,
subito accusiamo la società, i criteri con cui è organizzata, il modo in cui funziona.
La compagnia o la società possono anche essere cattive, la comunità no. La comunità – questa è la nostra sensazione – è sempre una cosa buona.
Significati e sensazioni di una parola non sono, ovviamente, indipendenti gli uni
dalle altre. «Comunità» suona bene per i significati che tale termine evoca, i quali
sembrano tutti promettere piaceri, e spesso il tipo di piaceri di cui vorremmo tanto
godere e che ci sembrano invece irraggiungibili.
Innanzitutto, la comunità è un luogo «caldo», un posto intimo e confortevole. È come
un tetto sotto cui ci ripariamo quando si scatena un temporale, un fuoco dinanzi al
quale ci scaldiamo nelle giornate fredde. Fuori, in strada, si annida ogni sorta di
pericolo e ogni volta che usciamo dobbiamo sempre stare sul chi vive, badare bene
a chi rivolgiamo la parola e a chi ce la rivolge, tenere costantemente alta la guardia.
All’interno della comunità, viceversa, possiamo rilassarci: lì siamo al sicuro, non
ci sono pericoli in agguato dietro angoli bui (e anzi non esistono proprio «angoli
bui»). All’interno di una comunità la comprensione reciproca è garantita, possiamo
fidarci di ciò che sentiamo, siamo quasi sempre al sicuro e non capita quasi mai di
restare spiazzati o essere colti alla sprovvista. Nessuno dei suoi membri è un estraneo.
A volte si può litigare, ma si tratta di alterchi tra amici e tutti cerchiamo di rendere
la nostra integrazione ogni giorno più lieta e gradevole. Può capitare che, sebbene
guidati dal comune desiderio di migliorare la nostra vita comune, discordiamo sui
modi per raggiungere tale obiettivo e, tuttavia, non desideriamo mai il male altrui
e possiamo essere certi che tutti coloro che ci circondano non desiderano altro che
il nostro bene.
In secondo luogo, in una comunità possiamo contare sulla benevolenza di tutti. Se
incespichiamo o cadiamo, gli altri ci aiuteranno a risollevarci. Nessuno oserà prenderci
in giro, nessuno si prenderà gioco della nostra goffaggine o godrà delle nostre disgrazie.
Se compiamo un passo falso, possiamo ancora confessare, spiegare e chiedere scusa,
pentirci se necessario; saremo ascoltati con spirito di comprensione e perdonati,
e nessuno serberà rancori eterni. Nei momenti di tristezza ci sarà sempre qualcuno
pronto a tenerci per mano; se incappiamo in un brutto periodo o ci troviamo in un
momento di bisogno, nessuno pretenderà una ricompensa per prestarci soccorso e tirarci
fuori dai guai, né ci chiederà come e quando ci sdebiteremo, ma soltanto di cosa abbiamo
bisogno. E nessuno dirà mai che non è tenuto ad aiutarci o si rifiuterà di farlo perché
non esiste alcun contratto che lo obblighi, o perché non abbiamo letto attentamente
la postilla scritta a caratteri minuscoli in calce a un simile documento. In breve,
aiutarci reciprocamente è un nostro puro e semplice dovere, così come è un nostro
puro e semplice diritto aspettarci che l’aiuto richiesto non mancherà.
È dunque facile comprendere perché la parola «comunità» emani una sensazione così
piacevole. A chi non piacerebbe vivere tra gente gioviale e di animo buono di cui
potersi pienamente fidare? Per noi in particolare, che viviamo in un’epoca priva di
valori, un’epoca fatta di competitività sfrenata – dove tutti sembrano intenti a curare
solo i propri affari e pochissimi sono quelli disposti ad aiutarci, dove la risposta
alle nostre invocazioni di aiuto è un invito ad arrangiarci, dove solo le banche,
desiderose unicamente di ipotecare le nostre proprietà, sorridono e sono pronte a
dire «sì» e anche questo solo nelle pubblicità e non nelle filiali – la parola «comunità»
ha un suono dolcissimo; evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca
per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi.
In breve, la «comunità» incarna il tipo di mondo che purtroppo non possiamo avere,
ma nel quale desidereremmo tanto vivere e che speriamo di poter un giorno riconquistare.
Raymond Williams, il sagace analista della nostra condizione comune, ha osservato
causticamente che la cosa più straordinaria della comunità è che «è sempre esistita».
Potremmo aggiungere: o che è sempre di là da venire. «Comunità» è oggi un sinonimo
di Paradiso perduto, ma un paradiso nel quale speriamo ardentemente di poter tornare
e di cui cerchiamo dunque febbrilmente la strada.
Paradiso perduto o paradiso anelato: in un modo o nell’altro, di certo non si tratta
del mondo che abitiamo né di quello che conosciamo per esperienza diretta. Forse è
un Paradiso proprio per questi motivi: l’immaginazione, a differenza della dura realtà
della vita, è un regno di irrefrenata libertà. Con l’immaginazione possiamo «scatenarci»
impunemente, dal momento che sono ben poche le speranze di sottoporre quanto immaginato
alla prova della vita reale.
Non è soltanto una questione di pura e semplice discrepanza tra la «dura realtà»,
la realtà dichiaratamente «non comunitaria» o finanche quella esplicitamente anticomunitaria,
e la comunità immaginaria che ci ispira un così «ardente sentimento». Tale discrepanza
non fa altro che stimolare la nostra immaginazione a galoppare ancor più a briglia
sciolta e accrescere il fascino della comunità immaginata (postulata, sognata), che
proprio su di essa fiorisce e prospera. A offuscare questa nitida immagine c’è anche
un’altra differenza: quella tra la comunità dei nostri sogni e la «comunità realmente
esistente»; una collettività che pretende di essere la comunità incarnata, il sogno
realizzato, e che in nome di tutto il bene che si presume possa dispensare esige una
lealtà incondizionata e considera qualsiasi altro atteggiamento un imperdonabile atto
di tradimento. La «comunità realmente esistente», qualora ce ne trovassimo partecipi,
reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare.
Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri
la tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca
comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri
provare questa piacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme
alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far
entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri.
Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una. Il problema
è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno
diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile.
Il privilegio di «vivere in una comunità» richiede un prezzo da pagare, un prezzo
trascurabile o finanche impercettibile fintantoché la comunità resta un sogno. La
valuta con cui si paga tale prezzo è la libertà, variamente definita «autonomia»,
«diritto all’autoaffermazione», «diritto di essere se stessi». Qualunque strada si
scelga, da un parte si guadagna e dall’altra si perde. L’assenza di comunità significa
assenza di sicurezza; la presenza di una comunità, quando si verifica, finisce ben
presto con il significare perdita di libertà. Sicurezza e libertà sono due valori
parimenti preziosi e agognati, che possono essere più o meno adeguatamente bilanciati,
ma quasi mai pienamente conciliati ed esenti da attriti. Quanto meno non è stata ancora
inventata una ricetta sicura per tale conciliazione. Il problema è che la ricetta
con cui vengono realizzate le «comunità realmente esistenti» non fa altro che rendere
la dicotomia tra sicurezza e libertà ancor più acuta e difficile da sanare.
Alla luce dei poco gradevoli attributi di cui la libertà senza sicurezza e la sicurezza
senza libertà sono oberate, si ha la sensazione che non smetteremo mai di sognare
una comunità, ma che mai troveremo in qualsivoglia genere di autoproclamata comunità
i piaceri assaporati nei nostri sogni. La dicotomia tra sicurezza e libertà, e dunque
quella tra comunità e individualità, non sarà probabilmente mai risolta e pare dunque
destinata a perpetrarsi ancora a lungo; il mancato approdo alla soluzione ideale e
la frustrazione suscitata da quella sperimentata ci induce non ad abbandonare la ricerca,
bensì a intensificare gli sforzi. In quanto esseri umani, non possiamo né realizzare
la speranza né smettere di sperare.
Possiamo fare ben poco per sfuggire a tale dilemma: solo negarlo, a nostro rischio
e pericolo. Una cosa buona che possiamo fare, tuttavia, è analizzare un campione di
opportunità e pericoli che le soluzioni oggigiorno proposte e sperimentate hanno in
serbo. Armati di tale conoscenza, potremo così quanto meno evitare di ripetere gli
errori passati, di lanciarci a spron battuto lungo sentieri che già sappiamo essere
meri vicoli ciechi. Dell’analisi di tale campione, certamente temporaneo e ben lungi
dall’essere completo, questo libro è il frutto.
Gli esseri umani non possono vivere senza sicurezza e libertà, ma non possiamo avere entrambe contemporaneamente e nella misura che riteniamo
soddisfacente. Questo non è un buon motivo per smettere di cercare (e se anche lo
fosse, non lo faremmo comunque), ma ci ammonisce a non credere mai che una qualsiasi
delle varie soluzioni temporanee adottate non richieda ulteriore analisi o non possa
essere migliorabile. Il meglio può anche essere un nemico del bene, ma la «perfezione»
è sicuramente un nemico mortale di entrambi.
1.
Il supplizio di Tantalo
Secondo la mitologia greca, Tantalo – figlio di Zeus e Pluto – intratteneva eccellenti
rapporti con gli dei, che lo invitavano spesso a banchettare con loro in occasione
delle feste olimpiche. La sua era – secondo gli standard della gente comune – una
vita gaia, spensierata e nel complesso felice, fino a quando non si macchiò di un
crimine che gli dei non gli perdonarono. Sulla natura di tale misfatto vari narratori
offrono interpretazioni diverse. Alcuni dicono che tradì la fiducia degli dei rivelando
ad altri uomini misteri destinati a restare segreti ai comuni mortali. Altri raccontano
che fosse così presuntuoso da ritenersi più furbo delle stesse divinità e decise di
sfidarne il divino potere di onniveggenza. Altri ancora gli attribuiscono il furto
di nettare e di ambrosia, sostanze che ai mortali era stato vietato di assaggiare.
L’imputazione, come si vede, differisce, ma il motivo per cui tutte e tre queste azioni
furono considerate criminose è lo stesso: Tantalo era colpevole di aver acquisito/condiviso
una conoscenza che né a lui né ad altri mortali come lui era dato possedere. O più
precisamente: Tantalo non si accontentò di possedere la felicità eterna: nella sua
presunzione e arroganza desiderò possedere personalmente ciò di cui poteva godere
solo come dono.
La punizione fu immediata e terribile come solo delle divinità infuriate e vendicative
avrebbero potuto concepire. Data la natura del crimine perpetrato, Tantalo ricevette
una vera e propria lezione dimostrativa: venne tenuto immerso in un fiume fino al
collo, ma non appena abbassava la testa per dissetarsi, l’acqua fuggiva via. Sulla
sua testa pendeva una deliziosa cornucopia di frutta, ma non appena allungava la mano
per saziare la propria fame un improvviso colpo di vento allontanava gli appetitosi
bocconi (è per questo che, ogni qual volta le cose ci sfuggono proprio quando sembravano
– finalmente e dopo tanta fatica – a portata di mano, parliamo di supplizio di Tantalo).
Le storie mitologiche non sono fatte per divertire, bensì per insegnare, attraverso
l’incessante reiterazione del messaggio in esse implicito, un monito che si può dimenticare
o ignorare solo a proprio rischio e pericolo. Il messaggio implicito nella leggenda
di Tantalo è che puoi essere felice, o quanto meno vivere beatamente e senza tribolazioni,
solo fino a quando ti mantieni innocente, ti accontenti di goderti la felicità senza
voler conoscere la natura delle cose che ti rendono felice, e tanto meno cercare di
padroneggiarle. E che se invece ti azzardi a fare una cosa del genere, non riconquisterai
mai più quella felicità eterna di cui potevi godere solo in uno stato di innocenza.
Ciò che cerchi continuerà per sempre a sfuggirti di mano.
Oltre ai greci, anche altri popoli devono essere giunti a credere – sulla base delle
proprie esperienze – nell’eterna validità e perpetua centralità di questo messaggio;
e i greci non furono i soli a includerlo nelle loro edificanti leggende. Una morale
simile è contenuta, ad esempio, nella storia di Adamo ed Eva, rei di aver colto la
mela proibita dall’Albero della conoscenza e per questo puniti con l’espulsione dal
Paradiso; e il Paradiso era tale proprio perché lì potevano condurre una vita spensierata,
non erano chiamati a compiere le scelte da cui dipendeva la propria felicità (o infelicità).
Il Dio ebraico sapeva essere all’occasione non meno crudele e implacabile nella propria
collera degli abitanti dell’Olimpo, e la punizione comminata ad Adamo ed Eva per il
loro atto oltraggioso fu non meno severa di quella inflitta a Tantalo; solo, per così
dire, più sofisticata e di più complessa interpretazione: «Dalla terra trarrai con
grandi fatiche il nutrimento [...]. Col sudore della fronte mangerai il tuo pane».
Nell’enunciare il proprio verdetto, l’incollerito Dio pose di guardia «all’Oriente
del giardino dell’Eden [...] un cherubino con una spada [...] a custodire la strada
che menava all’albero della vita»: un monito ad Adamo ed Eva e alla loro progenie
che per quanto sudore avessero versato, non avrebbero mai più riconquistato la serena
e spensierata felicità della paradisiaca ignoranza: quella felicità purissima è scomparsa
per sempre con la perdita dell’innocenza.
Il ricordo di quella felicità avrebbe tormentato i discendenti di Adamo ed Eva e instillato
loro la speranza di poter un giorno scoprire o tracciare la via del ritorno. Una speranza
destinata a restare vana. Su questo punto non c’è discordanza tra Atene e Gerusalemme:
la perdita dell’innocenza segna un punto di non ritorno. Si può essere realmente felici
solo fino a quando non si è coscienti di quanto si sia felici. Una volta imparato
il significato della felicità, allorché se ne viene privati, i figli di Adamo ed Eva
furono costretti ad acquisire col sudore e le lacrime l’amara sapienza che a Tantalo
era stata servita su un piatto d’argento. Il loro obiettivo non sarebbe mai stato
raggiunto, per quanto prossimo potesse apparire.
Nel libro in cui (intenzionalmente o meno) invitava la «comunità» (Gemeinschaft) a tornare dall’esilio cui era stata condannata in epoca moderna durante la crociata
contro les pouvoirs intermédiaries (accusati di parrocchialismo, limitatezza di orizzonti, di alimentare la superstizione),
Ferdinand Tönnies1 affermò che quanto distingueva la comunità del passato dalla società (Gesellschaft) nascente (moderna), nel cui nome la crociata era stata lanciata, era la reciproca comprensione di tutti i suoi membri. Non un consenso, attenzione: il consenso non è che un accordo raggiunto da persone
che la pensano essenzialmente in modo diverso, il prodotto di snervanti negoziati
e compromessi, di infiniti litigi e di qualche occasionale scazzottata. La pragmatica
(zuhanden, come direbbe Martin Heidegger) comprensione di stampo comunitario non ha bisogno
di essere cercata, e tantomeno di essere laboriosamente costruita o conquistata e difesa a viva forza: quella comprensione «esiste già», bella e pronta da usare, e ci permette di capirci
reciprocamente «al volo», senza mai bisogno di chiedere preoccupati «che intendi dire?».
Il tipo di comprensione su cui poggia la comunità precede ogni sorta di accordo o disaccordo. Non è il traguardo, bensì il punto di partenza di ogni forma di aggregazione. È un «sentimento reciprocamente vincolante», «la forza
vera e reale di chi partecipa a tale aggregazione», ed è grazie a tale comprensione,
e solo grazie ad essa, che gli abitanti della comunità «restano essenzialmente uniti
a dispetto dei tanti fattori di disgregazione».
Molti anni dopo che Tönnies ebbe indicato nella «naturalezza» di tale «comprensione
comune» l’elemento che differenzia la comunità dal mondo di aspri conflitti, intensa
competizione, compromessi e do ut des, l’acuto analista svedese Göra Rosenberg coniò il concetto di «cerchio caldo» (in
un saggio recentemente pubblicato su «La Nouvelle Lettre Internationale»), per caratterizzare
questa stessa sorta di fiduciosa immersione in un mondo fatto di compattezza e solidarietà
umana, una condizione forse un tempo comune al genere umano, ma oggi sempre più rinvenibile
soltanto nei sogni. I pragmatici legami di lealtà e fedeltà esistenti all’interno
del «cerchio caldo» «non derivano da una logica sociale esterna o da una qualsiasi
analisi economica dei costi/benefici». Ed è proprio questo che rende «caldo» il cerchio:
in esso non c’è spazio per il freddo calcolo e la meccanicistica acquisizione di qualunque
cosa la società circostante presenti – in modo algido e incolore – come «razionale».
E questo è esattamente il motivo per cui la gente intirizzita dal freddo sogna quel
cerchio magico e vorrebbe ritagliarsi il freddo mondo reale a propria misura. All’interno
del «cerchio caldo» essi non dovranno dimostrare nulla; e qualunque cosa facciano,
potranno sempre attendersi simpatia e aiuto.
Proprio perché è così palese e «naturale», la reciproca comprensione che crea la «comunità»
(o il «cerchio caldo») non viene mai notata (non facciamo certo caso all’aria che
respiriamo, se non a quella stantia e maleodorante di una stanza chiusa che a volte
ci capita di inalare); è, come afferma Tönnies, qualcosa di «tacito» (o di «intuitivo»,
per usare l’espressione di Rosenberg). Naturalmente, anche una comprensione artefatta,
acquisita, può essere tacita o trasformarsi in una sorta di intuito interiorizzato. Lunghi
negoziati possono produrre un accordo che, se quotidianamente rispettato, può trasformarsi
in una consuetudine a cui non si pensa più e che quindi non necessita di essere costantemente
verificata. Ma a differenza di tali sedimenti di passati tentativi e tribolazioni,
la comprensione comune propria di una comunità è tacita «per sua natura intrinseca»:
Ciò in quanto la sostanza della reciproca comprensione è qualcosa di inesprimibile,
indefinibile e incomprensibile [...]. La vera concordia non può essere prodotta artificialmente.
Poiché «comunità» è sinonimo di «naturale» e «tacita» comprensione comune, non sopravviverà
al momento in cui tale comprensione diventa autocosciente e viene dunque conclamata;
il momento in cui, per rifarsi a Heidegger, la comprensione passa dallo stato «zuhanden» a quello «vorhanden» e diventa oggetto di contemplazione ed esame. La comunità non può che esistere in
uno stato di torpore o morire. Allorché inizia a esaltare la peculiarità dei propri
valori, a incensare la propria pura bellezza e ad affiggere ovunque prolissi manifesti
in cui incita i propri membri ad apprezzare le sue meraviglie e intima a tutti gli
altri di ammirarle o tacere, si può esser certi che la comunità non esiste più (o
non esiste ancora, a seconda dei casi). Una comunità «di cui si parla» (o più esattamente,
una comunità che parla di se stessa) è una contraddizione in termini.
Non che la comunità reale, vale a dire non quella «prodotta artificialmente» o semplicemente
immaginata, abbia molte possibilità di cadere in tale contraddizione. Robert Redfield2 concorderebbe con Tönnies sul fatto che in una vera comunità non c’è alcun incentivo
alla riflessione, alla critica o alla sperimentazione; tuttavia, si affretterebbe
a spiegare, ciò avviene perché la comunità è fedele alla propria natura (o al suo
modello ideale) solo nella misura in cui è un’entità peculiare rispetto ad altre forme di aggregazione umana (appare cioè chiaro «dove inizia e dove
finisce»), piccola (tanto piccola da poter essere vista in tutta la sua interezza da tutti i suoi membri)
e autosufficiente (capace cioè, afferma Redfield, di «provvedere a tutte o quasi tutte le attività
e necessità dei suoi membri. La piccola comunità è un tipo di organizzazione ‘dalla
culla alla bara’»).
La scelta degli attributi di Redfield non è casuale. «Peculiare» significa: la divisione
tra «noi» e «loro» è assoluta e totale, non esistono vie di mezzo, è perfettamente
chiaro chi è «uno di noi» e chi no, non c’è alcun motivo di confusione, nessuna ambiguità
cognitiva e, dunque, nessuna ambivalenza comportamentale. «Piccola» significa: la
comunicazione tra i suoi membri è densa ed esaustiva e pone dunque i segnali sporadicamente
provenienti «dall’esterno» in posizione di svantaggio per via della loro relativa
saltuarietà, superficialità e meccanicità. «Autosufficiente» significa: l’isolamento
dagli «altri» è totale, le possibilità di spezzarlo rare e remote. Tutti e tre questi
elementi si coalizzano per proteggere quanto più efficacemente possibile i membri
della comunità da qualunque minaccia alle loro consuetudini. Fino a quando ciascuno
di questi elementi resta immutato, è assai poco probabile che possano nascere impulsi
alla riflessione, alla critica e alla sperimentazione.
Fino a quando... In realtà, l’incorrotta coesione della «piccola comunità» di Redfield dipende
dalla capacità di chiudere i canali di comunicazione con il resto del mondo abitato.
La coesione della comunità, direbbe Redfield, o la «naturalezza» della comprensione
comune, come preferirebbe chiamarla Tönnies, sono fatte entrambe della stessa pasta,
e cioè di omogeneità, di identicità (sameness).
L’identicità entra in crisi nel momento stesso in cui le condizioni della sua esistenza
iniziano a vacillare: quando la bilancia tra comunicazione «interna» ed «esterna»,
un tempo fortemente inclinata a favore della prima, comincia a riequilibrarsi e dunque
a offuscare la differenza tra «noi» e «loro». L’identicità svanisce allorché la comunicazione
tra membri di una comunità e mondo esterno diventa più intensa e pregnante di quella
esistente tra i membri dell’enclave.
L’aprirsi di una breccia nelle mura fortificate della comunità apparve un epilogo
inevitabile con l’avvento dei mezzi di trasporto meccanici; veicoli di informazioni
alternative (o di persone la cui stessa estraneità costituiva un’informazione distinta
e in conflitto con la conoscenza internamente disponibile) poterono ora in via di
principio viaggiare con uguale o maggiore rapidità del sistema del passaparola inventato
e adottato entro i confini della «naturale» mobilità umana. La distanza, un tempo
la più formidabile delle difese comunitarie, perse gran parte della propria rilevanza.
Il colpo di grazia alla «naturalezza» della comprensione comunitaria giunse, tuttavia,
con l’avvento dell’informatica, vale a dire con l’emancipazione del flusso di informazioni
dal movimento dei corpi. Allorché le informazioni hanno la possibilità di viaggiare
indipendentemente da chi le emana e a velocità ben superiore rispetto a quella dei
più avanzati mezzi di trasporto (come accade nel tipo di società in cui viviamo oggi),
il confine tra «interno» e «esterno» non è più tracciabile, e tanto meno difendibile.
A partire da questo momento, l’omogeneità va «estratta a forza» da un ingarbugliato
intrigo di varietà usando gli strumenti della selezione, della separazione e dell’esclusione;
qualsiasi forma di unità va creata, la concordanza «prodotta artificialmente» è l’unica forma di unità disponibile.
La comprensione comune può essere solo una conquista ottenuta (semmai vi si riesca) al termine di un lungo e laborioso processo di discussione
e persuasione e in feroce competizione con un’infinità di concorrenti, tutti alla
ricerca di attenzione e tutti pronti a promettere una più allettante (più corretta,
più efficace o più piacevole) gamma di soluzioni ai problemi della vita. E una volta
raggiunto, l’accordo concluso sarà sempre segnato dalla memoria dei passati conflitti
e dalle scelte operate nel loro corso. Per quanto solido possa apparire, un simile
accordo non sarà mai, dunque, «naturale» e «assiomatico» come quello esistente nelle
comunità di Tönnies e Redfield, per quanto intensamente i suoi promotori e portavoce
possano sforzarsi di dimostrare il contrario. Non sarà mai immune da ulteriori ripensamenti,
discussioni e conflitti; tutt’al più potrà raggiungere lo status di un «contratto
rinnovabile»: un accordo ad accordarsi da rinnovare periodicamente, ma il cui esito
non è mai scontato.
La comunità fatta di comprensione comune, dunque, quand’anche la si riuscisse a creare,
resterà sempre un’entità fragile e vulnerabile, costantemente bisognosa di vigilanza,
fortificazione e difesa. Chi dunque sogna la comunità, nella speranza di trovarvi
la tanto agognata sicurezza di vita quotidiana e scrollarsi di dosso l’incombenza
di dover compiere scelte sempre nuove e rischiose, è destinato a restare deluso. La
tranquillità che eventualmente riusciranno a conquistare sarà sempre «a tempo determinato».
Anziché l’isola di «comprensione naturale», il «cerchio caldo» in cui poter abbassare
la guardia e deporre le armi, la comunità realmente esistente apparirà come una fortezza assediata e sottoposta a incessanti bombardamenti da parte
di (spesso invisibili) nemici esterni, nonché sovente dilaniata da discordie interne;
torrioni e posti di guardia saranno i luoghi dove chi cerca il calore, il decoro e
la tranquillità comunitaria sarà costretto a trascorrere gran parte del proprio tempo.
Questa considerazione appare così evidente da sfiorare la banalità: una volta «disfatta»,
la comunità – a differenza dell’Araba fenice con la sua magica capacità di risorgere
dalle proprie ceneri – non può più essere ricostruita. E se mai lo fosse, non sarà
certo uguale a quella preservata nella memoria (o più precisamente quella evocata
da una fantasia infervorata dalla perpetua sensazione di insicurezza), l’unico modello
di comunità desiderabile, in quanto migliore soluzione possibile a tutti i guai che
affliggono la terra. Tutto ciò appare scontato, ben di rado tuttavia – o forse mai
– logica e sogni umani vanno nella stessa direzione. E ci sono buoni motivi per ritenere,
come vedremo, che comunque le loro strade non potranno mai convergere.
Come Eric Hobsbawm ha recentemente osservato, «mai il termine ‘comunità’ è stato usato
in modo tanto insensato e indiscriminato come nei decenni in cui le comunità nel senso
sociologico del termine sono diventate sempre più difficili da trovare nella vita
reale»3; commentando poi: «Uomini e donne cercano gruppi di cui possano far parte, in modo
certo e imperituro, in un mondo in cui ogni altra cosa è in perenne movimento, in
cui non esiste nient’altro di sicuro»4. Jock Young ha aggiunto una succinta e pungente glossa all’osservazione e al commento
di Hobsbawm: «Nel momento in cui la comunità crolla, viene inventata la nozione di
identità»5.
«Identità», la parola d’ordine del giorno, merita appieno l’attenzione che attira
e le passioni che suscita, in quanto è un surrogato della comunità, di quella presunta «casa naturale» o cerchio che resta sempre caldo, non importa
quanto gelidi siano i venti che soffiano all’esterno. Nessuna delle due cose è oggi
disponibile nel nostro mondo sempre più privatizzato e individualista, sempre più
globalizzato, e proprio per questo motivo entrambe possono essere tranquillamente
immaginate – senza timori di verifiche concrete – come un confortevole rifugio fatto
di sicurezza e tranquillità, e in quanto tali fortemente desiderate. Il paradosso,
tuttavia, è che per poter offrire anche un modesto livello di sicurezza e in tal modo
assolvere in certa misura a un ruolo curativo o lenitivo, l’identità deve tradire
la propria origine, deve negare di essere «solo un surrogato»: deve evocare un fantasma
di comunità identica a quella che va a sostituire. L’identità fiorisce sul cimitero
delle comunità, ma lo fa grazie alla promessa di resurrezione dei morti.
La vita dedita alla ricerca dell’identità ridonda di parole insensate. «Identità»
significa uscire dal mazzo, significa essere diversi e in quanto tali unici; e, dunque,
la ricerca dell’identità non può che dividere e separare. Tuttavia, la vulnerabilità
delle singole identità e la precarietà del processo di costruzione della singola identità
inducono i creatori di identità a cercare delle grucce su cui appendere tutte le loro
paure e ansie vissute a livello individuale e quindi – una volta fatto ciò – a eseguire
i rituali esorcistici in compagnia di altri individui afflitti dalle medesime ansie
e paure. Se tali «comunità-gruccia» forniscano o meno quanto si chiede loro – un’assicurazione
collettiva contro le incertezze vissute a livello individuale – è questione controversa;
non c’è dubbio, tuttavia, che procedere spalla a spalla lungo la stessa via, erigere
barricate in compagnia di altri o trovare conforto in una trincea affollata può essere
un temporaneo balsamo contro la solitudine. Che i risultati ottenuti siano buoni o
cattivi, o che non si ottengano affatto risultati, almeno qualcosa è stato fatto;
ci si può consolare all’idea di essersi rifiutati di fare da bersaglio fisso e subire
i colpi a capo chino. Non sorprende, dunque, che – come ci ammonisce Jonathan Friedman
– nel nostro mondo sempre più globalizzato «una cosa che non sta accadendo è la scomparsa
dei confini. Al contrario, sembra che ne sorgano sempre di nuovi a ogni angolo di
strada di qualsiasi fatiscente quartiere del nostro pianeta»6.
Nonostante quanto affermano le guardie di frontiera, i confini che esse proteggono
non sono stati tracciati per recintare e difendere la peculiarità delle identità già
esistenti. Come il grande antropologo norvegese Frederick Barth ha spiegato, è vero
il contrario: le apparentemente collettive identità «comunitarie» sono effetti o prodotti
secondari di una perennemente incompleta (e in quanto tale, sempre più febbrile e
crudele) opera di demarcazione di confini. Solo dopo che i paletti sono conficcati
e i fucili puntati contro i trasgressori, vengono ripescati i miti sul carattere antiquato
dei confini e le recenti origini culturali/politiche del concetto di identità, accuratamente
coperte dalle «storie della genesi». Tale stratagemma tenta di mascherare il fatto
che (per citare Stuart Hall)7 una cosa che l’idea di identità non fa risaltare è un perennemente immutato «nocciolo duro di individualismo» che accompagna
tutte le vicissitudini della storia, dall’inizio alla fine».
Gli odierni cercatori della comunità sono condannati allo stesso destino riservato
a Tantalo: il loro oggetto del desiderio è destinato a restare irraggiungibile, e
sono i loro stessi zelanti tentativi di raggiungerlo a farlo ogni volta allontanare.
La speranza di quiete e tranquillità che rende così attraente la comunità dei loro
sogni verrà spazzata via ogni qual volta essi dichiarano, o sentono dire, che la casa
comune che essi cercavano è stata alfine trovata. Al supplizio di Tantalo si aggiunge,
rendendolo ancor più penoso, quello di Sisifo. «La comunità realmente esistente» sarà
diversa da quella da essi sognata e più simile al suo esatto contrario: accrescerà
– anziché acquietare o far sparire – le loro paure e insicurezze; richiederà un’ininterrotta
vigilanza e un continuo affilar di spada in una lotta pressoché quotidiana, volta
a
...